Storia di Abu A. e del suo vortice | Alessandro Ciquera

img_0831Questa e’ una delle tante storie che come membri di Operazione Colomba incontriamo ogni settimana nella regione del nord Libano dove viviamo, a cinque chilometri in linea d’aria dalla Siria. La storia di Abu Ayman e’ la storia di un popolo, e’ la storia di una città, e la storia di un quartiere, è la storia di una famiglia e infine è sopratutto la storia di un essere umano. In questi anni di grande violenza verbale, politica e mediatica nei confronti di migranti e rifugiati in Europa il grosso rischio e’ di assuefarsi a un clima di terrore e frustrazione, dove la fanno da padrone le voci dei razzisti e dei populisti e dove coloro che credono in una alternativa possono al massimo sperare di condurre una lotta di difesa, di protezione dei principi minimi di solidarietà e di giustizia, di reggere l’argine dei diritti dell’uomo in una epoche dove essi vengono spesso derisi e disprezzati.

Come persone che vivono in mezzo a questo dolore e in mezzo a questi naufragi esistenziali, spesso ci troviamo a incassare tanti colpi quanti ne potrebbe incassare un pugile fragile in un incontro di pugilato con Mike Tyson ai suoi esordi. A volte usiamo il termine “schiaffeggiati di parole”, per definire il peso delle storie di vita, di guerra, di tortura e di amore che ci vengono rovesciati in fronte con una franchezza e una normalita che disarmano. Questo mese tuttavia siamo riusciti come gruppo LibanoSiria e come associazione tutta a fare uno scatto in avanti, a passare da una lotta principalmente di difesa ad una fase di attacco, seppure breve e circoscritta, una nostra delegazione ha portato al vice presidente della Commissione Europea le voci dei siriani profughi in Libano che abbiamo incontrato in tre anni duri e faticosi di presenza e di accompagnamento. Voci di persone che hanno rifiutato di uccidere o di farsi uccidere, che chiedono: zone umanitarie protette dai bombardamenti e dagli attori armati, giustizia e ricerca per gli scomparsi nelle prigioni governative e in tutti i luoghi di sofferenza e tortura disseminati lungo le strade del Paese; di fermare il continuo invio di armi a chi porta avanti la guerra, di prendersi cura dei feriti, di rompere gli assedi alle comunità’ strette nella morsa della violenza, di aprire corridoi umanitari, di lavorare ad un governo plurale che rappresenti a fondo le varie anime della Siria. Questi punti parlano con la voce di chi ha vissuto il dilagare della guerra e che desidera con tutto il cuore di potere continuare a vivere, sostenere l’appello, il grido di questa gente significa iniziare un percorso di attacco alle strutture che reggono la barbarie del conflitto, sfidare a campo aperto forze e interessi molto influenti. Significa, nella sua semplificazione, dare ad Abu Ayman una speranza in piu’ per credere nel bene che c’è’.

Quello che inferno non e’

L’aria scorre fresca sul volto di Abu Ayman, sono le sette del mattino di questo Aprile strano, il secondo anno di guerra. In Siria, ad Homs. Sono volati giorni come se fossero minuti ed ogni volta che si guarda allo specchio quest’uomo stenta a riconoscersi, volta dopo volta, come se le rughe avessero cominciato ad apparire troppo presto sulla faccia di questo essere umano con l’ingiustizia cicatrizzata addosso. Non sa cosa altro aspettarsi da tutta questa violenza e dalle bombe che gli cadono sulla testa ogni giorno come fossero pioggia che scende dalle nuvole, esplosioni costanti e regolari, un ritmo martellante che gli si incide della mente e lo perseguita giorno e notte. Chissà quanto tempo ci vorrà per dimenticare, se mai sarà possibile, i suoi figli stanno patendo quanto e piu di lui; di questo se ne e’ reso conto quasi dal principio di tutta questa follia. I pensieri si affollano nella testa, nella sua mente di uomo umile, abituato a lavorare sodo e a svolgere compiti manuali. Non ha mai chiesto nulla dalla vita se non il fatto di poter vedere crescere i suoi figli e di costruirsi un percorso suo, con dignita’ e sudore. Ha consegnato per anni bibite in un furgone appartenente ad una ditta dove lavora una parte della sua famiglia, sorride pensando alla sua esistenza prima della guerra, sembrava tutto cosi semplice e naturale, non avrebbe mai intuito la capacita di violenza insita nel genere umano. Incredibilmente gli ultimi anni sono stati ricchi di scoperte che Abu Ayman non avrebbe mai voluto fare, ha visto bombardamenti, l’esercito sparare sulla folla in manifestazione, la rivolta diventata sempre maggiormente lotta armata e l’estendersi delirante del cerchio della violenza. Un cerchio in continua espansione, che sembra potere risucchiare tutto senza limiti, un maledetto buco nero dove ha visto sparire tante, troppe persone. Questa mattina, il cerchio e’ arrivato a languire qualcuno di molto vicino al suo cuore, ed e’ stata una lacerazione dolorosa, neanche si ricorda la dinamica degli eventi, solo il ritornello ossessivo e malefico di quella voce sul suo telefono cellulare: “I tuoi fratelli sono stati sequestrati dall’esercito questa mattina mentre erano a lavorare al caffè in centro, ancora non si sanno dove li abbiano portati, sono arrivati a decine con le camionette e hanno bloccato la strada, mi dispiace amico. Dio li protegga”. Neanche e’ riuscito a sentire le ultime frasi della conversazione, le mani hanno iniziato a tremargli e la fronte a sudare, gli occhi sono diventati lucidi e un crampo allo stomaco lo ha piegato togliendogli il respiro. Avevano iniziato ad amputare la sua famiglia, pezzo per pezzo, le lacrime sono scese da sole, senza bisogno di ricercarle, poi il vuoto e un solo pensiero fisso: “Devo portare via i miei figli da tutto questo”. Abu Ayman e’ un uomo semplice, ma conosce l’orrore delle carceri del regime e ha sperimentato la brutalità dei suoi torturatori, le orecchie ancora gli pulsano per le urla dei prigionieri, negli occhi ancora la vista dei corpi, nelle narici la puzza nauseabonda di sangue e nei piedi il dolore per le bastonate. L’inverno sceso in terra, e quelle parole, quegli insulti ripetuti dai militari: “Nessuno sa che siete qui, non ne uscirete facilmente vivi”. Lui, in qualche maniera, ne era uscito, se esisteva un Dio allora lui gli aveva messo una mano sulla testa e lo aveva tirato fuori da quel vortice riportandolo agli affetti quotidiani. Lo stesso vortice all’alba di questa mattina si e’ ripreso il suo credito, strappandogli tre parti della sua anima: Mohammed, Abdelmalik, Qassem. Fratelli e padri di famiglia, cui non ha ancora avuto il coraggio di visitare i figli, che hanno cresciuto e protetto dalla violenza con tanta cura, fino a quando ne hanno avuto la possibilità. Lui e’ un figlio della strada, di uno dei quartieri maggiormente marginalizzati di Homs, non ha mai avuto garanzie particolari o regali ed e’ cresciuto spartanamente ma con valori sani. Non vuole trasmettere il dolore ai suoi bambini,che vede camminare con spigliatezza e intelligenza, sono un fiore in mezzo a questi campi di cenere. La vita che lotta per resistere, sente il dovere di accompagnarla e di non farsi trascinare in fondo a questo pozzo scuro, di cui non vede la fine. La lacrima ha finito il suo percorso ed e’ caduta sul tavolo di legno su cui e’ appoggiato a testa in giu. Un altra esplosione, questa volta molto piu’ vicina squarcia l’aria, un rumore di pale di elicottero, poi il boato forte come un ruggito, i muri tremano e sente nell’altra stanza la figlia iniziare a piangere.

Abu Ayman? Abu Ayman mi senti?” Lui alza lo sguardo, e incrocia gli occhi preoccupati degli italiani che stanno cercando di aiutarlo a mettere insieme i pezzi della sua storia. La memoria rioccupa il tempo presente e gli manda una scossa: siamo nel dicembre 2016, quinto anno di guerra, secondo anno dalla sparizione di quasi tutta la sua famiglia nelle prigioni di Assad. I mesi sono stati pesanti come pietre e quello che ha visto e udito farebbe piangere anche un vegetale. Quando si guarda allo specchio del garage della casa dove vive quasi non si riconosce piu’, vede un volto stanco, ingrigito, con i capelli che man mano hanno iniziato a cadere. Il volto qualche anno fa sempre sereno e sorridente ha lasciato il posto ad una smorfia abbattuta, solo in alcune occasioni riesce a riaversi: quando visita amici o quanto riceve persone a casa sua, in questi casi la fitta allo stomaco e i pensieri nella testa si diradano e lasciano spazio a una leggera sensazione di benessere. Ha avuto l’occasione di riflettere tante volte sul potere benefico di questi momenti, della forza e del valore della fratellanza e del riso, come antidoti al fanatismo e alla follia derivante dal potere. Mali che in ogni caso, nel suo cammino su questa Terra, lui ha più’ volte conosciuto. Non sa cosa chiedere a Dio, in questa fredda sera di inverno, di fronte a questi volti amici, di italiani appartenenti a questa organizzazione di cui spesso prova a pronunciare bene il nome, con scarsi ma divertenti risultati. Non sa cosa chiedere a Dio ma sente, in un punto in fondo al suo cuore, che questi volti stanchi a causa dell’ora tarda e del sonno che incombe sono li’ in piedi per lui e per nessun altro. La sua vita forse ha ancora un valore, un leggero formicolio gli solletica la testa e lo spinge a continuare a srotolare la sua storia, riprendendosi dove si era fermato, osservando con attenzione le mani e la penna blu, intente a incidere le sue parole su un foglio di carta.

Forse”, pensa Abu Ayman sdraiandosi sul materasso del suo garage troppo stretto per contenere tutta la sua famiglia, “Forse ha capito cosa chiedere a Dio questa sera: di aiutarlo a non dimenticarsi mai del bene che c’è. Di sostenerlo nel suo quotidiano sforzo per guardare in faccia l’inferno, e in mezzo alle fiamme, riconoscere ciò che inferno non è. Per proteggerlo questo bene, e dargli spazio”.

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