Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia | Recensione di Enrica Calabrìa


cop_ Enrico Camanni, Alpi ribelliEnrico Camanni, Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Laterza, Bari-Roma 2016, pp. 246, € 18,00

Chi sale è “il nuovo montanaro” che ha scelto di abitare le terre alte,
e il salire è già azione ribelle di per sé perché sovverte le leggi della fisica.
Montanaro o alpinista che sia, chi sfida la gravità, va sempre in direzione contraria. 

Per chi conosce e pratica la montagna il nome di Enrico Camanni non ha bisogno di presentazioni: alpinista in primis e poi “giornalista di montagna” e romanziere. Il suo ultimo libro, edito per i tipi di Laterza nel 2016, raccoglie una serie di storie di “resistenze” sul cui sfondo si staglia il profilo variegato delle Terre Alte. Il protagonista è senza dubbio il territorio alpino, sia da un punto di vista geografico – inteso simultaneamente come terra di confine, limes – che come “alta via”, via di passaggio. L’autore si muove in un ampio orizzonte cronologico che si snoda per settecento anni e presenta un insieme di figure più o meno note: l’elemento comune non è tanto il legame con la montagna tout court, ma la scelta di percorsi di opposizione, contrasto e resistenza. È un libro corale e, attraverso ciascun racconto, non solo si apprende la storia del protagonista, ma si declina un aspetto della montagna. È così che, mentre si leggono le storie del noto Guglielmo Tell e di Fra Dolcino e dei suoi seguaci eretici sulle pendici del Monte Rosa, la montagna è rifugio e territorio di fuga. Diviene poi vero e proprio orizzonte di guerra sulla scia delle storie di resistenza che Camanni ha raccontato nel suo libro precedente, Il fuoco e il gelo (Laterza 2014), uscito in occasione delle trascorse celebrazioni per il centenario della Prima Guerra Mondiale. In questo libro si individua, inoltre, il filo conduttore, caro già in passato all’autore, dell’attenzione all’ambiente che però declina nei rigorosi termini del rispetto della montagna. Attraverso alcuni dei quadri narrati, infatti, racconta al grande pubblico i modi attraverso cui si esprime la lotta per il turismo sostenibile: presenta così il caso di Cervières e di come la popolazione locale si fosse radicalmente opposta alla trasformazione del proprio paese in una location da turismo di montagna alla fine degli anni Sessanta.

Negli anni del boom economico, di fatto, la montagna ha subito un profondo stravolgimento naturale ed economico che ha portato con sé la trasformazione non solo del paesaggio e della natura ma anche dei residenti e delle loro vite. L’autore analizza sia i risultati dell’impatto di alcuni impianti di risalita sia le conseguenze del turismo massivo in montagna e “delle metastasi dell’industria turistica”. E qui si legge della manifestazione organizzata il 16 agosto 1988 dall’associazione Mountain Wilderness per bloccare la telecabina della Vallée Blanche sul Monte Bianco, prescelta come esempio di impianto costruito in totale disprezzo dell’ambiente; e, ancora, la già citata questione connessa a Cervières, risoltasi in una scelta di turismo slow ante litteram. 

Camanni non sceglie mai il tono della polemica o della critica aperta, ma la sua posizione – alla luce peraltro della recente crisi economica che profondamente ha colpito le realtà vallive e montuose – invita ragionevolmente a riflettere sulle ragioni per cui oggi si tenti un ritorno sì a “un consumo” sostenibile delle Terre Alte, ma soprattutto a produzioni agricole e artigianali locali. Il ritorno a queste ultime è caldeggiato evidentemente nell’ottica di un ritorno alle origini e, soprattutto, alle consuetudini proprie delle realtà di montagna, non del turismo di nicchia. L’autore infatti parla di nuovi montanari che per contrarietà, e soprattutto per motivazioni etiche ed ecologiche, scelgono di trasferirsi, quasi ascoltando una vocazione.

Nell’ottica della resistenza al progresso “insostenibile” invece racconta, avvicinandosi molto a temi di resistenza contemporanea, la vicenda di Luca Abbà e ripercorre, attraverso questa, forse una delle pagine più significative per la storia del movimento No Tav valsusino. L’autore, in Nevica su Venaus, racconta l’accaduto nei primi di dicembre 2005 in Val Clarea dove era stato invitato tra i relatori dal Laboratorio per la Democrazia a partecipare a un incontro dal titolo Paradigma dello sviluppo e Alta velocità: un bilancio interdisciplinare, con Beppe Sergi, Luca Mercalli e altri.

A dodici anni dai fatti, l’affermazione “Dopo Venaus cambia tutto e non cambia niente” è assolutamente calzante alla luce di quanto è accaduto e di quanto non è accaduto negli anni a seguire. Si pone da stimolo ulteriore per le prime sintesi, ormai doverose e indispensabili, della vicenda e dell’evoluzione del movimento all’interno della compagine politica nazionale e con l’adozione di una prospettiva storica.

Infine, l’ultimo quadro con cui Camanni chiude il suo libro è estremamente significativo e, peraltro, molto in linea con le polemiche del mese appena trascorso: è la storia “dell’ultimo ribelle”, Ligabue, il lupo a cui si “deve” in qualche modo “la prova che i lupi sono arrivati da soli”. Nella scelta di questo epilogo Camanni restituisce ai lettori e, in particolare, ai suoi lettori amanti della montagna, la sua idea di montagna perché “rappresenta quello che non siamo più”: “il lupo è ribelle per eccellenza, fuorilegge e fuori tempo […] rappresenta la natura selvaggia, il coraggio di andare, l’emozione primordiale”. E ancora: “La bestia ribelle abita terre ribelli” ed è “un catalizzatore di contraddizioni”, e Camanni individua subito il fulcro del problema: la questione del lupo è divenuta presto da ecologica o “naturalistica” una questione ideologica nonché, da ultimo, politica. A proposito, chiosa e conclude che, sebbene si viva nell’epoca di internet e tutto sia accessibile, tuttavia non si posseggano in generale, nemmeno oggi, gli strumenti culturali per una convivenza pacifica e realistica tra uomo e lupo, e il lupo rimane davvero “l’ultimo ribelle delle Terre Alte”.

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