Bring the boys back home, portare i ragazzi a casa | Fabrizio Rostelli


Against the War. I racconti dei veterani del Vietnam, dell’Iraq e dell’Afghanistan che si oppongono alla guerra

Nell’immaginario collettivo i veterani del Vietnam ricoprono idealmente la figura del veterano di guerra moderno, prima di loro, con le dovute proporzioni, c’erano stati i reduci delle due guerre mondiali. L’apporto dell’industria cinematografica di Hollywood è stato determinante affinché si diffondesse e si radicasse questa percezione.

Nonostante negli ultimi quarant’anni il numero di conflitti a bassa intensità e di guerre vere e proprie è aumentato vertiginosamente, ne sono rimaste poche tracce nella memoria condivisa occidentale. Solo recentemente, grazie soprattutto a diverse opere cinematografiche e di letteratura, ha iniziato a farsi spazio la figura del veterano dell’Iraq e dell’Afghanistan; un profilo però strettamente legato ai militari americani.

Se in Italia comunemente si ha la sensazione di non aver più partecipato a nessuna guerra dal 1945 ad oggi, negli Stati Uniti lo scenario è diverso. Gli americani sono ben consapevoli e spesso fieri di essere in prima linea nei conflitti armati in nome della democrazia. Questo ritratto quasi idilliaco, intriso a volte di cieco patriottismo, viene infranto di colpo da chi i segni terribili di queste guerre li porta indelebilmente addosso. I veterani, con i loro problemi psicologici e le loro mutilazioni, e le famiglie dei caduti, con il loro dolore, sono lì e ci obbligano a ricordare, a fare i conti con la storia. Fin dalla prima guerra mondiale, i reduci hanno rappresentato una forza sociale dirompente, a volte incarnando anche delle istanze politiche innovative. La protesta contro la guerra in Vietnam è stato l’ultimo esempio in cui i veterani stessi hanno protestato in massa contro la guerra. Da quando la composizione degli eserciti occidentali ha perso quasi completamente l’elemento della costrizione, anche le rivendicazioni degli ex combattenti sono state depotenziate. In mancanza di un sistema di re-integrazione e di una sensibilità mediatica, il soldato professionista contemporaneo che esce dal circuito militare ha inoltre più probabilità di diventare un emarginato. Il dato dei suicidi tra i reduci statunitensi delle guerre in Iraq e in Afghanistan è impressionante, supera addirittura il numero di morti durante il conflitto. Un rapporto del 2013 del Department of Veterans Affairs stima che dal 1999 al 2010 ci siano stati mediamente 22 suicidi al giorno, quasi uno ogni ora. Negli anni successivi il numero è rimasto stabile, si tratta di una vera epidemia.

Insicurezza, psicofarmaci, ansia, droga, violenza, alcol, ira, depressione. Stephan Wolfert, ex ufficiale, regista e attore americano, conosce bene i sintomi del PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), il disturbo post traumatico da stress di cui soffrono gli ex militari rimasti traumatizzati dalla vita al fronte. Da decenni con la sua classe di recitazione per veterani ascolta i loro racconti e prova ad alleviare le ferite procurate dalla guerra attraverso il teatro di Shakespeare. “Quando entriamo nell’esercito abbiamo un reclutatore che ci prepara alla vita da militare. Ma quando usciamo dov’è il nostro de-reclutatore? Ho deciso di trasformare il mio programma in un manuale e di valutarlo scientificamente. L’ho chiamato DE-CRUIT (de-reclutamento o de-programmazione ndr). Attualmente stiamo lavorando affinché il programma sia disponibile a livello nazionale e siamo in trattativa per offrire lo stesso servizio ai veterani di altre nazioni”.

Lo incontro a New York ad aprile a margine del suo spettacolo teatrale “Cry Havoc!” nel quale rievoca la sua esperienza di soldato con il linguaggio di Shakespeare e dei suoi personaggi: Riccardo III, Coriolano, Enrico IV, Giulio Cesare e Macbeth. “Ho abbandonato la carriera militare dopo aver visto una rappresentazione di Riccardo III”. Wolfert ha scritto il monologo dopo una serie di traumi, tra cui un’operazione chirurgica d’emergenza e la morte di un compagno dell’esercito durante un’esercitazione a fuoco. Al termine della performance il pubblico si ritrova in cerchio per condividere impressioni e ricordi legati alla guerra. In quel momento così intimo e coinvolgente ho preso davvero coscienza di come il servizio militare sia per molte famiglie una tradizione da tramandare di padre in figlio. La condizione di veterano negli USA è molto comune, tutti o quasi hanno avuto un parente, un amico, o un compagno nell’esercito. È un fattore imprescindibile per comprendere la società americana. I veterani tornano mai davvero a casa? “Sì lo fanno. Come accade dopo ogni esperienza significativa della vita o dopo un trauma, potrebbero non essere le stesse persone, ma tornano. Il PTSD è trattabile”.

Lo scorso anno sono entrato in contatto con l’organizzazione Vietnam Veterans Against the War (VVAW), fondata negli Stati Uniti nel 1967 con l’obiettivo di opporsi all’intervento militare in Vietnam. I membri della VVAW portano avanti un lavoro di sensibilizzazione per spiegare i reali costi di una guerra e di assistenza nei confronti dei veterani.

L’11 novembre ho incontrato a New York la delegazione che ha sfilato sulla Fifth Avenue in occasione del Veteran’s Day, la giornata istituita per onorare i reduci ed i caduti di tutte le guerre. Terminata la marcia commemorativa ci siamo diretti in un pub irlandese a Manhattan dove ho approfittato per intervistare alcuni di loro.

Joseph si è arruolato volontario nell’esercito dal 1966 al 1969 e ha combattuto un anno nel Vietnam. “È stata una guerra d’aggressione contro il popolo vietnamita in nome della lotta al comunismo”.

Peer mi racconta la sua storia singolare: “Ho combattuto nel Vietnam dal 1967 al 1968 per circa sei mesi prima di essere gravemente ferito e di fare ritorno negli USA. Venivo dalla Svezia, mi sono arruolato volontariamente. Quando ero giovane mi piaceva l’avventura, che per me non era l’alpinismo o guidare un’auto veloce ma la guerra. Non combattevo per gli Stati Uniti e per i loro valori ma per me stesso e per il mio plotone”.

James, membro dell’Iraq Veterans Against the War, ha prestato servizio dal 2011 al 2015. “Ero un ufficiale dei marines ed ero stazionato alle Hawaii, non ho mai raggiunto il fronte. Nel 2011 pensavo che l’America fosse nel giusto, che l’Islam fosse una religione molto pericolosa e che il Medio Oriente fosse un’area instabile. Sapevo anche che eravamo andati in Iraq senza trovare le armi di distruzione di massa. C’erano stati alcuni errori ma ancora credevo che gli USA avessero buone intenzioni”.

Bill invece ha risposto alla chiamata obbligatoria e ha combattuto in Vietnam per un anno come soldato di fanteria. “Ero molto arrabbiato. Anche se non credevo nella guerra avevo il dovere di servire il mio Paese e di rispettare la mia famiglia. Mi sono arruolato ma ho rifiutato il giuramento di fedeltà, questa è stata la mia protesta. Se fossi morto, sarei morto per le mie ragioni e non per le bugie che il nostro governo ci stava raccontando. Mi ripetevo che ero un buon americano perché stavo andando in guerra ma se fossi tornato, avrei lottato per un Paese migliore ed è tutta la vita che lo faccio”.

Qual è l’episodio più drammatico che hai vissuto durante la guerra?

Joseph: “Una volta dovevamo tornare al campo base con un camion di circa 3 tonnellate. L’autista aveva molta fretta e nonostante ci fossero delle persone sulla strada non si è fermato. A Detroit nel 1971, durante la Winter Soldier Investigation (un evento pubblico, boicottato dalla stampa, organizzato dalla VVAW per denunciare i crimini di guerra ndr) ho ascoltato i veterani del Vietnam testimoniare sui crimini di guerra che hanno commesso per portare la democrazia in Indocina. È stato un genocidio sistematico”.

Peer: “Quando sono stato ferito da una granata e sono quasi morto. Ho perso quasi completamente l’udito e zoppico. Ci sono stati diversi momenti strazianti, la mia unità ad esempio ha combattuto nella più grande battaglia del Vietnam, l’assedio di Khe Sanh”.

James: “Non ho partecipato alla guerra in prima linea ma ho fatto un addestramento nella Corea del Sud. Credo che la cosa più dolorosa sia stata vedere come l’America fosse sdegnosa e irrispettosa dei suoi alleati. L’atteggiamento era: noi siamo migliori di loro. Mi disturbava inoltre vedere come i ranghi più alti dell’esercito trattassero i militari inferiori, ne hanno sempre approfittato e non se ne sono mai preoccupati. Non ci prendiamo cura dei nostri soldati, non rispettiamo i nostri alleati e non abbiamo pietà nell’usare la violenza in altri Paesi. Per questo ho cominciato a perdere fiducia nel mio comando e nelle persone con cui lavoravo”.

Bill: “Una volta eravamo di pattuglia con il mio plotone e stavamo percorrendo un sentiero. Era molto pericoloso. Nella giungla non si seguiva mai un sentiero perché in questo modo i Vietcong potevano vederci e farci un’imboscata. Ed è proprio quello che è accaduto. I ragazzi di fronte a me sono stati colpiti ed io sono stato ferito da un razzo mentre ci attardavamo cercando di occuparci dei nostri feriti. Una squadra è uscita per proteggere il sentiero; erano tre uomini afroamericani e il loro tenente. Quando il tenente è tornato gli abbiamo chiesto dove fossero gli altri. Li aveva lasciati indietro e quando i tre tornarono erano molto arrabbiati. Da quel momento ci siamo uniti, bianchi e neri, contro i comandanti che volevano dimenticare questo episodio. Abbiamo lottato l’uno per l’altro. Quei tre afroamericani hanno detto che non avrebbero più prestato servizio e sono stati messi nella Long Binh Jail, una prigione in Vietnam”.

L’unico ad aver ucciso un soldato nemico è stato proprio Bill. Mi guarda fisso negli occhi e mi spiega: “È accaduto. Sei sotto tiro e se hai un bersaglio devi sparare, se non spari forse qualcun altro può ucciderti e questo è peggio. Devi sparare, devi proteggere la tua gente, ecco cosa è la guerra. Spari o muori”. Joseph aggiunge: “Non ho ucciso direttamente ma indirettamente sì. Svolgevo un servizio di intelligence, decifravo i messaggi dell’esercito nord vietnamita e dei vietcong e li traducevo in inglese”.

Cosa ti ha portato via la guerra?

Peer: “Mi ha portato via alcune parti del mio cervello, la guerra mi ha reso fisicamente disabile ma mi ha anche reso una persona forte, emotivamente. Ho iniziato ad attivarmi contro la guerra e questo richiede molta autodeterminazione”.

James: “Avevo fiducia nell’esercito, nel governo e nel presidente ma dopo la mia esperienza da militare ho perso la fiducia in tutte quelle persone. Quando hai una convinzione, un forte senso d’identità e poi ti rendi conto che quella identità è falsa, che non esiste e che non puoi fidarti delle persone di cui pensavi di poterti fidare, ti chiedi: ‘di chi posso fidarmi?’ e ‘chi sono io?’. In un certo senso è positivo perché devo capire chi sono, ma è difficile, davvero difficile. In definitiva la guerra mi ha portato via l’identità e la fiducia”.

Bill: “È stata un’esperienza molto potente. Siamo dovuti crescere velocemente perché dovevamo prenderci cura di noi stessi a vicenda come una famiglia. Posso dire di essere sopravvissuto al Vietnam, ma la cosa peggiore che abbiamo fatto è stata combattere contro il popolo vietnamita che voleva solo giustizia e libertà per se stesso”.

Joseph mi spiega che la VVAW sta “provando a combattere gli effetti psicologici della guerra, organizziamo incontri di ascolto ma l’amministrazione dovrebbe fare di più per chi soffre di PTSD. Non siamo realmente integrati con gli altri gruppi di veterani, non siamo interessati; non parliamo la stessa lingua dei Veterans of Foreign Wars of the US, loro glorificano la guerra, noi cerchiamo di fermarla”.

“Fino al 1975 la VVAW” – ricorda Per – “è stata l’organizzazione contro la guerra più forte in questo Paese, più forte anche degli studenti che si erano organizzati nei campus. Erano i veterani stessi che si opponevano alla guerra. Poi l’adesione è calata ma molti ragazzi che vedi qui sono ancora coinvolti”.

Bill si definisce un “veterano indipendente che ama pensare” e chiarisce: “non credo che tutte le guerre siano sbagliate, se vieni attaccato devi difenderti e combattere, fa parte della nostra natura di esseri umani, cerchiamo di sopravvivere. Bisogna però assicurarsi sempre che sia giusto e questo non è accaduto in Vietnam. Credo ad esempio che si debba combattere l’ISIS insieme alle altre nazioni per salvare la vita di persone che saranno uccise da un gruppo di fanatici che non rappresenta l’Islam pacifico e misericordioso. Bisogna sapere quando combattere e quando non combattere, quando fermarsi e tornare indietro”.

James mi racconta come sono i suoi rapporti con gli altri veterani. “Sono ancora in contatto con molti di loro, abbiamo delle discussioni e spesso non sono d’accordo con quello che dico ma qualcuno lo è. Cerco solo di essere me stesso, esprimo le mie opinioni. Se vuoi, puoi ascoltare, ma non insisto, perché se insistessero con me io chiuderei la conversazione”.

Qual è il film che meglio di altri ha descritto la guerra in Vietnam?

Joseph: “Platoon e Tornando a casa ma quelli rimangono film di Hollywood”.

Peer: “Credo che Full Metal Jacket sia probabilmente il più realistico”.

Bill: “Naturalmente ho visto Platoon e Nato il 4 luglio (tratto dall’autobiografia di Ron Kovic, tra i principali promotori della protesta contro il Vietnam ndr), ma in tutti i film c’è sempre la glorificazione del soldato duro. Non vedo la persona che combatte con coscienza, che dice ‘questo è sbagliato, questa è follia’. In queste pellicole la paura è reale ma nessuna di queste è perfetta, sono realistiche solo a tratti”.

James mi risponde sull’Iraq: “Sicuramente non American sniper. La maggioranza dei film dipinge un’immagine molto parziale, le persone dall’altra parte sono sempre secondarie. I registi che hanno creato un ritratto decente della guerra mettono comunque in luce quanto sia stata dura per l’America, quando le vere difficoltà le ha vissute chi vive in Iraq, in Afghanistan o in Syria; persone uccise dalle bombe, intere famiglie distrutte. Quando i nostri militari tornano con il PTSD sono ancora vivi, possono rivedere le loro famiglie e hanno ancora una vita alla quale tornare”.

Oggi durante la sfilata, tra gli applausi, non sono mancati però alcuni insulti nei vostri confronti, “shame” (“vergognatevi” ndr) ha urlato più di qualcuno da dietro le transenne. Come si coniuga il patriottismo americano con le attività della VVAW?

Peer: “È difficile. Secondo la maggior parte degli americani non sono un patriota nonostante abbia combattuto in Vietnam. Penso di essere un patriota perché credo nelle risoluzioni pacifiche e non in un mondo dove si combatte. Credo ad esempio che gli USA non sarebbero dovuti andare in Iraq nel 2003, quella guerra è costata la vita a circa 5mila lavoratori e milioni di dollari. Saddam era un dittatore orribile e ha ucciso migliaia di persone, ma a mio parere era un male minore rispetto alla guerra che ha ucciso molte più persone. L’unica guerra che dovevamo combattere è stata la seconda guerra mondiale”.

Bill: “La gente si avvicina a me e mi dice ‘grazie per il tuo servizio’ ma non sa niente del mio servizio, non sa che dopo essere tornato mi sono impegnato affinché non ci fossero altri Vietnam. Non volevo andare a combattere e ho rifiutato le mie medaglie, sono stato punito per questo e sono stato considerato un vigliacco, ma ho sostenuto sempre i miei principi. Posso parlare con passione delle mie idee, ma dobbiamo essere in grado di ascoltare, di vedere i fatti e di pretendere la verità. Questo è ciò che dovrebbe fare un buon cittadino e un buon patriota”.

Fonte: il manifesto, 26.08.2017

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