I giusti nel tempo del male | Alessandro Ciquera


“Dove è Marwan?”

La voce Anas, libanese di una potente e temuta famiglia latifondista di Tel Abbas  risuona nell’aria e spezza il fiato.
La notte è già scesa da circa un paio d’ore ma quello che sento avvicinarsi non ha a che fare con il ciclo naturale del sole e della luna, è qualcosa di più oscuro, più pericoloso. Vediamo Anas muoversi come un ombra ai bordi del campo, probabilmente sotto effetto di qualche sostanza, urla, dimena le braccia, sale e scende le scale di un edificio in costruzione davanti ai nostri occhi allibiti.
Sta cercando Marwan, un giovane Siriano cristiano di Homs, che da un mese ha trovato ospitalità nel nostro campo, dopo essere fuggito dalla guerra in Siria, dopo avere vestito la divisa dell’esercito di Assad, dei governativi, dopo avere subito sulla propria pelle gli orrori della violenza indiscriminata ed esserne uscito miracolosamente vivo; è riuscito a fuggire oltre il confine libanese.
Mentre tutto intorno a noi si fa buio questa sera, ricordo le prime parole che Marwan ci ha detto dopo essere arrivato, con i soli vestiti che aveva addosso, a chiedere una mano a noi e ad altri amici locali.
 “Non avevamo neanche i fucili funzionanti, a malapena vestivamo le divise, mi hanno messo in mano un kalashnikov e mi hanno detto vai in quella direzione, ma io non volevo sparare, non ne sono capace, non volevo uccidere”.
Gli occhi scuri si erano fatti lontani mentre parlava della battaglia di Tadmor (Palmyra), contro le milizie Isis nella regione.
“Non avevo mai visto niente del genere, correvano avanti come se non avessero avuto paura di morire, ma io non desideravo perdere la vita, ho detto a un superiore che non volevo sparare e sono stato da lui colpito con un pugno sopra l’occhio destro”.
Parlava a raffica come se avesse la possibilità di togliere un tappo tenuto sulla coscienza per troppo tempo. Parlava come qualcuno che ha visto la morte ma è sopravvissuto per raccontare, testimone più o meno consapevole di quello che gli è accaduto.
“Eravamo seduti nella nostra postazione quando un razzo di Isis è caduto vicino a noi, non ricordo quasi niente se non il passaggio dalla vita alla morte di due miei amici, ragazzi con cui ero seduto a bere il tè fino a qualche secondo prima e che sono stati tranciati dall’esplosione, non credo abbiano avuto tempo di comprendere che stavano lasciando la loro esistenza. Questi due ventenni erano appena arrivati da noi, arruolati da poco forzatamente, ci eravamo conosciuti così.”
Mentre Marwan parlava ho provato a focalizzare le espressioni e le emozioni di questi due caduti, quello che possono avere provato alla notizia della convocazione obbligatoria al servizio militare, il saluto con gli occhi umidi alle loro famiglie, l’arrivo nella postazione e l’amicizia con Marwan, l’attesa, il te, il razzo, la morte.
Davvero tutto finisce così?.
Quante di queste storie sono state spezzate da questa mietitura spietata. Fiori colti prima dell’arrivo della primavera.
Marwan tuttavia è sopravvissuto, la fortuna o il caso hanno voluto che di quattro soldati ne morissero due, e che lui fosse uno dei superstiti, il quale dopo essersi trascinato sulla cima della collina, è riuscito, ferito, ad essere soccorso e mandato in ospedale a Homs, da lì la diserzione e la fuga in Libano.
La storia di vita di questo ragazzo ci è stata segnalata da Abu Rabia, che nonostante viva in Italia da più di un anno e mezzo grazie ai corridoi umanitari, non smette mai di cucciarsi e struggersi per il destino del suo popolo. Ci segnala in continuazione persone in stato di necessità, musulmani, cristiani, drusi, perché non è importante il credo,
“siamo tutti figli della Siria”.
Marwan è entrato quindi così nelle nostre vite, in punta di piedi, ed è riuscito a farsi volere bene dalla famiglia libanese dei proprietari della terra e da altri siriani del campo. Un ragazzo senza niente da offrire, ferito, per cui è stata fatta valere una delle leggi più antiche del mondo: quella della solidarietà, della porta aperta, di un viso amico contro il terrore e la distruzione.
Le famiglie del campo di Tel Abbas non sono nuclei benestanti, se no sarebbero da un’altra parte, e la stessa famiglia di contadini libanesi affittuari della terra su cui sorgono le tende vive al limite della decenza. Eppure Marwan è stato accolto, vestito, seguito nei suoi bisogni essenziali, anche se con diffidenza da parte di alcuni, ma mai con aperta ostilità. Lo abbiamo aiutato a registrarsi presso le Nazioni Unite a Tripoli e a vedere un medico.
Una giovane coppia del campo lo ha ospitato per settimane dentro la loro tenda di plastica e legno, mentre noi cercavamo una soluzione abitativa alternativa; fino a quando la svolta è arrivata e una organizzazione norvegese ha accettato di ristrutturare l’edificio davanti al campo, per dare una casa a Marwan e ad un altra famiglia di profughi.
Il bene vero, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni si è messo in marcia; fino a questa sera, quando il fantasma della violenza è tornato a bussare alla porta della vita di Marwan.
Anas, che in questo momento urla a una decina di metri da noi cercando il nostro amico, è della stessa famiglia libanese dei contadini che affittano il campo dove abbiamo la presenza, delle stesse persone che hanno accettato Marwan nonostante non potesse pagare nulla.
A differenza loro però Anas sa essere molto aggressivo, in più di una occasione ha minacciato dei profughi avendo armi in pugno, e si è reso responsabile di pestaggi ed intimidazioni per imporre il suo potere coercitivo.
In Italia un simile atteggiamento lo definiremmo mafioso, senza abbellimenti. Forza molte famiglie a comperare nei suoi negozi di alimentari e va a cercare in tenda chi trasgredisce le regole dettate dal suo gruppo.
Una delle figlie dei contadini libanesi mi cerca e mi spiega quello che sta avvenendo, ha gli occhi gonfi di pianto e si vergogna profondamente, ma ci chiede di aiutarla a nascondere Marwan. Se quell’uomo lo trova, gli farà molto male. Senza dare nell’occhio lo facciamo entrare in tenda e chiudiamo la serratura.
Nel frattempo Anas cammina e sbraita come un bufalo, vedo solo il suo profilo robusto tra gli arbusti ai confini del campo, urla che vuole vedere Marwan, ovunque sia. Ci intima di levarci dai piedi.
La tensione è palpabile e chiediamo l’intervento della libanese che ha accolto Marwan come un figlio. So che è una donna forte, capace di tanta forza e coraggio, ha la pelle dura come una quercia, e un profilo esile come quello di un fuscello.
Non delude le mie aspettative e a passo svelto cammina incontro ad Anas per fronteggiare la sua ira e la sua follia, ed insieme ad Abu Mostafa, un altro Siriano del campo, lo fa calmare e sedere ad un tavolo.
“Quale è il tuo problema? Marwan è un bravo ragazzo, non ha famiglia, non puoi permetterti di minacciarlo così, lui è uno di noi ora “.
Anas svincola, cerca di scaricare su Marwan colpe non sue, peccati non commessi. Cerca un capro espiatorio per sfogare il suo odio. Impreca e si allontana nella notte verso casa sua, questa volta definitivamente e senza una preda su cui infierire.
Abu Mostafa, dopo avere garantito sull’onore del giovane cristiano contro Anas, dichiara di volerlo ospitare nella sua tenda fino al mattino, “Nessuno oserà fargli del male qui, hai la mia parola Alex “. Mi guarda con i suoi occhi severi che mette su quando vuole fare trasparire fiducia al prossimo.
Gli preparano un letto caldo e lo accolgono.
Verso mezzanotte ci incamminiamo anche noi lentamente verso i nostri giacigli, ho la testa piena di pensieri da digerire.
Rifletto su quanto i nostri stereotipi sul Medio oriente si infrangano rispetto alla  quotidianità della gente qui. Su quanto rimanga di umano sotto questo cielo stellato: dove un ragazzo cristiano siriano è stato ospitato da famiglie musulmane, lo stesso giovane che è stato difeso dalla violenza e a cui è stato fatto scudo. Marwan è stato salvato in tutti i modi in cui si può salvare una persona, ma questo è qualcosa di cui forse solo i nostri occhi da stranieri si rendono conto. Una nostalgia di un mondo che potrebbe esserci, di un paese inesistente a cui sento tutti apparteniamo.
Mentre guardo il soffitto vellutato della tenda, un pensiero mi illumina e per un attimo ho un tuffo al cuore:

Abu Mustafa, che ha accolto Marwan nella sua tenda, ha perso il figlio più grande a causa di un bombardamento dell’esercito governativo in Siria – gli è morto davanti agli occhi – colpito dallo stesso esercito in cui serviva Marwan fino a qualche mese fa.

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