Matite “delebili”: tra referendum e crisi della realtà | Robin Piazzo


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Diciamoci la verità: siamo tutti contenti di esserci lasciati alle spalle il referendum costituzionale. La campagna elettorale è stata di livello estremamente basso; in più, durante le operazioni di voto, si sono diffuse sui social network e nei seggi improbabili leggende metropolitane su di un ipotetico “complotto delle matite”. Ma perché tutta questa bassezza? Le masse sono davvero affette da un “analfabetismo di ritorno”, tanto grave e diffuso da non permettere di comprendere un linguaggio politico che non sia farcito di insulti, ipotesi di complotto e dinamiche da reality show? La questione potrebbe in realtà essere più complicata di come appare e toccare alcuni aspetti centrali nel nostro sistema politico e sociale, quali il declino della dimensione valoriale della scelta democratica e della rappresentanza politica democratica e parlamentare.

In questo pezzo, provo a dare una specifica interpretazione delle circostanze del referendum e più in particolare la questione del “complotto delle matite”. Quando si indeboliscono le formulazioni esplicite di linguaggi sociali che permettono di concettualizzare i legami tra esperienza individuale e dimensione macro-sociale – le ideologie esplicite – il dubbio diventa l’atteggiamento più economico. Dopo la fine della storia, la tanto vituperata ideologia torna come ideologia implicita del dubbio, formalizzazione parziale di una percezione indefinita e liquida.

Il conflitto che si pone è quello tra blocco unico tecnocratico e un anti-sistema inerte e anarco-populista. Ciascuno schieramento è guidato da una sua ideologia implicita – There is No Alternative vs. Ideologia del Dubbio. La dimensione della scelta valoriale è più che mai messa in crisi, e con questa una chiara definizione della realtà politica e la democrazia stessa.

Democrazia valoriale

Nella turbolenza di queste ore complesse e drammatiche di vuoto politico, prendiamoci la libertà di scivolare con lo sguardo al passato. Come si dice, la storia conta. Questo non significa che sia possibile trarre dal passato lezioni letterali sul come comportarsi oggi; piuttosto, si può utilizzare il passato come “altro polemico” da proiettare sul presente al fine di acquisire gli strumenti contrastivi fondamentali per produrre ragionamenti significativi sul mondo che ci circonda.

Torniamo dunque un po’ indietro, e pensiamo alle grandi manifestazioni di democrazia diretta delle nostra storia repubblicana: il voto monarchia/repubblica e i referendum su aborto e divorzio. In che cosa hanno differito tali scelte rispetto a quella che siamo stati chiamati ad esprimere ieri?

Innanzitutto, quelle sono state scelte VALORIALI. Si è trattato cioè di esprimere decisioni non tanto intorno ad un aspetto preciso, circoscritto e tecnico, ma di scegliere tra grandi visioni del mondo. Aderisco ad una interpretazione secondo la quale il fulcro della democrazia non risiede nel momento di formazione di un parere rispetto a questioni di policy, circoscritte e tecniche, ma la piuttosto nella discussione conflittuale di scelte di valore. La mia visione in materia può forse apparire brutale: come si può pensare che i cittadini di una società complessa e capitalistica abbiamo la capacità e la possibilità – e, di conseguenza, il dovere – di comprendere a fondo questioni molto complesse e specifiche, rispetto alle quali di fatto pure gli esperti che hanno investito la propria vita nello studiarle sono in grande disaccordo nel definirne il merito. Per fare un esempio: un cittadino può, con qualche difficoltà, attribuire un significato politico chiaro ad un quesito che chieda di esprimere una scelta tra un sistema statale federale ed uno accentrato, perché questa scelta ha sì delle componenti tecniche, ma la sua sostanza è intrinsecamente valoriale se inserito all’interno di più ampie e reciprocamente alternative rappresentazioni della politica, e ciò rende possibile un confronto che entri nel merito della questione. Il referendum di ieri ci ha chiesto di entrare nel merito di una riforma complessa che ha delineato un modello difficile da inquadrare in maniera coerente all’interno di una scelta valoriale che non fosse estremamente espulsiva rispetto ad alcuni aspetti della riforma stessa. Anche qui, un esempio per chiarire la questione: una scelta valoriale che alcuni hanno intravisto in questo referendum è stata quella tra “paradigma della governabilità” e principio della supremazia del parlamento; questa può essere una rappresentazione-riduzione pertinente, soprattutto in virtù dell’ipotesi del combinato disposto con l’Italicum, ma lascia comunque fuori la questione della riforma della composizione del Senato e altri aspetti non secondari quale la disciplina dell’istituto referendario. La mia tesi è che indire questo referendum sia stato di per sé sintomo di una sconfitta politica, che il governo Renzi ha tentato in maniera acrobatica di ribaltare in un pericoloso plebiscito. La politica ha fondamentalmente abdicato al proprio compito a favore del Demos; ovvero ha fallito nella ricerca di un accordo politico su un tema che, data la sua complessità, necessiterebbe di un lavoro tanto raffinato da poter essere garantito solo da un rapporto proficuo tra politici di professione e tecnici – questi ultimi, rigorosamente al servizio della politica ed in una posizione strettamente subordinata – abbinato alla capacità di creare una base di consenso forte avrebbe potuto assicurare; oppure, ancora meglio, sarebbe stato necessario fare una riforma capace di essere valorialmente inquadrabile, se davvero si fosse voluto passare per la legittimazione del voto popolare.

Dopotutto, l’istituto del divieto di mandato imperativo riprende proprio quanto appena detto. I cittadini, in base a valutazioni di tipo soprattutto valoriale, eleggono i propri rappresentanti; rappresentanti che, nel momento in cui sono eletti, recidono il rapporto diretto con coloro che hanno espresso la propria preferenza nei loro confronti e diventano garanti dell’interesse generale; interesse generale inteso non come interesse totalitario di una società irrigidita in un’unica formazione autoritariamente collettivizzata e ridotta a forme di pensiero unico, ma come capacità di portare alla discussione parlamentare i vari orientamenti valoriali e reciprocamente alternativi che rappresentano la società, con il mandato di trovare un compromesso ampiamente accettabile tra questi – definito dal peso specifico dei singoli schieramenti – e di formalizzare tale compromesso all’interno di dispositivi normativi capaci di essere effettivi grazie ad una stretta relazione tra politica e forme riconosciute di sapere.

Tutto ciò può aiutare a comprendere perché la campagna elettorale sia stata così brutta. Il referendum nasce, come ho già detto, da un fraintendimento – volontario? E’ chiaro che per votare in maniera sensata bisogna sapere entrare nel merito; ma ciò diventa complicato se tale merito è composto in maniera preponderante da materia per tecnici e non per cittadini – ovvero scelte valoriali. Succede allora che l’interpretazione del significato del voto non è più consensuale. Differenza coi casi di voto diretto citati in apertura: nessuno avrebbe dubitato che nei referendum su aborto e divorzio si discutessero diverse concezioni della società a partire da diverse concezioni dei rapporti familiari. Nel caso del referendum costituzionale si è prodotta una situazione in cui, in assenza di bussole valoriali socialmente costruite e consensualmente riconosciute, ai cittadini è richiesto di generare individualmente una definizione del merito tale da renderlo comprensibile. Il voto diventa dunque un voto multiplo quanto multipli sono gli escamotages escogitati per dare un significato alla sostanza del questito: chi vota pro/contro Renzi, chi vota per il “popolo”, chi vota contro la modifica del Senato, chi vota per la modernizzazione, chi vota facendosi il segno della croce, chi vota con nichilismo per lo sfascio di tutto. Che abbiano avuto tanta importanza i volti dei singoli attori politici come attrattori di consenso non è un accidente ma una quasi meccanicistica proiezione di ciò che avviene nella società tardo-moderna quando la soggettività politica diventa estremamente atomizzata; ognuno è chiamato a votare con la propria testa, e ciò può essere un bene, ma di fatto in questo caso lo fa senza una bussola valoriale sufficientemente definita e condivisa, con la conseguenza che ciò che si va a perdere è il consenso rispetto a cosa sia la realtà politica. In un regime che esclude la dimensione valoriale a favore di una sorta di consensus tecnicizzato – in cui la posta in gioco sono le policy, e non gli orientamenti valoriali – la lotta per definire che cosa sia la società e cosa sia la politica rientra dalla finestra sotto forma di esplosione del contratto politico-sociale o di personalizzazione delle alternative – e il fatto che Renzi abbia di fatto posto il voto come un plebiscito pro e contro il proprio operato di governo ne è la prova lampante.

Il Cnel, ovvero sul feticcio del consensus che non c’è più

Tra tutti gli aspetti del quesito referendario, quello più ignorato mi sembra essere in realtà quello che maggiormente aiuta a descrivere la situazione politica contemporanea. Il Cnel è stato definito come un carrozzone, uno stipendificio, ed è di fatto del tutto dismesso da tempo; ma in linea di principio esso doveva essere il baluardo della politica dei corpi intermedi e del compromesso tra capitalismo e ideologie dell’uguaglianza e fratellanza. Il fatto che questo istituto abbia di fatto fallito la propria missione dipende da dinamiche non per forza strutturali, ma il fatto che la sua abolizione passi assolutamente in secondo piano e sia letta meramente come necessaria opera di riduzione dei costi della politica ci fa capire come siano innanzitutto il concetto di politica dei corpi intermedi ed il compromesso tra liberalismo e socialismo ad essere da tempo sepolti. Il che è un problema, perché storicamente la democrazia e le conquiste sociali si sono realizzate e approfondite sostanzialmente grazie alla presenza di corpi intermedi capaci di razionalizzare e rendere politicamente praticabili le istanze – altrimenti informi – prodotte dal corpo sociale. A guadagnarci da tale assetto sono stati sia i cittadini – che tramite i corpi intermedi sono diventati veri e propri soggetti e politici nella misura in cui sono stati inseriti all’interno di collettivi ideologici e di classe – sia la politica alta e le classi abbienti, nella misura in cui tale forma di mediazione ha permesso di ridurre e/o incanalare l’impatto altrimenti devastante delle potentissime istanze critiche emerse nel lungo secolo di massificazione della società. Un assetto del genere si è fondato, come accennato sopra, su di un consenso valoriale intorno ad alcune questioni fondamentali e soprattutto intorno al ruolo dei corpi intermedi ed è stato tanto forte da consentire che le grandi narrazioni confluite nella sua costituzione – fondamentalmente, quelle di impronta socialista e il compromesso cristiano-liberale – di darsi battaglia senza riuscire mai a distruggere la struttura democratica. Il merito delle grandi narrazioni è stato soprattutto quello di definire opzioni valoriali chiare e fungibili nella misura in cui di fatto queste sono emerse come riduzioni descrittivamente efficaci di alcuni aspetti fondamentali del cambiamento sociale interno alle democrazie della seconda metà del novecento1.

A partire dagli anni ’70, questo consenso e questa struttura narrativo-valoriale della politica si sono spezzate, e ciò per effetto sia di alcune dinamiche strutturali – approfondimento dei processi di individualizzazione, irruzione della globalizzazione ecc. – sia di scelte politiche deliberate. Una celeberrima frase pronunciata dalla famigerata Iron Lady ci porta direttamente dalla politica del consensus alla destrutturazione individualizzante dei nostri giorni: “La società non esiste”, la politica non è altro che aggregazione di interessi individuali e differenziati, la sintesi non deve esistere come forma di espressione argomentativa della volontà generale ma come alternanza nel mandato di governo. Ad un consensus fondato sua narrazioni contrapposte ma legittimate politicamente viene sostituito un consensus mai espresso apertamente e fondato su di una singola narrazione, ovvero quella Neoliberale. E’ evidente in questo momento che il disegno ordoliberale di riduzione dello stato a favore del mercato sia tutt’altro che completo; ciò non sminuisce l’importanza della nuova ondata narrativa, ma fa capire bene che il Neoliberalismo ha governato e governa il mondo contemporaneo come razionalità politica solitaria più che come visione economica. Laddove il patto politico-sociale è stato in precedenza fondato su di un compromesso inclusivo, il Neoliberalismo promette di abolire la necessità stessa di un patto politico-sociale; salvo poi fondarsi su di una forma di accordo più subdola, riformando lo spazio politico in un senso che tende ad espellere dalla rappresentanza la dimensione dello scontro sui valori a favore di una concezione semplicistica e tecnicizzata rispetto al mandato di governo. Il passaggio si può riassumere in due parole: si passa dal government – giustificato in quanto potere verticale esercitato da chi ha ottenuto un mandato collettivo-discorsivo di rappresentanza della società – alla governance – modalità politica concertativa e apparentemente più democratica nelle pratiche, se non fosse per il fatto che rende possibile una visione meramente tecnica delle questioni ed espelle le alternative valoriali che a tale visione si oppongono.

Il complotto delle matite

Il problema fondamentale è che se la dimensione valoriale, che è l’unica dimensione significativa per i cittadini in relazione all’istituto del voto su base sovralocale2, perde la possibilità di essere rappresentata in maniera strutturata si innescano dinamiche potenzialmente distruttive. Da un lato, i cittadini rischiano di scivolare nell’apatia nella misura in cui si sentono sovrastati da scelte che non riescono a comprendere e nelle quali non vedono urgenza alcuna, con la conseguenza che si ritirano dal gioco politico e percepiscono una grave perdita di libertà di espressione e sovranità. Dall’altro lato, se i cittadini perdono fiducia nel sistema politico di rappresentare le proprie aspettative e le proprie paure, queste aspettative e paure non spariscono comunque. Piuttosto, esse tendono a ritornare ad una fase pre-verbale: non esistendo più narrazioni generali capaci di trasformare questa espulsione valoriale in un’immensa onda d’urto conflittuale, ciò che si produce è disaffezione, turbamento, inquietudine; sentimenti e sensazioni relativamente semplici, che non permettono di rappresentare e significare le forze che muovono il tempo presente, finendo piuttosto per opacizzarle.

Il lato positivo della questione, da molti ignorato, è che ciò che diventa veramente visibile è la strutturale opacità del potere; il che risulta particolarmente utile in tempi come questi in cui esso sempre più tenta di giustificarsi sulla base della propria capacità di essere trasparente3.

Ma ritengo che ci sia poco da sperare in tal senso, almeno per ora: è evidente che questa percezione di opacità non si sta attualmente sostanziando in narrazioni critiche e politicamente spendibili; piuttosto, dalla crisi della rappresentanza politica sorge una sorta di anti-narrazione fondata sul presupposto di un dubbio tanto radicale da apparire quasi cartesiano: la teoria del complotto.

Nel vuoto lasciato dalle grandi narrazioni si sviluppa il loro opposto, ovvero il liquido dubbio. Le teorie del complotto insistono sul tema del dubbio sotto due punti di vista. Da un lato, esse sono strutturalmente fondate sull’esercizio di un dubbio potenzialmente senza limiti, in quanto ciò che viene messo in discussione è la possibilità di verificare qualsiasi tipo di dato o informazione. Dall’altro lato, il ragionamento complottista è una sorta di ragionamento auto-immune che si manifesta come dubbio su sé stesso. Chi parla di complotti non lo fa per forza perché è profondamente convinto che questi esistano. Più modestamente, in genere le persone intendono in tale maniera manifestare un’ipotesi, che può essere anche un’ipotesi per assurdo. In tal senso parlare di complotti equivale a dire: non vedo cosa c’è in questa oscura e liquida nube pre-verbale – nube che occupa il posto in cui una volta stava il dissenso politico. Non è che magari il fulcro di tale oscurità sta in un inganno, ovvero in un’opera razionalmente pianificata ed implementata da parte di attori che non riconosco e che potrebbero essere dotati di poteri tanto immensi da essere in grado di dissolvere il concetto stesso di realtà?

Ecco allora che la viralità assunta dalla leggenda metropolitana delle “matite cancellabili”4 non può più essere vista come casuale o, peggio, come prova del fatto che le persone sono diventate sceme – con godimento dei tanti che, sui social network e offline, inneggiano all’abolizione del suffragio universale in virtù della troppa stupidità diffusa nel corpo sociale. Il fatto che per la prima volta in settant’anni ci siano diffusissime e decise proteste ai seggi rispetto all’uso della matita come strumento per esprimere il voto deve essere letto come un fatto sociale di primissimo piano, capace di sintetizzare in sè tutto il discorso che ho fatto sopra. Se questo referendum è stato una spettacolare rappresentazione del declino del concetto di realtà politica come consensus fondato sul confronto valoriale – declino che si è verificato come conseguenza del declino delle grandi narrazioni nel dare forma alla dimensione valoriale della scelta politica -, non poteva certo accadere che il frutto emergente di tale declino – la condensazione della “nuvola oscura pre-verbale” in una rigida anti-narrazione fondata sul dubbio radicale – mancasse di bussare alla porta e presentare il conto.


1 Si noti che ho aggiunto un elemento ulteriore rispetto a quanto detto nel paragrafo precedente, dove ho parlato della democrazia come ambito di scelta valoriale. Se si parla di società moderna, certamente la dimensione valoriale rimane l’elemento fondante; ma essa è stata storicamente formulata ed esercitata attraverso la democrazia sociale almeno tanto quanto quella parlamentare. Si mitiga così di fatto l’istituto del divieto di mandato imperativo, nella misura in cui esso ha convissuto e certamente ancora convive – benchè in maniera differente e ormai ben poco democratica – con forme di rappresentanza legate a più specifici segmenti sociali e organizzativi.

2 Sto ancora semplificando, mettendo a margine la questione dei corpi intermedi.

3 Harry G. West e Todd Sanders (a cura di), Transparency and Conspiracy: Ethnographies of Suspicion in the New World Order, Duke University Press, 2003

4 http://firenze.repubblica.it/cronaca/2016/12/04/foto/pelu_su_fb_la_matita_per_votare_non_era_indelebile_ecco_le_immagini-153452320/1/#1


Robin Piazzo ha 24 anni e studia Sociologia all’Università di Milano-Bicocca. Ha scritto una tesi sulle teorie del complotto e fatto ricerche empiriche sulle nuove destre, la riconciliazione in Bosnia, i discorsi sulla diversità culturale nella campagna elettorale di Milano 2016 e i processi di bilancio partecipativo. Ha promosso, come presidente di un’associazione di ex allievi dell’ IIS 8 Marzo di settimo torinese, un approccio partecipativo per la riflessione collettiva su temi di attualità. Fa parte di un gruppo informale di giovani a Settimo Torinese che lavora per la ridefinizione in senso partecipativo e inclusivo delle politiche giovanili locali e collabora come membro con la rete WeCare come membro del gruppo di studio del progetto “Meridiano d’Europa”.

1 commento
  1. Raffaele
    Raffaele dice:

    Caro Robin….eravamo al seggio ed ho capito che eri per il NO …ma ho anche avuto conferma di una mia previsione ..e che cioè il NO avrebbe vinto ..ovviamente per me una grande sciagura. Ho anche riflettuto sul fatto tu che sei una persona intelligente e documentata votavi NO, ma sopratutto un giovane a differenza di me ..un vecchio di 61 anni convinto sostenitore del SI. Ho letto le tue riflessioni e ne condivido solo l'analisi ma non le conclusioni. Se le ho capite ……Anche io da giovane credevo nella democrazia dal basso ed ero persino un giovane della sinistra extraparlamentare …tra l'altro anche Gentiloni era del Manifesto come me. Io sono rimasto un elitario e non credo più nella democrazia dal basso. Anzi scrivo chiaramente che oggi occorre ridurre gli spazi di democrazia. Questa ipocrisia di una democrazia diretta mi fa paura, ne avverto un pericoloso ritorno al fascismo. Il M5S è per me il vero nemico da battere e la base sociale del fascismo. Spero in un accordo con Forza Italia per fermare le deriva autoritaria portata avanti dai Grillini. Il popolo come penso anche tu hai analizzato non ha minimamente capito per cosa si votava. Ottenendo il risultato opposto a quello che si prefiggevano. Cioè la vittoria dell'inciucio e della casta. Oggi la sola cosa che serve è la ripresa economica la sola in grado di sviluppare benessere e di far maturare consapevolezza e quindi democrazia. Anche sui corpi intermedi inizi con una analisi corretta ..ma arrivi a delle conclusioni che non condivido. Ho appena dato disdetta alla mia tessera ANPI ed alla CGIL sono corpi intermedi …ma difendono casta e privilegi non democrazia e libertà. Mi piacerebbe un confronto diretto se possibile. Mi fermo qui perchè direi cose ancora più gravi e…scriverle non sarebbe bene. Nelle tue conclusioni descrivi bene la mia posizione ovviamente senza condividerla. Avrai tempo e modo di conoscere la miseria umana …..chi ha votato per il NO in gran parte era arrabbiato per questione di soldi e contro gli immigrati non per difendere la democrazia. Saluti

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