Quel che manca: la creatività politica

Quel che manca: la creatività politica

Johan Galtung

Nel maggio 1968 a Parigi uno slogan sostanziale durante la rivolta degli studenti, di cui presto ricorrono i 50 anni, fu l’Immaginazione al Potere! Si porti al potere l’immaginazione!

Noi c’eravamo, in migliaia a camminare dai Champs-Élysées alla Place Etoile, dove una voce stentorea ci ordinò di sedere in piccoli gruppi sotto l’Arco per “discutere sulla situazione”. Così facemmo.

Ora più che mai la Francia soffre di mancanza di immaginazione. Non serve chiamare Le Pen-Front National “estrema destra” quando la questione è essere per la EU o contro la EU; sinistra-destra era la politica del 20° secolo.

Perché non pensare più in grande, più in là della UE? Per o contro un’EURASIA, sono pronte Russia e Cina? Con il commercio si riempiono i treni Londra-Pechino; un asse Ovest-Est, non la vecchia ossessione del (neo)colonialismo Nord-Sud. E se pensassimo a entrambi, a un’EURASIAFRICA? Peraltro connesse da un punto di vista geografico.

Un altro termine per immaginazione è creatività. Gli ingegneri lo applicano alla materia, gli architetti allo spazio, gli artisti alla forma, gli scienziati a come le cose sono interconnesse, gli esseri umani a come le persone possono essere interconnesse. Il cosiddetto “populismo”, già, la democrazia è populista=popolazionista, e di recente ci sono stati unanimi No all’elitarismo, condivisi dai maggiori partiti politici.

Così i Francesi sono riusciti a liberarsi dei Socialisti/Gaullisti. Da molto tempo l’Inghilterra è gradualmente cambiata da Tory/Liberali a Conservatori/Laburisti; ora con il partito laburista che sta scomparendo. La Brexit non era elitaria, e Theresa May, fedele alla populista Brexit, non è una classica conservatrice.

Presto o tardi gli USA saranno liberati da Democratici/Repubblicani, l’alleanza che fa funzionare la macchina politica degli Stati Uniti. Trump lo ha fatto. James Comey, il direttore della FBI che è stato licenziato, lo ha chiamato “matto” (NYT 12 maggio 2017); “autistico”, piuttosto. Ora si trova a fronteggiare “Licenziati da Trump, unitevi!” e un futuro Nixoniano.

Che cosa sta succedendo? Dovunque, vecchi fronti di contrasto sociale cedono ai nuovi. Come da destra-sinistra a guerra-pace? La gente lo vede più chiaramente di quanto facciano coloro che hanno interessi investiti nel vecchio – denaro incluso! –. Vox populi, vox dei.

Ma quella voce divina non è ascoltata a livello della politica mondiale poiché non esistono elezioni o referendum mondiali, e la UE non è il mondo.

C’è qualcosa di statico, pressoché inerte, a riguardo del sistema statuale mondiale, in particolare di come gli stati stabiliscono rapporti reciproci; come se essi avessero trovato una loro forma conclusiva e come se i loro rapporti dovessero rimanere senza regole. Sono legittime le preoccupazioni per la sicurezza, senza alcuna violenza all’interno e all’esterno; ma non lo è il predominio della polizia e dell’esercito che fanno uso di violenza e di minacce come riflessi condizionati, privi di immaginazione, privi anche di riflessione.

Inoltre, più grave, come se l’agenda delle relazioni tra stati avesse soltanto un punto all’ordine del giorno: la sicurezza, il cui controllo avviene tramite quanto è conosciuto come paranoia. Senonché gli stati praticano il commercio nonostante una reciproca diffidenza, addirittura paranoia? Lo fanno eccome, e sovente in modo molto creativo, per vantaggio reciproco ed equivalente, grandemente agevolati dai meccanismi sul prezzo di mercato nel definire che cosa sia “equivalente”. E facendo buoni affari tutti diventano più ricchi. Tuttavia non gradiscono che altre parti siano molto più ricche. Si osservano l’un l’altro, sapendo che la sopravvivenza dell’altra parte può essere una condizione per la sopravvivenza propria. Essi non vogliono che ci siano vincitori totali, con se stessi perdenti totali.

Ciò nonostante, una cooperazione basata sullo scambio con vantaggio reciproco ed equivalente può essere estesa molto al di là della domanda e offerta economica di beni. E qui entra in gioco la teoria e la pratica di pace negativa e positiva.

La pace negativa richiede una sicurezza non-provocatoria, una difesa difensiva, compreso il proteggere bene ciò che dovrebbe essere difeso. È pur meglio che andare a caccia di terroristi senza prima comprendere quello che vogliono. Non c’è violenza, non ci sono cattiverie in cambio di cattiverie; incluse quelle psicologiche, quali le minacce.

La pace positiva va al di là di tutto questo, scambia il bene con il bene, come nel commercio. In questo mi riesce di vedere uno scambio di abilità/competenze. “Mi sembra che tu riesca bene in qualcosa in cui io non sono bravo; d’altra parte, io sono capace di–“. A livello personale possiamo pensare alla cooperazione tra lo studente brillante ma senza alcuna capacità negli sport e lo studente sportivo ma un po’ tardo, che si sostengono a vicenda. E a livello di rapporti tra stati?

Se usiamo una mappa ottagonale del nostro attuale mondo multipolare, con gli emergenti Russia-India-Cina-Islam, e con USA-UE in declino, e Latinoamerica Caribe-Africa quale classico “Terzo Mondo”, otteniamo 8×7/1×2 = 28 relazioni bilaterali. Tutti questi poli hanno aspetti negativi quanto positivi. E’ del tutto legittimo stare in guardia contro gli aspetti negativi, ed è totalmente illegittimo non essere aperti agli aspetti positivi, come le abilità, le competenze. Al proposito abbondano gli esempi, elencati in dettaglio sulle pagine di copertina di A Theory of Peace (Una teoria della pace, TRANSCEND University Press, 2012).

Prendete due giganti, i numeri 1 e 2 in quanto a popolazione (non stati occidentali, più piccoli), Cina e India. La Cina è abile nel migliorare le condizioni delle classi povere (pure ha ancora un lungo cammino da fare), l’India no, governata come è dal sistema castale. L’India è abile nel mettere d’accordo la diversità di culture con il suo federalismo linguistico (eccetto in Assam); la Cina no. E se riuscissero a incontrarsi, scambiandosi le proprie impressioni in un dialogo aperto, il dialogo già di per sé strumento di reciproco ed equivalente vantaggio? Preferibilmente non a porte chiuse perché anche altri hanno molto da imparare, non ultima la disponibilità a discutere dei propri problemi in pubblico.

Prendete le vecchie super-potenze, USA e Russia. Gli USA bravi a valersi delle libertà individuali per innovare e mettere in pratica le innovazioni, la Russia capace di spogliarsi di un impero quasi senza far uso di violenza – vicendevolmente deboli dove l’altro è forte. È ovvio che riconoscere i propri limiti richiede coraggio, e ciò vale anche per la Cina e l’India, ma potrebbe comunque essere prossimo. Per di più, più si guarda in avanti e più è possibile che l’intero mondo colga quali siano i grandi vantaggi di avere un mercato delle abilità, dove il bene si incontra con il bene, non solo il male – a dissuadere, lottare, vincere – si incontra con il male.

Tuttavia esiste un problema fondamentale. Troppo influenzati dalla dicotomia sviluppati/in via di sviluppo, sono in molti a pensare che i primi non abbiano alcun problema e i secondi abbiano soltanto problemi. Molto meglio una prospettiva Yin–Yang: in tutti manca qualcosa; da tutti qualcosa è stato realizzato.

L’impedimento sta nella nostra immaginazione politica così limitata. E’ necessario crescere, così che le visioni del mondo si aprano nelle nostre menti, siano condivise con altri in nuovi modi di dialogare, concretizzate in un nuovo agire. Possiamo riuscire se lo vogliamo. E lo vorremo se liberiamo l’immaginazione.


#481 | Johan Galtung – 15 Maggio 2017

Traduzione di Franco Lovisolo per il Centro Studi Sereno Regis

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