Il Giappone del momento – e gli USA

Johan Galtung

Salvo che per un’ombra cupa, tutto è normale nel Giappone del momento.

I livelli locali funzionano benissimo con la diligente collaborazione giapponese per elevarne le condizioni. Salvo per quelle istituzioni territoriali con centrali nucleari, particolarmente una di esse, sulla costa, colpita da uno tsunami. Salvo anche per le comunità rurali devastate, con gente che invecchia, che se ne va, i villaggi vuoti, colpiti dal dover importare il riso anziché coltivarlo.

Viaggiando in treno, girando a piedi le strade con i giapponesi, tutto vivace e indaffarato come sempre; un po’ più vecchi, più bastoni da passeggio, meno biciclette, più automobili, strade migliori negli abitati e fuori, traffico più veloce. Inoltre, un po’ più d’adipe in vista, aspetto condiviso, come l’aumento dell’età media, con le varie società sviluppate.

Quelle che mancano sono le anziane signore in bici che navigano con eleganza per le stradine strette, schivando i pedoni per uno o due centimetri – in Giappone si va in bici sui marciapiedi, non per strada – a testa alta, imperturbate.

Non mancano invece le graziose scolaresche che seguono l’insegnante con bandiera – le bimbette incantevoli come o forse più che ovunque al mondo. A giudicare dai loro visetti il futuro si presenta luminoso.

Tokyo s’è modernizzata quasi all’estremo. Da aggregato informe di villaggi con case sparse di ogni foggia e colore a megalopoli di grattacieli. Del tutto priva di ogni fascino, ma ultramoderna. Pregano tutti che resista a un terremoto o due. Se n’è giusto percepito uno lieve stanotte, tanto per avvisare che “ci siamo ancora”.

I ristoranti sono al completo, il cibo delizioso come sempre. Inoltre un fenomeno più recente: tavoli per sole donne, o in saletta riservata per la serata, a scherzare, ridere, auto-assertive/sicure di sé, senza accompagnatori maschi. Prossimamente, tavoli per soli bambini, senza genitori?

L’antico Giappone si manifesta nei templi, nei santuari, nei giardini, splendidi e spirituali come sempre; è tutto lì, per la nostra delizia. Ma offuscato dal rapporto con gli USA, sapendosi occupati da 70 anni, una colonia, gestita nei minimi particolari e spiata.

L’autore e politico di grido, governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, causò un’ampia emozione nel 1989 con il suo libro, The Japan That Can Say No (Il Giappone che sa dire No). Ma ben pochi dicono di no. Non dicono neppure sì, preferiscono forse non sapere. O soffrire nel profondo per un servilismo che un giorno può scoppiare di rabbia in una rivolta violenta. Come mai?

Un’interpretazione: la guerra USA-Giappone da Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 al Documento di Resa del 2 settembre 1945 terminò con una disfatta non solo militare ma spirituale. A partire dalla Restaurazione della dinastia Meiji, il Giappone aveva costruito uno shintoismo di stato usando modelli cristiani occidentali con una divinità, la Dea Sole, che conferiva la divinità alla propria discendenza, gli imperatori. Essa però fu sconfitta da un rex gratia dei occidentale – imperatori, presidenti, parlamentari per grazia di Dio. Sconfitta da F.D.Roosevelt-Truman per grazia di un dio statunitense dimostratosi più forte che Amaterasu-o-mikami; un dio residente a Washington DC, USA. Teoria che spiega non solo la sottomissione, ma anche l’intenso desiderio di apprendere e interiorizzare quanto più di americano; per essere una sola cosa con quelle forze superiori e vittoriose.

Un’altra interpretazione è più geo-politica, realista. Coglierebbe come essenziale la decisione maturata negli USA / in Roosevelt ben prima di Pearl Harbor di sconfiggere il Giappone, avendolo notato imporsi alla dinastia Ching nel 1894-1905, e alla Russia nel 1904-05, con la susseguente crescita economica ed espansione territoriale; ben altro che una mera “apertura” del Giappone agli scambi commerciali con gli USA da parte di un tal Perry [Matthew C]. Questa è storia di provocazioni, preparativi di guerra e, ancor più importante, d’occupazione del Giappone, che indica come alcuni fossero al corrente e altri no – come il comandante della flotta di stanza a Pearl Harbor sacrificato con una flotta la cui nave più recente aveva 27 anni e priva di portaerei – per dimostrare al mondo che il Giappone aveva attaccato.

Le due teorie non si escludono a vicenda; in effetti, si sostengono. A livello della geopolitica, il Giappone cadde nella trappola ben predisposta, venendo non solo sconfitto bensì genocidato; a livello spirituale il Giappone subì una conversione che rese accettabile la sconfitta; anzi, magari perfino desiderabile. Se gli USA sono davvero come credono molti [nord]americani, un popolo eletto direttamente alle dipendenze di Dio, superiori al Giappone come dimostrato dal contesto bellico, da come maturò quella guerra, a tale potere consegue sottomissione, addirittura servilismo. Inoltre, se gli USA sono minacciati dalle forze di Satana – come appunto pare ora – diventa non solo un dovere ma anche un onore essere vocati a condividere gli oneri della “auto-difesa collettiva” spalla a spalla, per il mondo.

Gli USA sono diventati un Patrocinatore, un Signore, il Giappone un vassallo dipendente.

Come tale, gli USA hanno non solo il diritto ma il dovere d’imporsi al Giappone, interferenze minute e spionaggio compresi. Così facendo al Giappone, in sé una potenza non piccola sotto alcun rispetto, gli USA confermano il loro status divino – quello che i [nord]americani chiamano “eccezionalismo” – e la prossimità del Giappone alle Forze Superiori. Come l’arcangelo Gabriele, esecutore del volere del Padre – o come il Figlio chiamato a “giudicare i vivi e i morti”? Sta sotto, sì, ma star sotto le Forze Superiori non vuol dire stare in basso.

Ridurre gli USA a uno stato avido di potere riduce il Giappone non solo a uno scarto sconfitto in questo mondo, bensì a un Giappone così stupido da essere cascato nella trappola di Pearl Harbor e per giunta da farsi abbindolare da una colonizzazione di fatto accettandola. Ci saranno veementi dinieghi dalla direzione dei ministeri principali (finanze-esteri-difesa), latori essi stessi delle esigenze USA nei confronti del Giappone e veicolo della loro realizzazione. Una dura battaglia che dovrà arrivare.

Comunque, la demistificazione dei rapporti USA-Giappone è destinata ad arrivare. Ma solo dalla fonte accettabile al “Giappone che dice Sì” (sì-sì-sì-sì): dagli USA stessi. Da USA che perdono una guerra dopo l’altra da quella di Corea del 1953, USA affaticati dalla guerra, checché ne sia la ragione. A un Giappone molto preoccupato per Trump non solo per il [ventilato] ritiro delle truppe dal Giappone lasciandogli l’onere della propria auto-difesa, ma per il [loro] divenire Grande da soli, senza conferire ad altri grandezza indiretta. Rendendolo un Giappone ordinario.

Vedremo. Probabilmente ben presto. E si spera in modo nonviolento.

Giappone del momento


Nº 432 | Johan Galtung, 13 giugno 2016
Titolo originale: Japan Right Now–And the USA

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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