Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza

Angela Dogliotti

Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, SEB 27, Torino, 2017

Avevo letto diversi degli articoli pubblicati da Pietro Polito in sito tra l’aprile 2015 e l’aprile 2016, in occasione del 70° anniversario della Resistenza, ma averli raccolti tutti insieme in un testo è stata un’operazione utile e intelligente, perché ha consentito di meglio evidenziare il filo rosso che li attraversa e che è suggerito dal sottotitolo stesso: storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza.

Si tratta, infatti, di un percorso che parte dai protagonisti e dalle vicende resistenziali, una Resistenza vista, con Bobbio, come una svolta, una scelta, un cambio di paradigma, per l’affermazione dei diritti politici e sociali conculcati dal nazifascismo, per arrivare – con Capitini e altri protagonisti della cultura della nonviolenza – a concepire la Resistenza come una forma di disobbedienza civile, di non collaborazione, cioè ad un concetto più ampio di Resistenza come scrive lo stesso Capitini: “Parlare della Resistenza italiana non sarebbe né completo né esatto, se non si estendesse il termine a comprendere non soltanto la Resistenza armata dall8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, ma anche la resistenza politica, morale, ideologica, che fu dal 3 gennaio 1925”; oppure Rocco Altieri: “La Resistenza è stata prevalentemente movimento spontaneo essenzialmente non-armato di autodifesa popolare di fronte alla guerra, alloccupazione tedesca, alle rappresaglie dei nazisti. A unosservazione attenta il conflitto armato appare come secondario rispetto alla forza della solidarietà popolare che è lelemento davvero decisivo e vincente di quella lotta”. È qui espresso chiaramente il concetto di Resistenza Civile, introdotto da J. Semelin e da ricercatori di area nonviolenta e, tra gli storici italiani, ripreso soprattutto dalle ricerche di Anna Bravo e più recentemente di Ercole Ongaro.

Polito presenta dunque diverse storie,  unite da una comune volontà di resistenza e di non collaborazione con poteri oppressivi e violenti.

Senza pretese di completezza, ma secondo una lettura guidata da miei personali interessi, propongo qui alcuni passaggi significativi, partendo da personaggi più legati alla Resistenza, fino ai protagonisti della nonviolenza italiana.

La prima figura che voglio mettere in luce è quella di Bianca Guidetti Serra, che ha voluto cercare “Le persone dietro il nemico che stava dallaltra parte, quelle che avevo combattuto e che con immutata convinzione considero sbagliata”. Perché? “Forse perché ho vissuto quelle esperienze risponde – ho sentito una specie di dovere morale di ritrovare la dimensione umana, nel bene e nel male, che ci accomuna al nemico. Tessere il filo della democrazia vuol anche dire prevenire i contesti che ce la fanno dimenticare.

Di grande profondità etica questo riconoscere una comune umanità, il nemico anche dentro di sé, anziché vedere l’altro come totalmente disumano, secondo la tentazione che Galtung chiama la“sindrome D-M-A”, del dualismo manicheo, che porta inevitabilmente allo scontro frontale.

La seconda figura è quella di un’altra donna, Ada Prospero Marchesini Gobetti, la quale, riferendosi a Piero, scrive: “La Rivoluzione Liberale e la casa editrice erano le sue armi” (p. 67). Non è un caso che l’impegno resistente e per una cultura di pace continui per Ada anche nell’impresa educativa de “Il Giornale dei Genitori” (1959-1968), sul quale compare l’articolo Quando non si deve obbedire: facendo esplicito riferimento alla cultura della disobbedienza civile e all’obiezione di coscienza segnala “il bisogno di forgiare armi nuove di difesa e anche di offesa, assegna alla scuola e alla famiglia il compito di trasmettere ai giovani “accanto ai valori del rispetto e della giusta obbedienza, anche quelli della ribellione e della disubbidienza” (p. 122), anche se, a differenza di Capitini, per lei non sempre alla violenza si può rispondere con la nonviolenza.

Una figura intermedia tra questi resistenti e i persuasi della nonviolenza è forse quella di Andrea Caffi, che si spinge a mettere in luce, nel suo Critica della violenza, i risultati negativi che l’impiego della violenza organizzata inesorabilmente genera, sottolineando con forza l’inscindibile nesso tra mezzi e fini nella lotta politica, uno dei capisaldi concettuali della nonviolenza gandhiana.

Polito passa poi ad analizzare le esperienze delle lotte nonviolente di Danilo Dolci, in Sicilia, contro la mafia, e la sua proposta di riscatto popolare attraverso la maieutica reciproca praticata nelle assemblee popolari di Mirto, Trappeto, Borgo di Dio, come esempi di resistenza e disobbedienza civile contro il potere oppressivo mafioso.

Non poteva poi certo mancare la figura di Lorenzo Milani, che con la sua Lettera ai giudici afferma che “lobbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno lunico responsabile di tutto”. È l’assunzione piena di responsabilità sintetizzata nel motto che capeggiava sui muri della scuola di Barbiana, “I care”, contro il “Me ne frego fascista.

Infine, l’obiezione di Baglietto, che sostiene il dovere di dire no all’obbligo di uccidere e Capitini, per il quale la nonviolenza è la forma attuale della Resistenza, che si esprime nella non collaborazione con il mondo così com’è, una “non collaborazione collaborante”: non si collabora con il male, ma non si esclude il “tu”, l’unità con tutti, per “collaborare con la storia” nel miglioramento delle società umane e di tutta la realtà dei viventi: “In fondo a questa strada sta lideale di una realtà in cui non ci sia più nulla che sia soltanto mezzo, cosa, strumento, ma tutto sia soggetto e oggetto di amore”.

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