La storia fra le mura di casa | Maura Picciau

Arte urbana. Disarmante, il progetto in itinere del collettivo Funivie Veloci, che porta le immagini delle guerre e delle migrazioni direttamente nelle abitazioni dei cagliaritani. In una Regione, la Sardegna, che negli ultimi cinquant’anni è diventata la portaerei del Mediterraneo

Simone Luca Pierotti, «Naufraghi»

 

C’è un’isola al centro del Mediterraneo, grande e bella: vuole il mito fondativo che sia l’impronta del piede di Dio. È la Sardegna, terra selvaggia e incontaminata nel pensiero di molti, una terra lontana, appartata e strana nell’immaginario collettivo. Spiagge bianche, mare trasparente e turchese – dicono di cristallo – e poi lunghi silenzi tra granito e querce: questo si pensa e si racconta della Sardegna. Ma le cose non stanno proprio così.
Da oltre cinquant’anni, la Sardegna è la portaerei del Mediterraneo: qui ha luogo oltre il 60% del demanio militare italiano, qui hanno sede i due più grandi poligoni di tiro dello Stato, dei quali uno è il più vasto d’Europa. In Sardegna si svolgono le maggiori esercitazioni militari nazionali e dall’aeroporto di Decimomannnu, vicino Cagliari, nel 2011 sono partiti gli aerei Nato per le operazioni in Libia. Tutto ciò trasforma radicalmente il paesaggio e modifica le usanze antiche: le greggi di quella zona, pastorale e agricola, pascolano ogni giorno nel frastuono dei caccia in volo. Tanta terra in Sardegna è impegnata nella guerra, direttamente o indirettamente: qui infatti si producono armi (come le bombe fabbricate a Domusnovas) e qui molte aziende belliche testano le armi più nuove. Sono queste le servitù militari, con il loro corollario di morte, di segreti di Stato e di mistificazioni.

 

Francesco Giusti, The Rescue

POVERTÀ ECONOMICA e scarso potere elettorale favoriscono il perdurare di questa situazione di sudditanza territoriale e di involontario sostegno alle guerre in corso: le servitù militari da un lato creano una qualche ricaduta economica in ambito locale, dall’altro avvelenano i territori e gli animali e, fatto più grave, inquinano le menti e i saperi tradizionali delle comunità.

A Cagliari una mostra importante, Disarmante, a cura del collettivo Funivie Veloci (per la presente edizione Marta Anatra, Giulia Casula, Emanuela Falqui, Silvia Locci, Stefano Fois, Vanna Seddone, Paola Porcedda), trae spunto da questa situazione per offrire una riflessione etica e critica e richiamarci a una realtà misconosciuta, fatta anche di inquinamento ambientale e di armi, di guerre lontane ma in verità tanto domestiche quanto universali. Nel contempo, lo sguardo si allarga ben oltre l’isola e si concentra sulle aree del mondo in cui la guerra produce sofferenza e devastazione, e sulle conseguenze che da queste derivano.

IL TITOLO DELLA MOSTRA è affilato e a doppio taglio: è disarmante il dato di realtà, ma disarmante indica anche che si vuole stimolare il disarmo, allertando le coscienze. Tra i vicoli della Marina e le straduzze di Villanova, in case private che cagliaritani gentili e ospitali mettono a disposizione, oppure in spazi vuoti e inutilizzati, volutamente senza un euro di finanziamento pubblico, Funivie veloci – percorso d’arte urbana, giunto al decennale dall’esordio – ha invitato artisti sardi e non, europei e provenienti dalle zone di guerra e di confine, a creare arte in modo condiviso sul tema della guerra e di ciò che reca con sé: migrazioni epocali, lutti generazionali, separazioni, affetti e legami recisi. Povertà dell’anima e desolazione, mentre si fugge in cerca di una vita possibilmente migliore.

Monica Lozano, Border

NESSUN ARTISTA riceve compenso per la sua partecipazione a Disarmante, tutto è gratuito, e libero: i valori morali non sono commerciabili. I cagliaritani, che conoscono uno strano mestiere autoctono e intraducibile, quello dei s’oreri ( letteralmente oriere, che lascia trascorrere le ore, passare il tempo) per Funivie Veloci si industriano con entusiasmo e un pubblico eterogeneo, di non addetti ai lavori, entra in contatto con la produzione artistica più attuale, alla faccia del mercato.

Se la mostra tutta è di buon livello, organica nello sviluppo e coerente negli intenti, alcune opere meritano segnalazione a parte: il fotografo Francesco Giusti, con The rescue del 2015 ci dà un pugno in pieno stomaco. A Lesbos, in Grecia, mentre i fotoreporter di mezzo mondo si accalcavano per riprendere i profughi sulla rotta balcanica, Giusti si è allontanato, per trovare un punto di vista più personale e sincero: «Ho preferito cercare la storia lontano dal caos. L’ho trovata dove regna il silenzio e la polvere si posa». Lettere, passaporti, foto di identità smarrite e perdute in seguito alla traversata del mare. Archeologia di esistenze in transito e mutazione, lacerti di vita, «quella vita che una volta sembrava indistruttibile». The Rescue sarà a settembre all’Indian Photography Festival di Hyderabad.

LA RICERCA DI UNA VITA diversa e possibile sprona l’uomo ad azioni originali e temerarie: questo narra Borders della fotografa messicana Monica Lozano. «L’impensabile diventa realtà e metodo di sopravvivenza», dice. Così per fuggire da Tangeri fino in Spagna una donna ha viaggiato per sei ore dentro una ruota di scorta: è Wheel, funambolismo della fuga e vitalità del pensiero.
Federico Verani e Melissa Favaron a febbraio erano a Belgrado, tra gli afghani bloccati in Serbia, stipati in capannoni con una temperatura molto al di sotto dello zero. Raccontano in We are Human di uomini ordinati in paurose file indiane – l’occhio torna ai campi di concentramento nazisti – e di raggi di sole che scaldano figure raggomitolate sotto coperte, corpi immobili ma che respirano, non sono dormienti e suggeriscono una morte da vivi. Eppure anche a 18 ° sottozero ci si lava, e ci si rade al caldo delle tamburlane dove si dà fuoco a materiali qualunque, anche tossici. Queste persone «non hanno che un piccolo zaino con loro e il cellulare che gli permette di comunicare con il mondo».

DAI TEATRI DI GUERRA giungono opere cariche di una speranza che si accompagna a un quotidiano di paura e di assurdità: dallo Yemen alla Palestina, Saba Jalla, Tawfiq Jebril e Belal Khaled, artisti separati dalla Storia, si apparentano nei sogni di serena bellezza che intravvedono nei fumi generati dalle esplosioni. Lena Merhej, nota fumettista libanese propone una graphic novel vibrante sull’essere madri in tempo di guerra. Bianco e rosso, segno veloce e financo lieve nella tragedia, ci auguriamo di vedere presto tradotto Machine.
Simone Luca Pierotti, antropologo, fotografo, nonché restauratore di barche a vela, realizza Naufraghi: un’installazione sorprendente di ritratti galleggianti. Sono persone che Pierotti ha incontrato in un Cas – Centro di assistenza straordinaria – di Firenze: i loro volti, scomposti e ricomposti come a raccontare le fratture di un viaggio periglioso nella vita – prima che nei luoghi – sono forti, decisi. Hanno attraversato il mare, sono zattere di resistenza: l’uso e la conoscenza dei materiali nautici consente a Pierotti di stabilizzare queste immagini e di lasciarle fluttuare sull’acqua. Presto i Naufraghi saranno a Parigi, e poi forse in Germania, perché anche altri pubblici prendano contezza della rotta migratoria mediterranea.

GLI ARTISTI SARDI, in significativo progresso qualitativo, si concentrano soprattutto sulle trasformazioni del paesaggio causate dalle servitù militari e dalla rovinosa e fallimentare industria sarda: i lenti cavalieri barbaricini di Pietro Mele, videoartista algherese di stanza a Berlino, si scontrano in Ottana con i comignoli insensati della fabbrica, vera cattedrale nel deserto. Mauro Rizzo, invece, ritrae alcune capre di Decimomannu, che hanno per cucce le casse di munizioni Nato.
Stupiscono lo sguardo profondo e la ricerca formale di Francesca Corriga, che da giovane fotografa indipendente indaga la seduzione del paesaggio minerario dismesso: inganna la luce aurea dell’ex miniera d’oro di Furtei, è veleno puro. Così i cervi si abbeverano all’alba alle acque arancioni e tossiche del Riu Naracauli, che sfocia nella celebre spiaggia di Piscinas, nell’Oristanese. I cervi bevono, uscendone colorati e avvelenati ogni giorno di più: i turisti organizzano all’uopo safari fotografici.


fonte: il manifesto, 11.7.2017


 

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