Superare la frammentazione, assumere responsabilità

Elena Camino

Superare la frammentazione

Mentre il mondo sta precipitando verso il caos economico, sociale e climatico, si moltiplicano gli sforzi di individui e collettività per arginare e contrastare le forme di violenza diretta ed esplosiva (guerre, guerriglie, attacchi terroristici) e le forme di violenza indiretta, strutturale e culturale, che ne sono la causa: il razzismo, gli squilibri economici e tecnologici, i furti di risorse naturali (la terra, le materie prime, l’acqua). Vi è anche una forma di violenza lenta, sottile, che si manifesta su scale spazio-temporali più lunghe: il saccheggio e l’avvelenamento della natura e delle comunità umane causati da attività tecno- industriali senza regole e senza scrupoli.

Ormai sono numerosissimi i gruppi, le associazioni, i movimenti che con coraggio e determinazione – e in modo nonviolento – cercano di contrastare queste forme di violenza: marce, boicottaggi, denunce, disobbedienze, proposte di legge… Eppure non si riesce ancora a conseguire quella trasformazione profonda (delle idee, degli atteggiamenti, delle azioni) in grado di rendere il nostro vivere più pacifico e sostenibile nel pianeta che ci ospita.

Leggendo testi e documenti di alcuni protagonisti delle lotte nonviolente che sono per noi un riferimento importante, troviamo una considerazione condivisa: c’è ancora troppa frammentarietà nella lotta. Sia Nanni Salio, ispiratore per molti decenni del Centro Studi Sereno Regis, sia due energiche ‘combattenti della nonviolenza’, Vandana Shiva e Naomi Klein, richiamano la nostra attenzione sulla necessità di riconoscere la comune origine delle varie forme di violenza, e sull’urgenza di costruire – mentalmente e praticamente – una nuova visione e un nuovo modo di vivere in questo bellissimo pianeta, che a causa di una piccola minoranza dell’umanità si sta trasformando sotto i nostri occhi, e va incontro a nuovi equilibri totalmente ignoti e – forse – a noi preclusi.

Riporto qui tre brani in cui l’autore e le autrici sottolineano l’importanza di superare la frammentazione e dar vita a un movimento nonviolento globale.

NANNI SALIO. Gandhi al suo tempo si impegnò per indirizzare le coscienze e le organizzazioni verso una cultura e un’economia di prevenzione delle guerre. Una prospettiva che diventa cruciale nel nuovo scenario dei conflitti, spesso condotti per accaparrarsi risorse scarse, e di fronte a un’idea di sicurezza che diventa pervasiva, investendo sia l’ordine interno ai singoli Paesi sia l’ordine internazionale, sacrificando diritti, libertà, democrazia. La terza guerra mondiale è in fondo una guerra ai viventi -umani, animali e piante-, una guerra totale al pianeta. È il punto che sta a cuore a Nanni Salio, presidente del Centro studi “Sereno Regis” (serenoregis.org) di Torino: “Io non credo che al momento esista un vero movimento per la pace. Esistono molte lodevoli iniziative ma restano frammentate. Manca una struttura organizzativa e logistica adeguata all’impegno che dobbiamo affrontare”. Salio rimarca un grave difetto nella linea d’azione del movimento. “Non esistono al momento campagne importanti di disobbedienza civile e senza queste non potremo avere risultati. Oggi avremmo bisogno di azioni dirette, sullo stile di Turi Vaccaro, e di campagne in grado di fare pressione sulle istituzioni e spingerle a reagire sul terreno della repressione. Solo così potrà nascere un movimento forte, visibile, in grado di vincere”. Per Nanni Salio la nonviolenza attiva dev’essere il cuore della strategia: “In Italia abbiamo avuto la fase dell’obiezione di coscienza al servizio e alle spese militari, ora dovremmo pensare nuove azioni, come a suo tempo si fece a Comiso e in modo limitato e discontinuo al Dal Molin di Vicenza. Dobbiamo formare i giovani, abbiamo bisogno di persone disposte ad agire e a farsi arrestare quando necessario, meglio se di età avanzata, perché sono più rispettate. Io credo che in Italia queste persone ci siano, quello che manca è il contesto”.

[Tratto da Una pace ostinata, di Lorenzo Guadagnucci (Altreconomia 22 maggio 2015)

http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5074&fromRivDet=173]

VANDANA SHIVA. Ripensando a quel tempo [si riferisce agli anni ’70 del secolo scorso], avevamo avversari potenti, ma niente in confronto ad oggi, perché erano poteri di dimensioni nazionali. Non avevamo una economia globalizzata. C’era brutalità, naturalmente, la gente veniva arrestata, ma alla fine non c’è stato alcun movimento, fino al 1995, che non abbia avuto successo. La democrazia era fragile, e favoriva i potenti, ma si poteva lottare, si potevano fare processi. La differenza tra allora e oggi è che adesso essere un attivista ambientalista vuol dire appartenere a una delle comunità più esposte : non solo a livello nazionale ma a livello globale.

Finora le nostre risposte sono state frammentarie: come cittadini non siamo stati capaci di esprimere il potere che di fatto abbiamo. Se si mettono insieme le persone che difendono le api, quelle impegnate per i diritti animali, quelle che lottano per le terre, o per il diritto al cibo, ci rendiamo conto che le loro lotte non erano integrate tra loro.

Occorre liberarsi dalla colonizzazione della mente, che ci fa sembrare così tante distruzioni come inevitabili. Una volta che ci siamo liberati da questo condizionamento, possiamo cominciare a definire le cose in modo diverso, e ciò che sembrava impossibile secondo il vecchio paradigma diventa facilissimo nella visione nuova.

[Vandana Shiva: Istanbul, gennaio 2016. In occasione di una lezione che è stata invitata a tenere sui diritti umani in memoria di Hrant Dink (un giornalista Turco-Armeno assassinato nel 2007), è stata intervistata da Ethemcan Turhan, ricercatore inserito in un programma Mercator and Istanbul Policy Center presso l’Università di Sabanc, in Turchia. Qui l’intervista completa].

NAOMI KLEIN. La lezione più importante da imparare è che non c’è modo di affrontare la crisi climatica se la si considera solo un problema tecnologico isolato. La crisi deve essere vista nel contesto di austerità e privatizzazione, di colonialismo e militarismo, e dei vari sistemi di ‘esclusione’1 che ne sono alla base. Le connessioni e intersezioni tra questi aspetti sono evidenti, eppure così spesso la resistenza si esprime a compartimenti. La gente che si oppone all’austerità raramente fa cenno al cambiamento climatico; i gruppi che cercano di contrastare il cambiamento climatico non parlano di guerra o di occupazione. Di rado facciamo dei collegamenti tra i fucili che tolgono la vita ai neri nelle strade e nelle stazioni di polizia delle città degli S.U. e le forze, ben più potenti, che distruggono così tante vite nere su terre inaridite o su barconi precari in giro nel mondo.

Superare queste disconnessioni – rafforzare i fili che tengono insieme le nostre diverse sfide e movimenti – questo, a mio parere, è il compito più urgente per tutti coloro che sono impegnati nella ricerca della giustizia sociale ed economica. Questo è l’unico modo per dar vita a un contro-potere abbastanza robusto da vincere contro le forze che proteggono lo status quo – vantaggiosissimo per alcuni ma sempre più insostenibile. Il cambiamento climatico agisce come un processo acceleratore in molti dei nostri mali sociali – le disuguaglianze, le guerre, il razzismo – ma potrebbe anche favorire il moltiplicarsi delle forze opposte, che lavorano per la giustizia economica e sociale e contro la guerra. In effetti la crisi climatica – che costituisce per la nostra specie una minaccia mortale e una scadenza ormai chiaramente individuata dalla scienza –

Potrebbe diventare l’elemento catalizzatore di cui abbiamo bisogno per intrecciare insieme molti e potenti movimenti, legati insieme dalla convinzione che tutte le persone e i popoli abbiano valore intrinseco, e unite nel rifiuto di una mentalità che accetta l’idea che ci siano persone o luoghi che possano essere ‘sacrificati’. Dobbiamo far fronte a così tante crisi, tutte interconnesse, che non ce la possiamo fare a contrastarle singolarmente. Abbiamo bisogno di soluzioni integrate, soluzioni in grado di abbattere drasticamente le emissioni [di gas a effetto serra, ndt]; al tempo stesso di creare numerosi posti di lavoro buoni, sindacalmente protetti, e di praticare forme di giustizia significative nei confronti di coloro che sono stati maggiormente sfruttati ed esclusi dall’attuale economia estrattiva.

[Tratto da Let Them Drown. The Violence of Othering in a Warming World, di Naomi Klein http://www.lrb.co.uk/v38/n11/naomi-klein/let-them-drown].

Assumere responsabilità

Nelle grandi manifestazioni pacifiste del secolo scorso – contro le guerre, contro gli armamenti nucleari, contro il razzismo – ci sono state innumerevoli testimonianze di coraggio: tantissime persone sono state picchiate, sono state messe in carcere, molte hanno perso la vita. Ma per molte decine di anni una profonda differenza distingueva le proteste delle comunità contadine, dei pescatori, delle popolazioni indigene del Sud del mondo (che per lo più non richiamavano l’attenzione dei media) rispetto alle proteste espresse dalle società civili del mondo occidentale urbanizzato. Le prime lottavano per difendere le proprie fonti di sussistenza: le terre, le foreste, le fonti d’acqua, la pescosità delle coste. Le seconde erano animate da ideali di giustizia e di pace, ma i loro ‘ecosistemi’ non erano direttamente minacciati… anzi: fu lenta a emergere la consapevolezza che gli stili di vita del ‘primo mondo’ rappresentavano una componente nascosta della violenza esercitata contro molte comunità del ‘terzo mondo’. Gli abiti, il cibo, i mezzi di trasporto veloci, la tecnologia che hanno caratterizzato la nostra ‘modernità’ sono stati elementi determinanti nell’alimentare il saccheggio delle risorse e il degrado dei sistemi naturali a livello globale .

Ora che è dimostrata e in buona misura quantificata la responsabilità dei ‘consumatori’ nel favorire situazioni di conflitti violenti e di ingiustizia ambientale, i movimenti, le associazioni e i gruppi che si impegnano per la pace potrebbero estendere il proprio campo d’azione e introdurre nuove strategie di lotta nonviolenta, che riguardano le scelte personali e collettive della vita di tutti i giorni. L’efficacia delle proteste per la difesa dei beni comuni, per il trasporto pubblico, per la protezione degli animali, e delle manifestazioni di piazza per sollecitare i governi a intraprendere iniziative efficaci contro gli armamenti, sarebbe molto maggiore se fosse accompagnata da azioni concrete che i cittadini – da soli o collettivamente – possono compiere a sostegno delle cause per le quali manifestano.

Due esempi: un graduale orientamento verso la dieta vegetariana contribuisce a ridurre il numero di animali da allevamento, che spesso vivono in condizioni di grande sofferenza; l’impegno di genitori e insegnanti nel chiedere al sistema scolastico maggiore spazio e attenzione alla teoria e alla pratica della trasformazione nonviolenta dei conflitti tra i giovani potrebbe mettere finalmente in discussione la retorica della difesa armata della patria.

Un caso apparentemente ‘trascurabile’: l’uso della plastica

Ci sono iniziative personali che richiedono forte volontà e spirito di sacrificio, come diventare vegetariani, o rinunciare all’uso dell’auto: anche perché le istituzioni e la pubblica amministrazione sono poco collaborative, con servizi di trasporto pubblico spesso carenti e con poche scelte vegetariane nelle mense scolastiche e nelle istituzioni sanitarie (per non parlare degli esercenti privati di ristoranti e bar!). E’ comprensibile dunque che siano ancora pochi i cittadini che compiono queste scelte.

Ma ci sono iniziative che non richiederebbero sacrifici personali: solo un po’ di attenzione. Per esempio evitare l’uso della plastica. E’ chiaro che se milioni di persone decidessero di non comprare più bottigliette di acqua nelle confezioni in plastica, cibo avvolto in vaschette di plastica, bicchieri e piatti di plastica, prodotti per la casa e per la cura personale (detersivi, shampoo, creme) in contenitori di plastica… le ditte produttrici sarebbero costrette a modificare la loro catena produttiva.

E’ una scelta possibile, che richiede solo un po’ di organizzazione: la borraccia con acqua ‘pubblica’; gli acquisti ai mercati o nei negozi che distribuiscono prodotti alla spina; l’abbandono dei distributori automatici di cibi e bevande pre-confezionati; la scelta di materiali naturali per gli abiti e i giocattoli, …

Ma perché prendersela proprio con la plastica? Ci sono ormai tantissime varietà di plastiche, che si distinguono per le loro caratteristiche fisico-chimiche, per la duttilità, per la resistenza allo sforzo e/o al calore. La maggior parte viene prodotta a partire da sostanze derivate dai combustibili fossili, e alcuni studi2 segnalano che se si sostituissero i prodotti in plastica con altri materiali, ci sarebbe un peggioramento della prestazione energetica e un aumento della produzione di gas serra. Però… questi studi non tengono conto di un fatto importante: molta, moltissima plastica non viene riciclata, e rimane nell’ambiente per centinaia o migliaia di anni. Ed è principalmente la plastica di cui facciamo uso quotidianamente: dai sacchetti ai giocattoli ai contenitori ‘a perdere’.

Circa l’80% dei rifiuti macroscopici in mare aperto e sulle coste è costituito da rifiuti di plastica. Questi macro-rifiuti galleggianti (46.000 pezzi di plastica galleggianti in ogni miglio quadrato di oceano!) formano vere e proprie “isole di plastica” responsabili, in primo luogo, di una vera ecatombe di uccelli, rettili e mammiferi marini. Secondo i dati del WWF sono oltre 267 le specie marine che presentano nei loro stomaci rifiuti di plastica. Nei nostri oceani sono già presenti, e ben visibili, 5 vaste isole di rifiuti di plastica che galleggiano o fluttuano entro pochi metri dalla superficie3.

Gli oggetti di plastica a poco a poco si frammentano in pezzi sempre più piccoli: alcuni – di millimetri – ancora visibili a occhio nudo, mentre altri vanno ad aumentare la percentuale di ‘nanoparticelle’ con cui stiamo letteralmente invadendo il nostro pianeta. Tutti i mari, gli oceani, i fiumi della Terra contengono ormai una enorme quantità di particelle invisibili di materiali plastici, che entrano direttamente – o attraverso le catene alimentari – un po’ dappertutto: li troviamo nel sale marino che usiamo in cucina, nei pesci, molluschi e crostacei di cui ci cibiamo.

Le microplastiche infatti impattano pesantemente sul plancton e quindi, a cascata, sugli organismi marini che di esso si nutrono. In particolare, oltre ai piccoli organismi filtratori, anche i grandi cetacei sono minacciati da questi micro-inquinanti. La balenottera comune, uno dei più grandi filtratori al mondo di acqua marina, specie a rischio di estinzione, è risultata contaminata in modo preoccupante dagli “ftalati”, i derivati più nocivi della plastica che hanno la capacità di interferire sulle capacità riproduttive.

Uno studio del 2015 ha evidenziato che nel Mar Mediterraneo (che ha pochi scambi con l’oceano) la densità di rifiuti in plastica (di tutte le dimensioni) è pari a quelle delle ‘isole’ negli oceani4. Gli Autori di questa ricerca fanno notare che “Data la ricchezza biologica e la concentrazione di attività economiche nel Mar Mediterraneo, è prevedibile che siano particolarmente frequenti gli effetti dell’inquinamento da plastica sulla vita marina e sulla vita umana in quest’area”.

La presenza di micro-particelle di plastica è ormai nota da tempo, ma finora sono stati eseguiti pochi studi sistematici sugli effetti di questa presenza ‘artificiale’ nella vita dei viventi, in primo luogo gli abitanti delle acque dolci e salate. Dati recenti5 hanno messo in luce impatti negativi rilevanti in molte specie: difficoltà nella riproduzione, ridotte capacità di sopravvivenza, cambiamento delle relazioni tra prede e predatori: tutti elementi che possono portare a gravi conseguenze per intere comunità eco-sistemiche. Questo significa anche che le comunità di pescatori che vivono lungo le coste del Mediterraneo (e in generale dei mari e dei fiumi di tutto il mondo) e che dalla pesca traggono di che vivere si trovano sempre più in difficoltà. Per loro la nostra ‘modernità’ è causa di impoverimento, come le siccità e le alluvioni prodotte – specialmente nel Sud del mondo – dall’instabilità atmosferica conseguente all’aumento di temperatura dell’aria, o come le morìe di intere catene alimentari marine uccise dall’acidificazione6 delle acque causata dalla CO2.

Allora, quando andiamo alla prossima manifestazione contro l’inquinamento da gas serra, o contro gli armamenti, o in difesa degli animali, ricordiamoci di portare con noi la borraccia piena d’acqua ‘pubblica’, prendiamo il biglietto del tram, e qualche panino senza prosciutto. E speriamo di essere in tanti, granellini di sabbia negli ingranaggi delle ‘macchine’ contro le quali manifestiamo…


NOTE

1 L’Autrice usa la parola ‘othering’: considerare gli altri diversi, per discriminarli, svalutarli, sottometterli…

2 Per es. L’impatto delle materie plastiche sul consumo energetico e sulle emissioni di gas serra lungo il loro ciclo di vita in Europa Relazione sintetica Giugno 2010 (http://www.google.it/search?q=produzione+delle+plastiche+ed+emissione+di+gas+serra&ie=utf-8&oe=utf-8&client=firefox-b&gfe_rd=cr&ei=xyBkV565JYrA8gf_wJT4DQ).

4 Cózar A, Sanz-Martín M, Martí E, González-Gordillo JI, Ubeda B, Gálvez JÁ, et al. (2015) Plastic Accumulation in the Mediterranean Sea. PLoS ONE 10(4): e0121762. doi:10.1371/ journal.pone.0121762

5 Chelsea M. Rochman. Ecologically relevant data are policy-relevant data. Science 352 (6290), 1172. (June 2, 2016)

6 Wiebina Heesterman Ocean acidification: a threat to life http://www.sgr.org.uk/resources/ocean-acidification-threat-life


 

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