Perché il sostegno ai combattenti nonviolenti in Siria è la chiave per porre fine alla guerra

Maria J. Stephan

I dibattiti sulla moralità, legalità ed efficacia strategica degli attacchi missilistici USA in Siria domineranno i notiziari nel futuro prevedibile. Si può capire perché tanta gente, specialmente molti siriani, vorrebbero vedere punito per le sue azioni un regime che ha ripetutamente bersagliato la propria popolazione di gas nervino (sarin) e soffocante (al cloro), bombe-barile [a contenuto prevalentemente anti-persona, NdT] e tattiche di affamamento.

I siriani che conosco si sentono soli e abbandonati dal mondo: Hanno visto gli USA e i loro alleati occidentali e arabi intraprendere una massiccia azione diplomatica e militare mirata contro il cosiddetto Stato Islamico, ovvero ISIS, allorché ad essere responsabile dei quasi 500.000 morti civili in Siria dal 2011 è la violenza sponsorizzata dal regime.

A prescindere da come ci si collochi a proposito dell’ intervento militare – e ci sono ragioni legittime per dubitare dell’efficacia della potenza aerea nell’intimidire o erodere la macchina stragista di Assad – si dovrebbe poter concordare su una cosa: non ci sarà termine alla guerra civile in Siria senza la partecipazione prolungata e attiva degli attivisti pacifisti e umanitari siriani nel paese, nella regione circostante e della diaspora.

Costoro, singoli e gruppi, che stanno operando nelle condizioni più difficili immaginabili, costruiscono e reggono sistemi sanitari e d’istruzione, proteggono i civili dalla violenza e l’estremismo provenienti da vari versanti, s’organizzano per aumentare la partecipazione comunitaria nel processo di pace, e cercano d’immaginare e comporre pezzo a pezzo un futuro alternativo.

Comprendono gruppi come i Caschi Bianchi, il Centro di Documentazione delle trasgressioni, la Fondazione Karam, Cittadini per la Siria, Syria Deeply, Progetto Amal ou Salam [Sperare nella Pace, NdT], il Centro per la Società Civile e la Democrazia in Siria, la Piattaforma per la Società Civile in Siria, Raqqa è Farsi Trucidare in Silenzio, l’Organizzazione Khadraa, l’Associazione Medica degli Espatriati Siriani, l’Organizzazione Viola, la Task Force d’Emergenza Siriana e Donne Adesso per lo Sviluppo.

Queste organizzazioni stanno costruendo la resilienza, il capitale sociale e l’infrastruttura civica su cui poggerà una pace futura. Da sei anni in una guerra civile dalle conseguenze umanitarie e geopolitiche devastanti, è facile dimenticare che la rivoluzione siriana cominciò in modo nonviolento.

Nel marzo 2011, dopo che un gruppo di ragazzi nella provincia di Dera’a (presso il confine giordano) aveva dipinto graffiti che invocavano la caduta del regime di Assad, la polizia locale li torturò e vessò le loro famiglie. Per reazione, scoppiarono proteste nella Dera’a e nell’intero paese. Appelli più moderati alla fine dell’impunità e la corruzione del regime ben presto lasciarono posto a richieste di dimissioni del regime.

Ispirati alle insurrezioni della Primavera Araba in Tunisia ed Egitto, i Siriani non vedevano l’ora di liberarsi dai ceppi della dittatura della famiglia Assad. I primi otto mesi della rivoluzione furono dominati da adunate massicce, proteste danzanti celebrative per strada, spettacoli di marionette che inscenavano la corruzione e repressione del regime, sit-in guidati da avvocati e studenti, e vernice rossa sulle fontane per significare il sangue versato dal regime di Assad; erano questi gli ingredienti base della resistenza nonviolenta.

Durante questa fase della lotta, benché la maggioranza dei dimostranti fosse sunnita, s’unirono alle proteste in gran proporzione [anche] minoranze cristiane, curde, druse e alawite (diramazione sciita e setta della famiglia Assad al potere).

Ben presto prese piede nel paese una rete decentrata di Comitati Locali di Coordinamento che assunse la guida delle proteste e manifestazioni. in seguito si fondarono consigli locali concentrati sulla rappresentanza civile e l’offerta di servizi. Infine, con l’intensificarsi della violenza del regime e il crescente ricorso alla resistenza armata dell’opposizione con la formazione del Libero Esercito Siriano e di altre fazioni militanti, le strutture civili si dedicarono sempre più all’amministrazione locale e alle operazioni umanitarie.

Ci sono state analisi multiple del perché la resistenza nonviolenta in Siria non sia riuscita nel suo obiettivo finale – la rimozione del regime di Assad – prima dell’inizio della guerra civile. Benché le campagne nonviolente siano state storicamente efficaci il doppio di quelle violente nel togliere di mezzo i governi centrali, la Siria è stata una dura verifica per la resistenza nonviolenta.

La famiglia Assad governava con pugno di ferro da decenni; la società civile siriana era penosamente debole quando cominciò la rivoluzione nel 2011, con poche o nessuna organizzazione civile davvero indipendente (sindacati professionali o dei lavoratori compresi); le forze di sicurezza siriane erano state rese molto settarie [= corpi nettamente separati]; e la regione era preda della lotta per il potere sunnita-sciita.

Quando iniziò l’insurrezione nonviolenta, Bashar al-Assad ordinò una violenza letale contro i dimostranti pacifici e impiegò delinquenti armati, detti “shabila” per uccisioni mirate durante le dimostrazioni. L’Esercito Elettronico [!] Siriano e le forze di sicurezza del regime scelleratamente scovarono, arrestarono, torturarono e uccisero migliaia dei migliori organizzatori e attivisti nonviolenti. Infine, attacchi con mortai e bombardamenti dell’esercito regolare si mostrarono devastanti per la resistenza nonviolenta.

Per giunta, il tempo non fu a favore della resistenza civile. I dati mostrano che una campagna nonviolenta in media si sviluppa nel corso di tre anni; in Siria la resistenza nonviolenta ebbe neppure un anno prima che una combinazione di brutale violenza di regime e il ricordo all’ insurrezione armata di vari oppositori risultasse in un massiccio intensificarsi della violenza e un picco di morti di civili.

Semplicemente, non ci fu abbastanza tempo per costruire fiducia fra i gruppi di oppositori, per imparare dagli errori, formare una base organizzativa resiliente, e allontanare poco a poco dal regime gruppi chiave – come l’élite degli affari sunnita. Gli attivisti nonviolenti siriani hanno riconosciuto carenze nel programmare una strategia di resistenza di maggior respiro (non solo di settimane o mesi) e nell’unirsi attorno ad obiettivi e capi. Sia i governi esterni sia altri donatori frattanto sottovalutarono gravemente la forza del regime di Assad (strateghi influenti pensavano che sarebbe caduto in qualche mese) e il loro sostegno all’opposizione nonviolenta fu deprecabilmente lento e inadeguato.

Allorché la violenza s’intensificò, calò pesantemente la partecipazione alla resistenza delle minoranze, e intanto la propaganda di regime del regime dipingeva la resistenza come terroristi sunniti fomentati dall’estero. Infine, gruppi terroristici come Al Qaeda, il Fronte Nusra e l’ISIS riempirono il vuoto politico nelle zone tenute dai ribelli, e gli attivisti nonviolenti siriani si trovarono costretti a resistere alla violenza e all’estremismo sia del regime sia dei gruppi d’opposizione armata.

È difficile essere ottimisti sulla situazione in Siria. Dopo il 1945 le guerre civili sono durate in media 10 anni. È possibile che la guerra in Siria, trasformatasi in guerra per procura regionale e globale, vada avanti di più. La letteratura sulle guerre civili cita l’importanza di uno stallo che infastidisca ambo le parti, quando nessun belligerante pensa di poter vincere senza perdite eccessive, e tutti patiscono la continuazione dei combattimenti, per la riuscita della loro cessazione.

Nel caso della Siria è difficile immaginarsi che la guerra civile finisca senza un accordo regionale che coinvolga quei paesi – Iran, Arabia saudita, Turchia, Emirati Arabi uniti e Qatar – che sostengono varie fazioni nella guerra civile. Poi, ahimè, c’è la necessaria acquisizione di vantaggi accettabili da parte della Russia e degli Stati Uniti. Gli accordi di pace, quando siano stipulati, di solito tengono quando garantiti da forze di mantenimento della pace sul terreno. Nel caso della Siria una tale forza sarà ardua da comporre.

Tuttavia, le guerre civili finiscono sempre, si tratti di Irlanda del Nord, dei Balcani, della Liberia, del Guatemala, del Mozambico, o, proprio di recente, della Colombia. Nei quali casi, ingredienti critici per por termine alle ostilità armate sono sempre stati una combinazione di stanchezza della guerra stessa e una mobilitazione e pressione persistente della società civile sui gruppi armati statali e non-statali; in particolare una pressione organizzata di donne e capi religiosi ha contribuito ad accelerare il percorso alla pace in ognuno dei casi citati. “Pray the devil back to hell” [Ricacciate il diavolo all’inferno con la preghiera], un film sul ruolo delle donne liberiane nella conclusione della guerra civile di tale paese (mediante una prolungata pressione nonviolenta e una tenace non-cooperazione con lo status quo), è stato visto da molti siriani.

Prevedo che in Siria si svolgeranno dinamiche analoghe. Per tale ragione meritano un robusto sostegno esterno le organizzazioni nonviolente capeggiate da siriani che stanno lottando per mantenere in vita la gente intanto che costruiscono una forza di contrasto alla violenza, alla tirannia e all’estremismo. Questi gruppi stanno creando “circoli di pace” a guida femminile in Siria, riferiscono le atrocità commesse dalle varie fazioni armate, forniscono istruzione e guarigione dai traumi per bambini di profughi, sfidano l’ISIS e altri gruppi estremisti, e programmano gli elementi di una conclusiva transizione.

Le voci di questi combattenti nonviolenti siriani dovrebbero venire amplificate nei media, i loro tiratissimi bilanci dovrebbero ricevere sostegno pluriennale, ed essi dovrebbero percepire la solidarietà internazionale. I donatori dovrebbero prestare maggiore attenzione al sostegno della mobilitazione comunitaria a guida siriana in luoghi o sotto il controllo dei gruppi estremisti o da essi minacciati. Per esempio, nell’arda urbana di Idlib il recente sforzo organizzativo condotto dalla comunità ha costretto al ritiro il gruppo estremista Jaish al-Islam. Ciò è critico per allentare la presa dell’estremismo violento sulle comunità locali e offrire un’ alternativa ai siriani. Gli sforzi di questi gruppi civili insieme agli sforzi diplomatici dei siriani e di attori internazionali dal vasto spettro politico e ideologico finiranno per por fine alla guerra.


Fonte: Waging Nonviolence, 21 aprile 2017

Titolo originale: Why support for Syria’s nonviolent fighters is key to ending the war
Traduzione di Sabrina Latino per il Centro Studi Sereno Regis


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