Guerre e migrazione

Vanessa Maher

Ringrazio il Centro Studi Sereno Regis per avermi invitata a parlare di guerre e migrazione. Come antropologa sono abituata a trattare temi più circoscritti, ma tenterò di dare un contributo all’impostazione della discussione. Probabilmente nel pubblico ci sono persone esperte su questi argomenti: i materiali sono quelli che tutti conosciamo ma che siamo abituati a trattare a frammenti. Tenterò di metterli in qualche ordine, privilegiando l’analisi rispetto alla cronaca e mettendo in discussione qualche luogo comune.

Il titolo del Seminario sembra rappresentare in termini di un’unica causa e effetto la tragedia soprattutto dei profughi che oggi vediamo svolgersi in più parti del mondo. Tuttavia il titolo che inizialmente parlava di «ondate» ci serve per fare qualche precisione. Prima di tutto, sappiamo che il termine ondate (spesso usato in Europa per parlare di migranti stranieri) è una metafora con connotazioni catastrofiche che porta il pubblico a credere che il numero di migranti in Italia sia enorme, e a temere persino di esserne travolto (come i due ragazzi diciottenni di Venaria che l’altro giorno, parlando con una Donna in Nero che stazionava in via Garibaldi, ipotizzavano che i migranti in Italia fossero 15 milioni).

Negli anni Ottanta i numeri di migranti erano molto più piccoli, ma in Italia si parlava già di «ondate». Le metafore hanno un impatto sull’immaginario del pubblico, specie quello televisivo. Queste metafore plasmano anche le politiche, le leggi e le misure pratiche che si adottano nei confronti sia dei profughi sia di altre persone migranti1 (vedi Maher 2014). Diversamente, sembra che le cifre e le statistiche anche contraddittorie che ci arrivano dai mass media lascino il tempo che trovano. Quindi eviterò di citare troppi numeri e proporrò una cornice di ragionamenti e domande.

L’Africa che accoglie i profughi

Per incominciare, vorrei citare un articolo di Marco Pantano su un sito online («la Voce di New York» aprile 2016) intitolato L’Africa che accoglie i profughi, in cui l’autore descrive come, dopo un’ennesima esplosione di violenza nel Congo nel 2013, siano arrivati circa 15.000 profughi congolesi nel West Nile, una zona povera ma fertile dell’Uganda, relativamente «in pace» solo dal 2002. Dopo una riunione degli anziani, i clan locali hanno deciso di assegnare loro circa 250 metri quadri di terra per famiglia, con i sementi e gli attrezzi per coltivarla.

Alcune ONG (Organizzazioni Non Governative) attive nella zona forniscono un breve periodo di formazione agricola, al quale hanno accesso anche i locali. I congolesi convivano senza drammi con la popolazione locale, in attesa di tornare a casa. Anche il Sud Sudan che si trova appena oltre la frontiera dell’Uganda, nonostante sia tuttora in preda ad una guerra civile, ha incominciato ad accogliere profughi dal Congo. L’Onu ha appena formato fra di loro e avviato al lavoro un migliaio di elettricisti e falegnami, molto richiesti.

La Tanzania accoglie profughi dal Burundi, dopo aver ospitato per decenni ruandesi, mozambicani e sudafricani. La prima domanda è: perché la ricca Europa con i suoi 500 milioni di abitanti, ma con una densità di abitanti inferiore a quella ugandese e un Pil molto superiore, fa tante storie? Solo il 3% dei profughi nel mondo approda in Europa, mentre il 97% è ospitato nei paesi in via di sviluppo o emergenti. Alla fine del 2014, i rifugiati nei 15 paesi europei ammontavano a una media di 4,5 ogni mille persone e quindi meno di 1% della popolazione.

Il fardello per l’Italia era 2,3 euro del Pil per capita, quindi due caffè all’anno per ogni italiano, a ogni abitante della piccola Svezia costano qualcosa di più. I profughi in Libano – che sono circa 1 milione e mezzo in un paese che ha una popolazione di 4 milioni e mezzo – costano 70 euro/ capite del Pil, quelli in Giordania 67 euro/capite. Dobbiamo chiederci non solo quali siano le risorse potenzialmente disponibili per l’accoglienza, ma anche a quali altri fini sono dedicate se non si spendono per accogliere e integrare i profughi? Dobbiamo tirare la cinghia ai profughi per potere spendere più soldi in armi o in vitalizi?2

Perché, diversamente dagli esempi africani citati sopra, non riusciamo ad immaginare una prospettiva insieme ai profughi? Senza togliere niente alle cortesi e efficienti squadre italiane di salvataggio, una volta che i profughi sono sistemati in un centro di accoglienza, il tempo per loro sembra fermarsi.

Le metafore

Il termine «ondate», spesso usato con riferimento ai migranti, potrebbe indurci a pensare che formino una categoria omogenea di persone e problematiche. Infatti il linguaggio burocratico e giornalistico, in obbedienza alla xenofobia montante, sembra voler escludere che i profughi siano « genuini». Si tende a volere etichettare come «migranti economici», anche senza averli interpellati, quelli che provengono. per esempio dalla Gambia o dalla Nigeria. Ma i profughi partono da condizioni sociali, paesi ed esperienze storiche e personali diversi e hanno diverse idee del futuro, e questo conta anche da un punto di vista legale.

I diritti di ogni individuale richiedente asilo vanno valutati. Fra gli afghani, pakistani, bangladeshi e africani dell’ovest, circa 98% sono uomini. Paradossalmente fra i siriani approdati in Europa c’è una percentuale più alta di donne 37%. Le ragioni e le condizioni della fuga sono diverse.

Regimi violenti e senza libertà

Non c’è bisogno che la guerra sia dichiarata perché la popolazione viva nella violenza. Un libro sull’antropologia dei conflitti armati contemporanei (Paul Richards (a cura di), 2005) si intitola No Peace. No War. Non sono solo le guerre che spingono la gente a partire o a determinare le meta. Concause sono il degrado politico nei paesi di origine, con il susseguirsi di regimi totalitari, corrotti e repressivi che, certo, hanno un sostrato militare e di violenza.

Per questo i giovani eritrei, in fuga dal servizio militare a tempo indeterminato, ma anche i giovani gambiani, avoriani, nigeriani, maliani, guineani, congolesi, sudanesi sono numerosi fra i profughi. Il Rapporto del We World sull’indice di esclusione sociale di donne e giovani dimostra che in questi paesi (WE World index), la situazione è grave. Come sostenne Amartya Sen, la condizione sociale della popolazione dipende non solo dal Pil ma anche da politiche culturali e forme di governo. Nei paesi dove vige la libertà di stampa, la mortalità infantile è più bassa.

Certo si tratta di un rapporto mediato da molti altri fattori, di compresenza e non di causa-effetto. È probabile che un governo che rispetti la libertà di stampa abbia a cuore anche le condizioni sociali della popolazione. D’altra parte la rivalità fra fazioni diverse per il controllo delle risorse dello stato e del sottosuolo, scatena guerre e stimola l’emergere di signorie locali e gruppi armati che terrorizzano e depredano la popolazione civile. In un articolo su «La Stampa», (18 aprile 2016), Antonio Della Costa ci ricorda che ci sono 30 milioni di schiavi nel mondo, molti dei quali minori che lavorano come minatori, braccianti, operai, prostitute, domestiche e soldati. In 70 % dei casi le vittime del traffico degli esseri umani sono «svendute» dai propri connazionali e persino dai parenti.

Le regioni come il Corno D’Africa, la Guinea o il bacino del Chad (Camerun, Burkina Faso, Niger, Mali, Chad) sono zone franche per il traffico di armi e altre merci. Milizie locali sequestrano o «tassano» chi vuole passare sulle strade nelle loro aree. L’antropologa, Janet Roiman, chiama «la razionalità dell’illegalità» questa situazione in cui l’autorità dello stato viene considerata non diversa da quella di chiunque che con la minaccia offra protezione o esiga un pizzo.

Ambiente

Nanni Salio, il compianto Presidente e fondatore del Centro Studi Sereno Regis, scrisse nel 2014, «Non è tanto la scarsità o il degrado ambientale che predispongono al conflitto violento, quanto l’uso delle risorse che si iscrive in una dinamica di relazioni che possono essere cooperative o conflittuali3».

I mezzi di sussistenza della popolazione di molti paesi dell’Africa occidentale, sono stati compromessi da progetti di sviluppo legati all’agribusiness o allo sfruttamento delle risorse minerarie: per esempio la coltivazione del riso e degli arachidi in Senegal, oppure l’estrazione del petrolio in Nigeria. Queste industrie hanno arricchito alcuni ma impoverito molti di più, provocando movimenti di rivolta facili da strumentalizzare a fini politici.

Spesso il dissesto ambientale, dal punto di vista dei suoi abitanti, è provocato da grandi opere, dighe, canali, ferrovie che mettono a repentaglio la sussistenza della popolazione che nel caso migliore trova un impiego temporaneo nei progetti ma, nel peggiore, viene espulsa e poi finisce nei campi profughi4. Un caso tipico sarebbe il canale sul Nilo nel sud Sudan, che ha rovinato tutto l’ecosistema circostante e costretto le popolazioni Nuer e Dinka a fuggire o a combattersi per le risorse rimaste.

A spingere le persone a fuggire possono essere catastrofi dette «naturali», come la siccità che oggi assedia la Somalia, minacciando una carestia come quella del 2011, oppure il degrado ambientale come nei paesi africani del Sahel, che sono incidentalmente quelli più colpiti oggi da guerre locali. Tuttavia il rapporto fra degrado ambientale e guerra, come fra guerra e migrazione, è complesso e non a senso unico.

Domande

Per riassumere l’argomento fin qui: il rapporto fra guerra e migrazione è multifattoriale, non immediato e non a senso unico. Non è sempre vero che la guerra provochi la migrazione. La guerra può rendere la partenza impossibile come nelle 40 città siriane attualmente assediate dalla fazioni in guerra e non solo dall’ISIS. Perché i migranti non si muovono tutti verso i paesi ricchi? Perché alcune persone si sono mosse verso l’Europa in questi decenni e in altri periodi storici no? Quali sono le categorie di pensiero e di politica che l’ideologia europea dello stato-nazione e l’esperienza coloniale ci hanno lasciato in eredità o piuttosto come zavorra?

Lo stato-nazione e il nazionalismo xenofobo in Europa

È d‘obbligo un accenno allo stato nazione e il nazionalismo xenofobo in Europa, anche se questi discorsi vi sono venuti a noia. Per evitare lungaggini, citerò l’articolo «nazionalismo» di Francesco Tuccari sull’Enciclopedia delle Scienze Sociali della Treccani (1996)

«Agli inizi dell’Ottocento e la prima parte del Novecento il linguaggio della nazione e del nazionalismo opera su due costellazioni di teorie e di pratiche politiche radicalmente diverse: fino al 1860-70 la tradizione del pensiero liberale e democratico, dopo di allora, le ideologie dell’imperialismo».

Un fattore che è legato a tutte e due queste «costellazioni» e che sembra pesare sul destino dei profughi è il pregiudizio razziale. La stampa e i politici di destra e di sinistra distinguono fra siriani o al massimo eritrei (considerati veri profughi) e gli africani del Sahel, che secondo loro non lo sono. Già nel 199I, caduta in Italia la riserva geografica che riconosceva il diritto di asilo solo ai profughi dell’est europeo e l’Unione Sovietica, era difficile lo stesso per gli africani farsi riconoscere dei diritti, come fece notare al Prefetto di Torino l’associazione Harambe (e il suo Presidente Jean Marie Tshotsha, un rifugiato ruandese che fece molto per i i servizi sociali e culturali di Torino e per i migranti che vi approdavano).

Harambe lamentava i ritardi, gli errori, la mancanza di criteri equi, che riproponevano «schemi di segregazione dai quali il rifugiato politico fugge». La segregazione risultava dalle politiche incerte oppure ostili degli stati europei nei riguardi dei migranti e dei profughi, specie se africani (Maher, in corso di stampa) .

La formazione degli stati-nazione nel Novecento non era solo desiderata dalle elites locali, ma incentivata dalle potenze mondiali, ansiose a trarre dei benefici dalla disintegrazione dell’impero ottomano e di quello asburgico. Quasi tutti i nuovi stati sposavano la tesi dell’omogeneità della nazione, conferendo la partecipazione politica ad una parte soltanto della popolazione e producendo minoranze emarginate, vulnerabili e etichettate spesso erroneamente in termini etnici.

In seguito alcune di queste minoranze sono state perseguitate e costrette a movimenti migratori, forzati e no. L’idea che la popolazione dello stato-nazione dovesse essere omogenea fu riproposta non solo nei paesi dell’Est ma anche in Africa e Asia, riproducendo dei tratti centrali delle ideologie nazifasciste. I criteri per determinare l’omogeneità erano casuali e si tirava fuori ora l’uno ora l’altro per avvantaggiare un gruppo politicamente dominante: la lingua, oppure la religione, il colore della pelle, il modo di vita oppure «la cultura» in genere.

Migrazioni forzate

Il Novecento fu segnato da migrazioni forzate spesso in nome della omogeneità della nazione: le deportazioni novecentesche dalla Turchia nata dall’impero ottomano, le deportazioni staliniste di milioni di persone espulse da una repubblica sovietica all’altra, come i nomadi kazachi decimati dalle politiche governative in nome della modernizzazione agricola e industriale (vedi Buttino (a cura di), 2001).

Ma sarebbe bene non dimenticare il trasferimento forzato di circa 14 milioni di tedeschi dopo la seconda guerra mondiale, costretti a lasciare tutto per permettere la ridefinizione dei confini dalla Polonia. La Polonia era stata precedentemente divisa fra Hitler e Stalin, con trasferimenti forzati di polacchi e ucraini5. Lo «scambio» di popolazione nel dopoguerra fu deciso a tavolino dagli alleati per rendere «omogenee» le popolazioni destinate a vivere entro i confini territoriali dei nuovi stati-nazione. Le migrazioni erano occasione di enormi e tragiche perdite di vite con attacchi vendicativi ai tedeschi espulsi, perpetrati dalla popolazione civile entrante. Nel secondo dopoguerra la ridefinizione o fondazione di molti stati ha seguito questo modello, non ultimo nel caso di Israele (Morris, B. The Birth of the Palestinian Refugee problem, 1947-49, 1988).

Il trasferimento e lo scambio di minoranze «non omogenee» furono visti ancora come la soluzione ai conflitti nati negli anni Novanta sulle rovine della Yugoslavia e dell’Unione Sovietica. L’ideologia nazionalista e di chiusura sembra alzare la sua testa di nuovo oggi di fronte alla questione dei profughi. Il numero di profughi forzati, in un’Europa devastata da 6 anni di guerra mondiale, era enorme. Quelli che bussano oggi alle frontiere europee, al massimo 2 milioni in un’Europa più benestante, sono una goccia a confronto, ma la protesta nazionalista, recentemente sfociata nell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, è assordante.

La decolonizzazione

Nei paesi dell’Africa e del Medio Oriente la decolonizzazione fu spesso accompagnata dalla stessa retorica semplicista. Lo stato era identificato con una nazione omogenea, in realtà costruita a immagine dei suoi ceti dominanti. Dico «i ceti dominanti» e non «la popolazione maggioritaria» o «l’etnia», pensando a casi come il Sud Africa o i paesi del Golfo. Spesso i governi coloniali avevano già spostato la popolazione per accomodare i colonie e mobilitare forza lavoro.

In Algeria negli anni Cinquanta e ancora prima della guerra d’indipendenza, l’esercito francese mise in atto una strategia di repressione (refoulement) contro i berberi cabili, secondo loro colpevoli di nascondere dei guerriglieri nei villaggi. Il refoulement era una politica di devastazione, oggi si chiamerebbe antiterrorismo. I francesi incendiavano i villaggi di montagna, trasferendo la popolazione in pianura e insediandola in enormi campi, costruiti a griglia secondo uno schema militare. Secondo Bourdieu e Sayad, la situazione di deprivazione nei campi, dove la gente si trovava lontana dai propri terreni e animali, costringeva gli uomini cabili ad emigrare. Lasciando le loro famiglie, cercavano lavoro in città nelle fabbriche oppure nelle piantagioni dei coloni.

Per Bourdieu questo era il momento in cui i berberi «scoprirono il lavoro in senso capitalistico», diventandone dipendenti. Fin dall’inizio del secolo, i cabili erano già abituati ad emigrare in Francia, ma si organizzavano a staffetta, lasciando sempre qualcuno a casa con le famiglie e a lavorare la terra. Dopo il refoulement l’emigrazione assunse una forma più dura e alienata rendendo quasi impossibile la via del ritorno. Bourdieu e Sayad chiama il loro studio le déracinement, lo sradicamento, e Sayad coniò la frase «la doppia assenza» per descrivere la condizione dei migranti quando si ritrovavano senza una rete di sicurezza propria e additati come il nemico interno della Francia 6.

Il movimento di liberazione in Kenya, colonia britannica, capeggiato dai guerriglieri Mau Mau, fece poche vittime fra i coloni britannici ma il governo coloniale, rinforzato da un esercito composto di soldati provenienti da molti paesi (Africa Occidentale, Sudafrica oltre al reggimento KAR composto di keniani e britannici), fece trasferimenti forzati, rinchiuse in campi di concentramento i civili sospettati di complicità con i ribelli e si rese colpevole di maltrattamenti,impiccagioni e torture.

Ci fu poca migrazione verso altri paesi. Il conflitto assunse molti tratti di una guerra civile, con accuse di collaborazione e tradimento da una parte della popolazione verso l’altra. Spesso le politiche coloniali, come scrisse l’antropologo Jean Loup Amselle, producevano contrasti e rivalità, etnicizzazioni e fondamentalismi religiosi dove non esistevano prima e che ricompaiono nelle lotte per il potere negli stati postcoloniali7.

Non sempre il momento del passaggio dell’autorità coloniale ad un governo autoctono provocava vasti movimenti di popolazione, ma questo fu notoriamente il caso del Ruanda nel 1959, con il primo massacro dei Tutsi. In modo analogo la divisione dell’India nel 1947 fu seguita dalla fuga degli indu verso l’ovest del continente, dove prima convivevano popolazioni di molte religioni diverse, e dei musulmani verso l’Est. La secessione del Bangladesh dal West Pakistan, tutti e due con popolazioni a maggioranza musulmana, provocò un‘emigrazione di massa verso l’Europa, in questo caso la Gran Bretagna.

La secessione del Bangladesh diede luogo a una crudele guerra civile, in cui intervennero truppe indiane, stuprando e massacrando anche le donne. Lo stupro mira a rendere la convivenza impossibile, ha come fine la pulizia cosiddetto “ etnica”.8. Gli abitanti del East Pakistan, poi Bangla Desh, non avevano dove andare perché sia in India sia in Pakistan si faceva loro la guerra e si attaccavano le donne. Tuttavia è più frequente che le popolazioni espulse si rifugino nei paesi confinanti, come a varie riprese gli eritrei e somali in Sudan, i palestinesi in Giordania, gli iracheni in Siria, i coreani in Cina, gli afghani in Iran o Pakistan.9

Globalizzazione e regionalizzazione

Si fa spesso appello al concetto di globalizzazione per spiegare i vasti movimenti migratori del nostro secolo, come se le persone più disparate non vedessero l’ora di attraversare mezzo mondo in cerca di salvezza, ma in genere non è cosi. I movimenti delle persone non sono come quelli delle merci nel mercato mondiale oppure quelli delle informazioni attraverso internet. Una critica radicale e documentata ai luoghi comuni sulla globalizzazione si trova nei lavori del politologo Alessandro Colombo, specie nel libro del 2010 intitolato La disunità del mondo dopo il secolo globale10, in cui tenta di capire quali tracce della globalizzazione del Novecento siano presente nel nostro secolo, quanto invece sia prevalso una tendenza alla frammentazione regionale (nel senso di «area composta da paesi contigui»).

Un avvenimento economico come l’abbassamento del prezzo del petrolio coinvolge tutti i paesi, anche se in modo diverso e disuguale, perché la globalizzazione li rende economicamente interdipendenti. Ma sul piano politico questo non è vero. La carestia degli anni Novanta nella Corea del Nord, dovuto alla politica governativa di investire massicciamente in armamenti, ha causato la morte di circa 2-3 milioni di persone, 10% della popolazione. Questo catastrofe fu tenuto segreto e ignorato da tutti i paesi fuori della regione dell’Est e del Sudest asiatici.

Il venire meno degli imperi coloniali e poi della Guerra fredda che aveva posto vaste parti del mondo sotto il controllo e protezione dell’Unione sovietica oppure degli Stati Uniti, ha reso meno probabile che una guerra o altro evento politico coinvolga tutti gli stati del mondo, come accadde nel Novecento. Secondo l’analisi di Alessandro Colombo, il mondo è diventato un sistema di regioni debolmente connesse fra di loro e la sua articolazione è meno «globale» che nel Novecento.

Nel Novecento le regioni più importanti per gli attori politici erano solo tre: l’Europa con il Mediterraneo, l’America e l’Asia pacifica. Nella seconda metà sorsero sette sistemi postcoloniali (tre in Africa, tre in Asia e uno in Medio Oriente). Dopo la caduta del muro di Berlino sono comparse altre regioni sulle rovine dell’USSR. Queste regioni non sono collegate fra di loro. I paesi di una regione possono tenersi al riparo di quello che succede in un’altra. Sono scomparse le alleanze transregionali che esistevano in funzione della Guerra fredda e dei suoi due protagonisti principali.

Nel Novecento ogni conflitto poteva trascinare tutti i paesi in una guerra globale e si sono create delle istituzioni internazionali per prevenire questa catena tragica di avvenimenti (le Nazioni unite, l’Unione europea, la Nato, l’Unione sovietica). Ma oggi i conflitti sono locali con effetti regionali e non globali. C’è una sfasatura fra il carattere regionale delle guerre con le loro conseguenze locali e le istituzioni internazionali che erano pensate per risolvere i conflitti in un mondo bipolare e connesso. Le guerre mondiali finivano allo stesso momento per tutti. Quelle regionali (palestinese, afghana, somala, cecena, siriana) no.

Le percezioni di sicurezza allora si appoggiavano sui rapporti fra i due contendenti mondiali e dei singoli paesi schierati con loro. Sostiene Colombo che la disaggregazione diplomatica e strategica del sistema internazionale renda vana la cosiddetta guerra globale contro il terrore. La guerra contro il terrore non è la stessa cosa della guerra fredda. Gli attori sono difficili da individuare e l’islamismo radicale, spesso individuato come il nemico principale, non è globale. I diversi attori si sentono diversamente vincolati da eventuali accordi di pace. Le loro istituzioni non si assomigliano, né le loro posizioni nei confronti dei diritti umani. Fra regioni non si comunica. Manca un linguaggio cosmopolita in cui tradurre i linguaggi particolari.

Agli Usa rimane il ruolo di intermediario mondiale, in teoria capace di penetrare in qualsiasi regione, ma propenso a farlo principalmente per contrastare «la formazione di egemonie ostili nelle regioni che gli interessano». Dove non ha interessi propri tende a delegare l’intervento agli alleati minori, come succede oggi in Libia e in Iraq (Colombo 2010, p. 280).

La guerra e la popolazione civile.

Il caso dell’Iraq ci serve per mettere a fuoco alcuni legami fra guerra e migrazione nella regione mediorientale. Un grande numero di vittime civili, circa il 70% del totale, caratterizzò questa come ogni guerra dalla seconda guerra mondiale in poi. Il libro nero della guerra in Iraq, pubblicato da Reporters sans Frontières alla fine del 2004, raccoglie documenti delle organizzazioni non governative Amnesty International, Acnur, Human Rights Watch e Reporters sans Frontières (2004, trad. it. 2005).

Senza trascurare la brutalità del regime di Saddam Hussein, gli osservatori notano le violazioni dei diritti umani dei civili da parte delle forze irachene: il ricorso a scudi umani, l’uso inappropriato dei simboli della Croce Rossa e Mezzaluna rossa, l’impiego di mine antiuomo, il posizionamento di obiettivi militari in luoghi protetti (moschee, ospedali ecc.), la mancanza di protezione dei civili durante le operazioni militari, l’uso di abiti civili per confondere il nemico. Per la loro parte, le forze della coalizione dicono di aver tentato di rispettare i loro impegni legali verso i civili, ma ne hanno uccisi decine di migliaia attraverso l’uso di bombe a frammentazione che contengono milioni di ordigni e durante gli attacchi «mirati» a responsabili iracheni.

Lo sforzo di evitare bersagli civili veniva meno nel caso di centrali elettriche e di comunicazioni e strutture come scuole e ospedali sospettate di nascondere militari iracheni. Numerosi iracheni arrestati dalle forze di coalizione furono sottoposti a lunghe detenzioni, maltrattamenti e torture, e il nuovo governo iracheno ripristinò la pena di morte. Anche in Afghanistan ci sono tuttora centinaia di centri di detenzione «americani», sottratti alle regole del diritto internazionale. Sembra ovvio che ci siano malintesi fra occupanti e occupati sulla natura dei diritti umani, garantiti in modo discriminatorio agli uni e non agli altri11.

Dopo la guerra, alla destituzione del governo, dell’esercito e dell’intera pubblica amministrazione irachena, segui il dilagare di bande criminali che sequestravano persone e stupravano donne e bambini. I civili si trovavano senza scuole, servizi sanitari e sicurezza.

Secondo l’operatore umanitario Nabil Al Tikrit l’invasione e le politiche angloamericane dopo la guerra hanno distrutto i vicinati misti e creato un Iraq etnosettario12..

«In the wake of the 2003 Anglo American invasion, officials holding like views instituted policies which encouraged a gradual increase of social chaos and sectarianism that eventually culminated in the violent geographic consolidation of Iraq’s ethnosectarian mapping. This remapping has effectively created the Iraq that American policy makers imagined already existed in 2003 (Al Tikrit 2010, p. 287).

La fuga nella regione

La cosa sorprendente è che tante persone siano rimaste nelle città irachene. Tuttavia 5 milioni di iracheni su una popolazione di 27 milioni hanno dovuto lasciare il loro paese, come se 15 milioni di italiani andassero via in pochi anni. È successo in più fasi: prima è partita l’élite di regime, poi la classe media istruita destituita nel 2003, poi sono partite alcune minoranze e infine, dopo il 2006, in seguito al bombardamento, mai investigato, del sito sacro di Samarra, sono scoppiati conflitti sanguinosi fra sciiti e sunniti. Secondo Nabil Al-Tikrit, funzionario dell’ACNUR, nel 2009 c’erano 2 milioni di profughi domestici (IDPS): 750.000 nell’Iraq settentrionale, 1,25 milioni nel centro e sud Iraq, 1,4 milioni in Siria, mezzo milione in Giordania, 200.000 in Egitto, in Libano, e Turchia, e solo 40.000 fuori della regione, di cui 27.000 in Svezia e 15.000 negli Stati Uniti.

Questo modello di distribuzione dei profughi principalmente all’interno della regione è simile e si somma a quello seguito dai profughi di altri paesi della regione: ci sono quasi 4 milioni di Afghani fra Pakistan e Iran e quasi 4 milioni di profughi palestinesi fra Siria, Giordani e Libano, senza contare la riva occidentale e Gaza, oltre ai curdi sotto pressione in Siria, Iraq e Turchia e rifugiati in grandi numeri in Germania.

Cito queste cifre per mettere in evidenza l’aspetto soprattutto regionale dell’accoglienza dei profughi e anche le dinamiche non più globali dei conflitti. Dunque, fra i profughi dalla Siria che approdano in Europa, ci sono probabilmente molti iracheni e palestinesi, afghani e curdi, già una volta profughi e doppiamente vulnerabili, senza dove andare e vissuti spesso senza documenti nei paesi vicini. Come gli africani bloccati in Libia, non hanno più dove andare nella regione, mentre nei diversi paesi le fazioni lottano per l’ egemonia e un nuovo assetto di potere. Le richieste europee ai richiedenti asilo di produrre documenti comprovanti una condizione precisa di persecuzione suonano grottesche a chi fugge da mesi o forse anni.

Stato, diritti, autorità e territorio

Lo stato democratico dovrebbe avere molte funzioni che stiamo perdendo di vista. Lo stato democratico dovrebbe essere una fonte di diritti e di benessere civile oltre ad essere una fonte di autorità. Non esiste solo per proteggere i propri confini contro nemici e intrusi e scegliere quali stranieri e profughi ammettere e quali no. Le migrazioni transnazionali mettono in evidenza il dilemma al cuore delle democrazie liberali: fra la pretesa di autodeterminazione sovrana da una parte (al quale si richiama il nazionalismo diffuso e xenofobo di una parte della popolazione, che alcuni politici e i mass-media corteggiano e ingannano con un linguaggio catastrofico per averne i voti. La campagna per il Brexit ne è un esempio doloroso) e l’adesione ai principi dei diritti umani universali dall’altra.

La politologa Saskia Sassen scrive della «decostruzione del particolare assemblaggio di territorio, autorità e diritti che ha caratterizzato lo stato-nazione novecentesco»13. Ogni tipo di organizzazione politica combina e gestisce queste risorse in modo diverso, ma è evidente che oggi sono comparsi delle structural holes (buchi strutturali) nel rapporto dello stato con il suo territorio, un rapporto complesso e intriso di storia14.

Non sempre questo rapporto, nel passato, si è conformato al modello che vede un autorità politica unificata e dominante esercitare la sua giurisdizione su un territorio chiaramente demarcato. Per Hobsbawm questo rapporto era già intaccato fin dalla fine del Ottocento. Le ambizioni di «espansione illimitata» delle imprese economiche e quindi degli stati si manifestarono nella prima guerra mondiale 15.

Oggi, secondo Sassen, ci sono circa 400.000 ditte (le cosiddette multinazionali) che agiscono come se fossero globali, stipulando contratti con governi diversi, africani, asiatici, europei. ma aggirando gli obblighi che lo stato ha nei confronti della sua popolazione. Il tipo di transazione che permette a funzionari dello stato oppure leaders tradizionali di alienare risorse o larghi tratti di territorio nazionale ad agenzie straniere o private, senza il consenso della popolazione e mettendo a repentaglio la loro sussistenza e benessere, crea, secondo Sassen, un nuovo assemblaggio (di territorio, autorità e diritti).

Queste agenzie esterne godono di autorità su parti del territorio dello stato senza accollarsi obblighi nei confronti della sua popolazione, che in questo modo viene privata di diritti. Un altro esempio della creazione di aree fuori della giurisdizione dello stato è quello dei campi-profughi che si stanno moltiplicando all’interno o all’esterno del territorio di stati colpiti da guerre o catastrofi naturali. Agier scrivendo nel 2010 calcolava che ci fossero 60 milioni di sfollati e profughi nel mondo, sicuramente aumentati negli anni seguenti16.

I campi nei paesi colpiti sono posti velocemente sotto il «governo umanitario» di agenzie internazionali come quelle che fanno capo alle Nazioni Unite (12 organismi controllano il 90% delle risorse umanitarie che attraverso varie networks coordinano le azioni nei confronti dei profughi) e possono essere considerati spazi «extraterritoriali» nel senso che esulano dall’autorità e del regime di diritti degli stati in cui si trovano. Dall’altra parte possono diventare una parte integrale delle loro economie e sistemi politici, come ha dimostrato Luca Ciabarri per la Somalia del nord (Ciabarri 2010, pp. 127-160). La presenza di grandi numeri di migranti transnazionali, che vivono nel territorio di uno stato senza godere di diritti rappresenta anche questa un structural hole, dove il rapporto fra territorio autorità e diritti tipico dello stato-nazione democratico è venuto meno.

Conclusioni

Nel contesto delle migrazioni di massa, caratterizzato da frammentazione regionale e spostamenti tettonici del potere dobbiamo mettere a fuoco diversi fenomeni:

1) la formazione a catena, spesso attraverso guerre civili, di nuovi stati con confini impermeabili e popolazioni che si fingono omogenee;

2) la presenza di stati totalitari con élites corrotte e milizie allo sbando in Africa;

3) la disunità del mondo messa a fuoco da Colombo con la regionalizzazione dei conflitti e delle percezioni di sicurezza, la discontinuità e incomunicabilità fra le regioni, la mancanza di articolazione fra le istituzioni internazionali e le realtà regionali;

4) i structural holes comparsi nel rapporto dello Stato, anche in Europa, con il suo territorio e i diritti della sua popolazione. Un’analisi delle implicazioni di questi fattori può aiutarci ad avanzare qualche ipotesi sulla questione del rapporto multidimensionale fra violenza e migrazione.

Che fare? Leggendo un documento Eurocities su un progetto dell’Unione Europea per l’integrazione dei profughi nelle città, ho visto che l’unica cifra italiana che figurava era quella di Genova con 2000 profughi. Certo il governo italiano non può lamentarsi della mancanza di collaborazione dell’Europa se non fornisce, sembra, i dati necessari per un piano coordinato (Eurocities, March 2016, www.eurocities.eu).

È evidente che andare oltre l’emergenza richiede un piano complessivo che nessuno vuole proporre per paura di rendersi impopolare. La proposta della trasmissione Report presentata da Milena Gabanelli e accolta con interesse dall’Osservatorio sulla Migrazione della Caritasmigrantes era che l’Italia dovesse assumersi il ruolo di coordinatore europeo della «accoglienza e reinsediamento dei profughi, utilizzando fondi comunitari per ristrutturare allo scopo le molte caserme inutilizzate».


Riferimenti bibliografici

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*Relazione tenuta presso il Centro Studi Sereno Regis, 21 aprile 2016, ore 18.00.


NOTE

1Vedi Maher V. (a cura di), Dalle parole ai fatti, 2014

2La presenza di campi profughi può irritare le popolazioni vicine e dare luogo a nuovi e diversi conflitti, come nel Congo dopo i genocidi in Ruanda nel 1994 oppure in Thailandia dopo l’occupazione della Cambogia da parte delle truppe vietnamite nel 1978.

3 Prefazione a M. Nagler, 2014 Manuale Pratica della nonviolenza una guida all’azione concreta, Edizioni Gruppo Abele, p. 23

4 Vedi anche la carestia nordcoreana degli anni Novanta, mai riconosciuta fuori della zona.

5 Con altri spostamenti di polacchi e ucraini. Vedi Snyder T. in Buttino M., 2001, pp. 49-79; Benz.W in Buttino M., 2001, pp. 35-48

6 Bourdieu P., 1972: Sayad A., 2002

7 Anderson D., 2005; Kanogo T., 1987, 2005; Amselle J., 1995

8 Flores in La Rocca, S.( a cura) 2015

9Buttino,M.( a cura di) Colombo 2010, Chatty D. e Finlayson,B. (a cura di), 2010

10Alessandro Colombo, specie nel libro del 2010 intitolato La disunità del mondo dopo il secolo globale, Bologna Il Mulino

11 Reporters Sans Frontières, Il libro nero della guerra in Iraq, 2004, pp. 203-239

12Al-Tikrit,N., There go the Neighbourhoods: Policy Effects vis a vis. Iraq Forced Migration in Chatty e Finlayson (a cura di), 2010, pp. 249-272

13 Sassen, S., Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton 2006

14 La petizione di alcuni cittadini britannici per chiedere dopo il Brexit il rientry all’Unione Europea della sola città di Londra sembra conformarsi a questo schema.

15 Le «frontiere naturali» della Standard Oil, della Deutsche Bank o della De Beers Diamond Corporation erano i limiti estremi del globo, o piuttosto i limiti della loro capacità di espansione (Hobsbawm, 1987, p. 318)

16 Agier, M., Managing the Undesirables. Refugee Camps and Humanitarian Government, Polity Press, Cambridge 2011


 

3 commenti
  1. dora marucco
    dora marucco dice:

    Si tratta di un'analisi approfondita che, facendo tesoro delle metodologie scientifiche, ci induce a considerare i fatti che ci toccano da vicini come problemi complessi da studiare per essere compresi prima di essere giudicati.
    Grazie Vanessa

    Rispondi
  2. mashate said
    mashate said dice:

    buon giorno mia professoressa MAHER VANESSA, sono mashate said il signore marocchino degli anni 90 a palazzo nuovo di torini,sono molto lieto di sapere delle tuoi notizie, e sono contento di leggere di tuoi libri,
    sono nel ficebook: sotto :said mashate grazie.

    Rispondi

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