Educazione e conoscenza al servizio del cambiamento. Il punto della situazione

Eleonora Ceccaldi, Fabio Poletto

Dal 23 al 27 novembre i palazzi e le aule magne del centro di Torino hanno ospitato più di cento appuntamenti tra sessioni plenarie, seminari, workshop, tavole rotonde ed eventi collaterali, in occasione del Festival dell’Educazione. L’edizione 2016 – “Connessioni educative” – ha avuto come fili conduttori il cambiamento e la costruzione della conoscenza, esplorati da innumerevoli prospettive e con approcci variegati, adatti al pubblico adulto come ai più giovani. I nostri volontari del servizio civile hanno partecipato ad alcuni di questi incontri, selezionati in base alle aree di interesse del Centro Studi. Di seguito proponiamo un breve sguardo sui temi toccati, che nel complesso costituiscono un’ulteriore tessera della riflessione sugli strumenti per educare la società secondo principi di pace e nonviolenza.

Una prima, propedeutica considerazione riguarda il cambiamento: esso è il cuore dell’educazione, il suo obiettivo finale sul lungo termine. Il processo educativo ha la sua ragion d’essere nella volontà di creare un cambiamento – prima nel singolo individuo, dandogli gli strumenti per ricollocarsi nel panorama sociale, e attraverso lui nella collettività; questa è la sua colonna portante. Paradossalmente la società odierna sembra non aver bisogno di stimoli per il cambiamento, anzi sembra esservi naturalmente votata, persino schiava: ciò che non è cambiamento, è percepito negativamente e assimilato alla stagnazione, e sottrarsi da questo meccanismo è tutt’altro che semplice. In questo contesto, allora, il ruolo dell’educazione non è più soltanto quello di incoraggiare al cambiamento, ma di fornire ai giovani gli strumenti migliori per gestirlo, per non farsi cogliere impreparati quando si troveranno immersi in questo flusso costante di instabilità. Se l’evoluzione personale e sociale è auspicabile, non ogni cambiamento è in meglio, e senza un’educazione adeguata le nuove generazioni rischiano di imboccare strade dannose per se stessi e per la società. Educare significa innanzitutto insegnare a orientarsi in questi processi e a fare scelte consapevoli, non guidate dall’egoismo ma incardinate su un senso di responsabilità globale.

Questa concezione si rivela uno strumento particolarmente efficace nel caso di soggetti marginali, segnati fin da giovanissimi da esperienze di illegalità e di reclusione. I percorsi di recupero di questi ragazzi e ragazze si sono evoluti molto negli ultimi decenni, proprio grazie al ruolo giocato dall’ educazione. Il cambiamento consiste nel ridefinire completamente il linguaggio e i modi del percorso di recupero e le prospettive di vita dei soggetti; lo stesso processo in tribunale diventa un atto pedagogico. Dagli atti punitivi e restrittivi si passa a processi di empowerment, sperimentazione, inclusione e partecipazione; si coinvolgono nuovi attori e si pensano nuovi spazi; si cercano e sostengono bisogni educativi latenti; si offre la possibilità di immaginare nuove possibilità, nuovi scenari partendo dall’esistente. Alla fine del processo i cambiamenti raggiungono ogni aspetto della persona: idee e rappresentazioni, atteggiamenti e abitudini, forme comunicative ed espressive, configurazioni emotive e relazionali, prospettive di significato a livello individuale e collettivo. L’individuo prima marginale torna al centro, e il suo diventa un potenziale di cambiamento positivo per la società intera.

La società attuale si trova in una tensione tra modernità e tradizione. A nuovi modelli e nuovi ruoli femminili si affianca una tensione verso la tradizione che il cambiamento sembra mettere in discussione. In questo senso, il cambiamento, e con esso un’educazione che lo abbia come fine, non può prescindere da usi, costumi e tradizioni. La televisione è, secondo il 13° rapporto CENSIS sulla comunicazione, ancora il mezzo principale per informarsi. L’educazione ai media si pone in mezzo a questo contrasto modernità/tradizione, educando gli adolescenti all’utilizzo dei media, in particolar modo a riconoscere ed analizzare gli stereotipi di genere e le rappresentazioni fuorvianti che tendono a frenare un cambiamento che possa portare ad una maggiore parità di genere. Piccoli segni della capacità dell’educazione ai media di promuovere il cambiamento arrivano dai dati sulle denunce di sessismo nelle pubblicità: tra le pubblicità ritirate il 60% è segnalato da adolescenti. Ma un’educazione capace di un cambiamento reale, per quanto riguarda le tematiche di genere, inizia ben prima dell’adolescenza. I precetti sul genere maschile e femminile iniziano a normalizzarsi verso i 3-4 anni di vita, momento in cui le caratteristiche biologiche riguardanti il sesso maschile e femminile cominciano ad essere confuse con quelle sociali e culturali. Anche le parole possono essere strumento di cambiamento: studi hanno dimostrato che già nei libri dedicati alla prima infanzia sono presenti i “semi” di quella che sarà, età adolescenziale e poi adulta, la disparità di genere. Se infatti, nei libri di testo per la scuola primaria, i bambini possono scegliere tra oltre 50 vocaboli i possibili mestieri da svolgere “da grandi”, le bambine godono di una scelta assai meno ampia (circa 20).

L’educazione può portare a un cambiamento anche quindi in virtù del potere del linguaggio (visivo, scritto e parlato) nel dare forma a sogni, rappresentazioni e costruzioni di modelli. Se non si presta la dovuta attenzione al linguaggio, saranno i media, ad inventarne uno per noi.

L’adolescenza è l’epoca del cambiamento per eccellenza: l’educazione degli adolescenti merita perciò un’attenzione particolare. Per quanto riguarda l’educazione alle tematiche di genere nella scuola, trattare certi argomenti significa non sottostare ad un’educazione che, ad oggi, in Italia, è principalmente in mano ai media.  Le tematiche di genere non sono slegate dai tristemente noti fenomeni del bullismo omofobico e transfobico: le persone omosessuali o transessuali sono spesso vittime di violenza in quanto non rispettano i canoni del genere, sono non conformi. L’omosessuale uomo con atteggiamenti percepiti come “femminili” mette infatti in discussione l’idea della superiorità del genere maschile in quanto rinuncia al suo status di “macho”. Per queste ragioni, l’educazione può essere veicolo di un cambiamento che passa soprattutto dalla scuola: da laboratori e attività capaci di informare sulle tematiche LGBTQI e di genere, dalla presenza di insegnanti apertamente omosessuali e transessuali che diano il messaggio di una scuola come posto sicuro per tutte e tutti, dalla presenza, nei curricola scolastici, di autori, scienziati, personaggi storici anche femminili, da modelli di maschilità positive.

Una realtà e una prospettiva non distanti ci vengono presentate dall’Osservatorio Permanente per la Prevenzione del Bullismo, che nell’anno scolastico 2015/16 ha coordinato numerosi progetti volti a prevenire e contrastare fenomeni di bullismo e cyberbullismo nelle scuole superiori della città di Torino e della regione Piemonte. I percorsi puntavano, con modalità educative sia formali che non formali, a fornire competenze relazionali, di cittadinanza e inclusione, oltre che a sensibilizzare sugli effetti negativi del bullismo.

L’educazione, poi, può essere declinata come esercizio al pensiero critico, specialmente in relazione al percezione del corpo e all’uguaglianza di genere nella società occidentale odierna. La tecnologia ci permette di intervenire sul nostro corpo in innumerevoli modi: talvolta per esigenze di salute, talvolta per questioni di identità o di estetica. Questa ci pare una conquista che apre nuovi orizzonti  di libertà e autodeterminazione, e dal punto di vista tecnologico lo è. Tuttavia, nei casi in cui si decide di intervenire sul proprio corpo per ragioni estetiche lo si fa condizionati da un bisogno indotto, inseguendo un ideale di bellezza o comunque di “giustezza” creato ad arte dal mercato e dai media, che a ben guardare ha poco sapore di libertà o autodeterminazione. Questo meccanismo agisce su uomini e donne, ma è innegabile che il corpo femminile sia più usato, mercificato e reificato di quello maschile. In Italia, dunque, il corpo femminile ideale è bianco, magro, giovane, proporzionato, fertile. Discostarsi da questo modello ideale implica una perdita non solo sul piano estetico (meno bella), ma anche sul piano identitario (meno donna): e modificarsi con la tecnologia o con altri mezzi è un tentativo non solo di essere bella, ma anche di sentirsi riconosciuta come donna.

In questo stato di dipendenza dal corpo, il pensiero critico ci permette di liberarci dall’associazione tra corpo e identità, dall’appiattimento materiale della persona sul piano puramente fisico, e recuperare così un’idea dell’individuo a tutto tondo, dotato di profondità e non solo di estensione superficiale. L’educazione può insegnarci un significato più autentico di libertà, che non significa poter diventare ciò che si vuole, ma saper essere in base alle proprie possibilità e ai propri limiti; ciò si attua non con strumenti formali, ma insegnando ad apprezzare l’alterità e l’unicità di ognuno, dando l’esempio in quanto soggetto educatore, e costruendo reti con le famiglie e con il tessuto sociale dei ragazzi e delle ragazze, affinché imparino ad apprezzare la propria individualità e a non rapportarla a modelli artificiali.

1 commento
  1. angela dogliotti
    angela dogliotti dice:

    Bravissimi i nostri volontari in servizio civile che hanno seguito questo importante appuntamento sui temi dell'educazione, e ci hanno dato la possibilità di conoscerne alcuni contenuti, grazie!
    Angela

    Rispondi

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