Scenari di pace per il 2018

Angela Dogliotti

Il 2018 si apre su uno scenario inquietante: crescenti diseguaglianze, squilibri, guerre, in un contesto di forte competizione per il controllo economico e politico mondiale tra Occidente e nuove potenze emergenti a Oriente; scarsità delle risorse e cambiamenti climatici che acuiscono le crisi, rivelando la fragilità di sistemi sociali e modelli di sviluppo intrisi di violenza diretta, strutturale, culturale, e insostenibili dal punto di vista ambientale.

La punta dell’iceberg di questa situazione è rappresentata dai numerosi conflitti armati, 50 nel 2016 secondo l’UCDP (Uppsala Conflict Data Program) dell’Università di Uppsala, con 102.330 morti, concentrati in Africa e Asia. Tra il 1989 e il 2016 la stima è di 2,2 milioni di vittime, di cui la maggior parte civili (tra il 60 e l’80%).

Sempre nel 2016 sono stati 68 milioni i profughi a causa di guerre e 19 milioni quelli causati da disastri ambientali, mentre si stima che nel 2050 potrebbero essere ben 3 miliardi coloro che non avranno accesso all’acqua potabile per le conseguenze dei cambiamenti climatici in atto.

In questo quadro si registra un crescente senso di insicurezza, di disorientamento e di paura, sul quale soffia il vento dei populismi e delle destre di qua e di là dall’Oceano, mentre l’istituzione internazionale nata dopo la seconda guerra mondiale per dirimere pacificamente le controversie internazionali, l’ONU, è debole e delegittimata e lo strumento militare sembra essere l’unico capace di rispondere alle sfide del XXI secolo.

Anche l’Italia, che secondo l’art.11 della sua Costituzione, di cui ricorre proprio nel 2018 il settantesimo anniversario, ripudia la guerra, è tra i primi dieci esportatori di sistemi d’arma nel mondo e il volume di questo export nel settore è passato dai 3 miliardi di euro nel 2010-2014, ai 14,6 miliardi nel 2016, mentre il bilancio della difesa è cresciuto del 4,6 % tra il 2006 e il 2017, con 31 missioni militari in 21 paesi.i

Tra queste commesse ci sono anche quelle a paesi in guerra, come l’Arabia Saudita, che servono a rifornire le Royal Saudi Air Force che dallo scorso marzo sta bombardando lo Yemen senza alcun mandato da parte delle Nazioni Unite, esacerbando un conflitto che ha portato a quasi 6mila morti di cui circa la metà tra la popolazione civile (tra cui 830 tra donne e bambini) e alla maggior crisi umanitaria in tutto il Medio Oriente”ii spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo , nonostante la legge 185 del 1990 imponga di evitare l’esportazione di sistemi militari nelle aree di conflitto armato.

Dobbiamo dunque rassegnarci e affidarci ad un futuro sempre più armato, nel quale vige la legge della giungla e sopravvive solo il più forte, attrezzandoci in questa direzione?

Tale prospettiva, non solo è rischiosissima perché, in presenza dell’armamento nucleare, mette in gioco la sopravvivenza stessa dell’intera umanità, ma è anche del tutto incapace ed inidonea ad affrontare le sfide poste dalla insostenibilità del nostro stile di vita e di consumo e da un modello economico lineare basato sulla crescita illimitata, incompatibile con un mondo finito e con la vita ciclica dei sistemi naturali che ci ospitano e dai quali dipendiamo per la nostra sopravvivenza.

Dove guardare, allora, per trovare vie di uscita percorribili?

Nel 2018 ricorrono tre importanti anniversari, tra diversi altri, dai quali ci giungono preziose indicazioni.

Il primo è il centenario della fine della prima guerra mondiale. E’ importante ricordare che non la vittoria va celebrata, vittoria che è stata un terreno inquinato nel quale hanno trovato nutrimento fascismo e nazismo, ma la pace, la fine di un massacro che ha distrutto intere generazioni di giovani europei, alcuni dei quali convinti dalla propaganda bellica ad offrirsi volontari, altri reclutati come carne da macello e ingoiati dalla spaventosa macchina da guerra che ha prodotto più di 10 milioni di morti.

Oggi è chiaro ciò che quella guerra è stata e va reso onore a chi ha cercato di opporsi, di contrastarla, di reagire alla disumanizzazione con comportamenti di pace, di resistenza, di fraternizzazione.

E’ l’obiettivo di una narrazione storica che, a partire da lì e con uno sguardo rivolto al futuro, sappia mettere in luce i molteplici tentativi di costruire la pace con mezzi alternativi a quelli, illusori, della guerra, comparsi in diversi contesti e latitudini, da allora ad oggi.

E’ questo un progetto che il Centro Studi Sereno Regis ha in cantiere da anni e che sfocerà nella mostra “Cento anni di pace”.

Questo percorso incrocia due altri importanti anniversari: i 70 anni dalla morte di Gandhi (30 gennaio 1948) e i 50 anni dalla scomparsa del filosofo italiano che ha fatto conoscere per primo in Italia l’opera e la figura dell’artefice dell’indipendenza indiana: Aldo Capitini (19 ottobre 1968), animatore della prima marcia per la pace Perugia-Assisi nel 1961 e fondatore del Movimento Nonviolento nel 1962.

Di Gandhi, sia il filosofo italiano docente per diversi anni a Stoccolma, Giuliano Pontara, sia il fondatore della Peace Research, Johan Galtung, sia l’esperienza delle Comunità dell’Arca fondate da Lanza del Vasto hanno mostrato la grande attualità. A livello politico, infatti, egli ha proposto un metodo di lotta, il satyagraha,definito da Pontara “una strategia di conduzione dei conflitti tesa a favorire la ricerca cooperativa della verità attraverso metodologie di lotta che incoraggino la comunicazione, la fiducia, il dialogo”iii; a livello economico-sociale ha visto la follia di un modello di sviluppo occidentale insostenibile (“ Nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma non per la sua avidità”), proponendo , in alternativa, un modello di società in cui il potere è diffuso e l’economia si sostiene su risorse locali e rinnovabili e utilizza tecnologie dolci, al fine di “ vivere semplicemente, per permettere a tutti, semplicemente, di vivere”.

E’ la nonviolenza declinata in tutte le sue dimensioni, da quella politica a quella spirituale, da quella economica a quella sociale, che Capitini ha definito come “il punto della tensione più profonda per il sovvertimento di una società inadeguata”

Utopie?

Alcuni segni positivi in questa direzione ci sono, nonostante lo scenario sconfortante che abbiamo sotto gli occhi.

In tutto il mondo le migliori risorse delle società civili, con la loro mobilitazione, tentano di porre un argine al dilagare di violenze, oppressioni, ingiustizie: dalle grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq del 2003 alle primavere arabe del 2011, dalle campagne per il bando delle armi batteriologiche (1972), chimiche (1993), contro le mine antiuomo (1997), contro le cluster bombs (2008), fino al recente bando delle armi nucleari votato a luglio dall’Assemblea generale dell’ONU; dalle lotte e iniziative dal basso presenti in tutto il mondo per salvaguardare il patrimonio naturale e la vivibilità sul pianeta di tutte le specie, alle diverse proposte e forme di agricoltura alternativa a quella industriale, di ricerca e utilizzo di energie rinnovabili e tecnologie intermedie, di economie di prossimità, dello scambio e del dono, di commercio equo e solidale, di attivazione di forme di democrazia partecipativa…..

Anche nel cuore di conflitti sanguinosi ci sono esperienze e tentativi di proporre strade diverse di contenimento e di non collaborazione con la violenza, come sta facendo , un esempio tra tutte, la Comunità di pace di San Josè de Apartado, in Colombia, da conoscere e sostenere.

Alcuni di questi processi apparentemente non hanno avuto successo o sembrano essere stati sconfitti (ma il seme, nella terra, deve germogliare, prima di dare frutto), altri, invece, hanno avuto un sostegno e un riconoscimento internazionale, come il Premio Nobel per la Pace a ICAN per la lotta a favore del bando delle armi nucleari.

Certo questi processi andrebbero condivisi e aiutati da una politica lungimirante, che sapesse vedere, ad esempio, le prospettive positive di una riconversione civile dell’industria delle armi, i vantaggi dello sviluppo di fonti energetiche rinnovabili e della riduzione dei consumi , di una trasformazione del sistema dei trasporti, di una educazione alla pace e alla trasformazione nonviolenta dei conflitti a tutti i livelli….

Con fatica, lentamente, con difficoltà e contraddizioni, mi pare che, comunque, questi processi si stiano diffondendo e che, come scriveva Capitini, si possa affermare che “la nonviolenza è il varco attuale della storia”

Perché non ci sono alternative. O meglio, un’alternativa c’è: è l’autodistruzione.


Gennaio 2018 – Editoriale #01 – Centro Studi Sereno Regis


NOTE

i Vedi: Maurizio Simoncelli, Guerra e pace nell’età contemporanea, in «Disarmo», Dossier supplemento di «Città Nuova», n.10/2017

ii http://www.huffingtonpost.it/2017/12/30/la-rabbia-delle-ong-il-parlamento-sapeva-delle-bombe-e-ha-ratificato-la-vergogna-in-yemen_a_23320145/

iii Giuliano Pontara, L’antibarbarie, EGA, Torino 2006, pag. 204


1 commento
  1. Pier Giorgio Vis.
    Pier Giorgio Vis. dice:

    Mi complimento per il pensiero sull’aniversario di Aldo Capitini. Che cosa proponete per e in onore alla sua memoria.
    Se ricordo bene Enrico Peyretti era un suo estimatore. Potrebbe tenere una conferenza?? PG

    Rispondi

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