È ora di sfidare il sistema bellico

Jake Lynch

Libere elezioni e liberi mercati” rappresentano “il singolo modello sostenibile per il successo nazionale”. Così dichiarava la Strategia di Sicurezza Nazionale USA pubblicata dall’Amministrazione di George W. Bush nel 2002. È un documento meglio noto per la novità della variazione da esso proposta alla clausola tradizionale ONU per l’uso legale della forza: il concetto di autodifesa preventiva. Non c’è da unire molti trattini per dedurne che i paesi che devino da tale retta via rischiano di esser considerati minacce alla sicurezza e, prosegue il documento:

“Per una mera questione di buonsenso e d’autodifesa, l’America agirà contro tali minacce emergenti prima che siano del tutto formate”.

È un’eresia rispetto al fondamentalismo del libero mercato l’aver messo un regime dopo l’altro sulla linea del fuoco, nel frattempo? Anche prima che Bush entrasse in carica, gli USA e i loro alleati entrarono in guerra per il Kosovo, nella ‘Operation Allied Force’, il bombardamento della Jugoslavia nel 1999, sulla base di un documento programmatico – l’Accordo di Rambouillet – il cui quarto capitolo, a proposito delle questioni economiche, inizia con l’affermazione nuda e cruda:

“L’economia del Kosovo funzionerà secondo i principi del libero mercato”.

L’ufficiale superiore incaricato di quella campagna, il generale Wesley Clark – allora Supremo Comandante Alleato, Europa – incontrò successivamente un vecchio subordinato, attualmente in una funzione sedentaria al Pentagono, che gli disse che il piano dopo gli attacchi dell’11 settembre [2001] era di “togliere di mezzo 7 paesi in 5 anni: Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan & Iran”. Quando gli venne detto che l’informazione era classificata, Clark ordinò alla sua fonte di non mostrargli il memo[randum] trasgressivo.

Oggi, la Somalia è tuttora alle prese con indici multipli di privazione, con uno state a mala pena in grado di adempiere a funzioni basilari; il Sudan è spaccato, con il nuovo stato del Sud Sudan impantanato in una guerra civile, mentre l’Iraq e la Libia sono stati ridotti a macerie. L’Arabia Saudita alleata USA è stata una promotrice principale di una campagna fallita ma pur sempre distruttiva per rovesciare il presidente Assad in Siria, e sta ora minacciando il Libano. Il presidente Trump non ha perso tempo, appena insediatosi, nell’allineare la sua Casa Bianca con Riyadh in una nuova aggressiva campagna contro gli iraniani, dando ad intendere di vedere la malefica influenza di Tehran dietro tutti i problemi della regione.

È diventato un luogo comune nei circoli i politica estera dei paesi che forniscono truppe lamentare la mancanza di un ‘piano’ per i paesi – come l’Iraq e la Libia – le cui autorità governative sono state facili da sloggiare ma ben più difficili da sostituire. L’indagine Chilcot nella partecipazione britannica alla campagna per rovesciare Saddam Hussein si rammarica che il governo dell’allora primo ministro Tony Blair “abbia mancato di tener conto dell’imponenza del compito di stabilizzare, amministrare e ricostruire l’Iraq”.

In vario grado, tutti gli stati dell’elenco mostrato (anzi, ‘non sottoposto’) al generale Clark sono stati inizialmente costruiti a tavolino, poi stabilizzati e amministrati raccogliendo i proventi delle loro risorse naturali ed investendole in ambito pubblico. Non avendo liberi mercati, erano luoghi dove il capitale incontrava barriere al suo ulteriore accumulo. Ora, alcune di tali barriere sono state tolte. Naomi Klein scrive dell’Iraq post-invasione come di un esempio di “capitalismo del disastro”, con le politiche economiche imposte dall’Autorità Provvisoria della Coalizione “che hanno reso tutta quanta l’area interessata una zona imprenditorale piatta – ossia esentasse”. L’amministrazione Bush ce l’aveva sì un piano, continua Klein: “spandere quanto miele possibile, poi aspettare le mosche senza far nulla”.

Quando il gigante aziendale General Electric quest’anno ha raccolto un valore di 1.4 miliardi di dollari in miele sotto forma di un contratto di ricostruzione dell’’industria elettrica irakena, si trattava appunto di un piano giunto a fruizione. La GE, ‘appaltatore della difesa’ con oltre quattro miliardi di dollari annui in vendite d’armi, è anche un attivo contribuente – mediante donatori individuali e Comitati d’Azione Politica – verso partiti e candidati, e una pietra angolare del settore lobbyistico di Washington.

Per il periodo riguardante l’invasione dell’Iraq, ha anche posseduto la rete televisiva NBC, in tal modo disponendo di un mezzo diretto d’influenza dell’opinione pubblica, allorchè gli studi erano gremiti all’inverosimile di generali in pensione. Come il defunto Danny Schechter, film-maker di NewYork, attivista mediatico e “autopsista delle notizie” di memorabile osservazione, Le redazioni dei notiziari TV confezionavano e promuovevano l’invasione dell’Iraq come un prodotto: più che “raccontare” “vendevano”.

Si sono osservate dinamiche che conducessero a una grandiosa cospirazione putativa, che coinvolgesse vari soggetti di vari settori – industria, militare, politica e media – attivi a tramare in segreto per sospingerci alla guerra, a prescindere dalle conseguenze, al fine di far soldi? Qui è dove attingiamo ai concetti forniti dalla sociologia per definire la portata dell’attività politica non nelle parole e negli atti di attori identificabili – l’aspetto ‘comportamentale’ – bensì in quanto forza generativa immagazzinata in e attivata da sistemi e strutture.

Un contributo d’impronta specifica qui è quello di Johan Galtung, cioè la “violenza strutturale” che mantiene a posto barriere invisibili, abrogando il potenziale umano. Poi, non c’è potere esercitato senza un insieme di fini ed obiettivi, ci dice Michel Foucault in Il potere della sessualità; ma questo non vuol dire che dobbiamo cercare “il quartier generale che presiede alla sua razionalità”. In inglese, più o meno in contemporanea, Stephen Lukes scriveva di una “terza dimensione” del potere, oltre quella comportamentale e anche delle agende nascoste, in cui “l’inclinazione del sistema può venire mobilitata, ricreata e rafforzata in modi né scelti consciamente né il risultato intenzionale di ‘scelte’ di soggetti particolari”. Successivamente, lo studioso di comunicazioni Manuel Castells aggiunse un elegante abbellimento, la “società reticolare”, in cui “flussi di potere” identificabili inducono minore “determinazione sociale” che il “potere dei flussi” attorno a reti influenti.

La ragione per cui continuiamo ad avere delle guerre, in breve, è che abbiamo costruito un sistema bellico. Presi insieme, ammonì il presidente Dwight D. Eisenhower in discorso radiofonico d’addio al popolo americano lasciando l’Ufficio Ovale nel lontano 1961, la semplice forza gravitazionale di possenti forze armate e una vasta industria armiera eserciteranno “influenza ingiustificata … cercata o meno”; a meno che sia costretta da “una cittadinanza vigile e attiva”.

Le minacce attuali si annidano negli e colpiscono dagli spazi non regolamentati: il labirinto dell’elusione fiscale rivelato dai Paradise Papers [Panama e analoghi]; le notizie fasulle in proliferazione su Facebook. Le industrie delle armi sono un altro spazio del genere. L’indagine dell’Ufficio Britannico per le Frodi Gravi sulla corruzione nel notorio affare di armi Al Yamamah fra British Aerospace e il governo saudita è stata archiviata, non per carenza di prove verso i sospetti ma perché i sauditi hanno minacciato di interrompere la condivisione dei dati d’intelligence.

Gli scudi anti-missile americani in corso di dispiegamento sia in Est-Asia sia in Est-Europa avevano tante eccedenze rispetto al preventivo che si è reso necessario escogitare un nuovo sistema “contabile a spirale” per giustificarne il costo. Armi di fornitura britannica e americana sono in uso per sbriciolare lo Yemen e la sua popolazione civile, con le preoccupazioni umanitarie sviate da frasi fatte progettate apposta solo per prolungare il varco temporale per il profitto.

Che fare? In Gran Bretagna, secondo trafficante d’armi al mondo dopo gli USA, almeno l’opposizione politica ufficiale è guidata da qualcuno che ‘ci capisce’: Jeremy Corbyn, presidente della Coalizione Stop the War durante gli attacchi all’Afghanistan e all’Iraq. Se e quando i laburisti torneranno in carica, l’elenco delle priorità sarà davvero lungo; ma dovrebbe comprendere la regolamentazione e la riduzione delle forniture di armi. Come ha esplicitamente riconosciuto Corbyn, la partecipazione alle guerre del 21° secolo da parte della GranBretagna ha posto la sua stessa gente a maggior rischio. Dopo che un terrorista della comunità libica di Manchester-sud ha ucciso 21 fruitori di un concerto nella città tempo fa quest’anno, Corbyn ha approfittato di un discorso per sottolineare “le connessioni fra le guerre che il nostro governo ha sostenuto o combattuto in altri paesi, come la Libia, e il terrorismo in patria”.

Anche un ravvivare l’approccio originale dei laburisti GB ai rapporti internazionali sarebbe benvenuto. Nel primo volantino pubblicato dal partito dopo aver adottato la propria costituzione nel 1918, il pensatore fabiano Sidney Webb ripudiava “ogni forma d’Imperialismo”, riconoscendo che ciò comportava l’accettazione del “diritto di ciascun popolo a vivere la propria vita, e a dare il suo specifico contributo al mondo a modo suo”. Il progetto neoconservatore, che imperversa per il mondo in cerca di miscredenti da convertire alla causa delle libere elezioni e dei liberi mercati, ci ha sbattuto in una serie di guerre alimentate dal profitto, rendendo più pericoloso il nostro mondo. È ora che la GranBretagna abbandoni quelle reti nefaste e solleciti altri a fare altrettanto.


EDITORIAL, 20 Nov 2017| #508Prof. Jake Lynch – TRANSCEND Media Service

Titolo originale: Time to Challenge the War System
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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