Il fascismo sta tornando

Il fascismo sta tornando? Rileggere Pasolini | Pietro Polito

Pietro Polito

Gli amici del Centro Gobetti salutano con affetto la nomina a Senatrice a vita della Repubblica di Liliana Segre. “La mia missione è non dimenticare. La mia missione è raccontare cosa è avvenuto veramente. E non perdono: chi sono io per perdonare? Potrei perdonare gli atti commessi contro di me. Ma ho visto quello che è stato fatto agli altri che non possono raccontarlo. Ecco, da oggi ho la responsabilità di portare al Senato della Repubblica quelle voci che rischiano di disperdersi. Finché avrò la forza, continuerò a raccontare ai ragazzi la follia del razzismo. Senza odio, senza spirito di vendetta. Sono una donna libera. E la prima libertà è quella dall’odio”. (L. Segre, “Io, da Auschwitz a senatrice a vita ma non dimentico e non perdono”, intervista a cura di Simonetta Fiori, “la Repubblica”, sabato 20 gennaio 2018, p. 11.

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Alla domanda: “Il fascismo sta tornando?”, Guido Caldiron fa bene a rispondere con un’altra domanda: “E se in realtà non se ne fosse mai andato?”, precisando: “Se il fascismo sta tornando, qualcuno gli avrà pure aperto, e da tempo, la porta”.

I segni del fascismo che torna sono numerosi e non sono solo di oggi, anzi sono rintracciabili lungo il corso di almeno gli ultimi trent’anni. Ne elenco i principali: 1. la sostanziale “normalizzazione” del fascismo storico; 2. l’egemonia politica, culturale, simbolica della destra; 3. la rivalutazione del nazionalismo, dei confini, delle piccole patrie; 4. l’insorgenza sulla scena politica e sociale dei “nuovi fascisti del terzo millennio”; 5. l’adozione pressoché generalizzata di un vocabolario politico intollerante, se non sotterraneamente razzista verso lo straniero e il diverso: rom, migranti, nomadi; 6. la diffusione di un sentimento di rancore che si manifesta nella caccia al capro espiatorio, che non denota solo il fascismo in senso stretto, ma si manifesta trasversalmente come un carattere antropologico generale (René Girard); 7. la sistematica rimozione di una sottocultura della violenza che non esita a tradurre in pratica le parole d’ordine dell’odio e della sopraffazione.

Il fascismo è attuale “non perché siamo di fatto già circondati da un nuovo fascismo ma perché è una reale possibilità delle società avanzate, una scorciatoia della politica e anche della mente e sta rialzando la testa e glielo lasciamo fare”. Si avverte in Europa una stanchezza della libertà, una insofferenza per la democrazia da far dubitare che il fascismo sia uscito per sempre dal nostro destino. (Vengono in mente le pagine di Paura della libertà di Carlo Levi e di Fuga dalla libertà di Erich Fromm). La passione dominante è la paura.

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Il fascismo che torna rende quanto mai viva e attuale la lezione di Pier Paolo Pasolini. Come mi suggerisce l’amico Marco Scarnera, Pasolini è stato il testimone disperato di “una resistenza al fascismo, inteso non tanto come fenomeno storico circostanziato, quanto specialmente come minaccia autoritaria strutturale, sempre incombente e (contro)operante, nelle democrazie (post)moderne”. Lo stesso Scarnera sostiene che, “per mantenersi tale in uno stato moderno (e postmoderno), la libertà sia individuale sia collettiva (quindi la democrazia nel significato più alto del termine) è resistenza che non può essere se non operativa contro le spinte autoritarie che la minacciano e la corrodono; dove è in gioco una dialettica che si evolve attraverso due forme di potere intrinsecamente correlate: emancipante, che libera, e dominante, che opprime”. A un capo dell’opposizione c’è in senso lato il fascismo all’altro capo la democrazia nella forma della nonviolenza.

Critico inesorabile del tecno-fascismo, antropologicamente comunista eppure “reazionario” perché nostalgico del mondo contadino, trasparente nella sua sfida omosessuale quando il prezzo da pagare era molto alto, irregolare, Pasolini è l’espressione di una resistenza intellettuale che è l’esatta antitesi del fascismo: una posizione incollocabile, irriducibile a ogni appartenenza finanche a quella dell’anticonformismo militante e paradossalmente liberale (gobettianamente, parlando) nell’estrema difesa dell’individualità, della singolarità, dell’alterità, dell’autonomia.

Il mio Pasolini, scoperto negli anni del liceo, è quello degli Scritti corsari, uscito il 6 novembre di quell’anno, pochi giorni dopo il suo assassinio, in cui si trova la famosa invettiva: “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere”.

L’aria che si respira oggi non è molto dissimile da quella inquinata e contaminata denunciata nella sua ultima intervista, rilasciata il 1 novembre 1975 e pubblicata postuma il 3 novembre in “Stampa Sera”, con il titolo “Oggi sono in molti a credere che c’è bisogno di uccidere”. Quasi presagendo la violenza che stava per abbattersi su di lui, il Poeta scaglia la sua denuncia-testamento: siamo tutti potenziali “nuovi assassini”.  Dopo essere sceso all’inferno, torna avendo visto “altre cose, più cose”, non porta una buona novella ma una verità terribile: “Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale”.

Il rapporto tra il Poeta e la Resistenza è più intenso di quanto non si creda e non si sappia e origina tutto dalla tragica vicenda del fratello combattente Guido, entrato nelle Brigate Osoppo, ucciso barbaramente a colpi di piccone da altri partigiani comunisti, dopo essere riuscito a sfuggire ad un’esecuzione collettiva. In risposta ad una lettera su “Vie nuove” del 15 settembre 1961 aveva parlato del fratello come di un “ragazzo di una generazione che non ammetteva nessuna debolezza, nessun compromesso”, aggiungendo: “è il ricordo di lui, della sua generazione, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo”.

Pasolini sa che la “situazione” contro cui egli si batte è imparagonabile a quella contro cui si è battuta la Resistenza: “Non scherziamo – afferma – sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per ‘scegliere’. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia”. Ripeto: scegliere è sempre una tragedia. Al momento della sua inconsapevole ultima ora il Poeta sembra tornare ancora una volta con il ricordo al fratello Guido.

Le parole del Poeta si riferiscono al suo o al nostro tempo? Sia chiaro: noi non possiamo commettere l’errore di leggere il presente con le lenti del passato. Eppure il visionario Pasolini coglie implacabilmente un perdurante pericolo: “Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogatori e soggiogati. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri.”. La tragedia è che “non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”. Siamo immersi in “una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere a tutti i costi”.

La divisione classica tra deboli e potenti, vittime e colpevoli, buoni e cattivi si è fatta più sfumata, meno chiara e netta, perché, “in un certo senso, tutti sono i deboli perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere”. Agli oppressi che volevano “abbattere quel padrone turpe senza diventare quel padrone”, si sono sostituiti “altrettanti predoni che vogliono tutto a qualunque costo”.

Pare che siamo nelle mani di un “macchinista impazzito o di un “criminale isolato” oppure alla mercé di un complotto: “Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità”. Che fare? Pasolini “rimpiange”, ma non crede più alla “rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa”.

La sua risposta è quella del profeta disarmato: “L’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. […]. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto, per funzionare, deve essere grande, non piccolo, totale, non questo o quel punto, ‘assurdo’, non di buon senso”.

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Che cosa possiamo fare noi? In particolare che cosa possiamo fare noi che operiamo negli istituti culturali che si richiamano all’antifascismo e alla Resistenza?

Proviamo a ragionare e ad agire intorno ad alcuni punti:

  • Affermare che i valori dell’antifascismo e della Resistenza costituiscono la nostra identità;
  • Reagire alla banalizzazione del fascismo e al generale clima assolutorio nei suoi confronti;
  • Demistificare la leggenda di un fascismo buono e di un nazismo cattivo;
  • Ribadire che il fascismo è stato violenza, sopraffazione, privazione di libertà;
  • Contrastare la paura che fa perdere lucidità e ci rende fragili culturalmente.

Proviamo a rispondere alla domanda: “Come si può rifondare un discorso antifascista per i giovani nati a fine Novecento e negli anni Duemila?”. Se la pagina facebook “I giovani fascisti italiani” piace a oltre 27.000 persone, se giovani leader politici di questo paese ritengono l’antifascismo un concetto superato o farneticano di “sostituzione etnica”, se un candidato governatore in una importante regione del nord afferma che “dobbiamo decidere se la nostra razza bianca debba continuare ad esistere”, occorre tornare seriamente, e in fretta, a interrogarsi su come il racconto dell’antifascismo possa riguadagnare senso ed efficacia, perché “il neofascismo consapevole alligna in un vastissimo terreno di fascismo inconsapevole”.

Il sentimento e la memoria sono necessari ma non bastano per un antifascismo consapevole. Non possiamo continuare a ragionare con i nostri vecchi schemi, le farsi fatte, le formule mandate a memoria. La via è quella indicata dal Poeta: la critica di un sistema di educazione che ci divide in soggiogatori e soggiogati e ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere a tutti i costi.


Fonte: Centro studi Piero Gobetti

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