Per le strade del Cairo | Maria Antonietta Malleo

 


I martiri del massacro di Port Said a Mohamed Mahmoud street. Foto © Maria Antonietta Malleo.

Il paesaggio visuale del Cairo ancora oggi permette di leggere le dinamiche e le istanze della protesta che nel febbraio 2011 hanno portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak e il ruolo che l’arte, attraverso la trasformazione dello spazio pubblico, ha avuto sia nella fase della rivolta che in quella di democratizzazione. “Penso che il risultato creativo di questa rivoluzione ancora in corso sia parte integrante della sua continuazione e della direzione che è destinata a prendere”1, ha dichiarato l’artista Mohamed Fahmy noto come Ganzeer, esprimendo la consapevolezza di un’arte non solo determinante ma intrinseca al processo rivoluzionario. Da subito le pratiche artistiche (con il canto e le danze, il rap, la pittura, la poesia, le vignette)2 hanno costituito il cuore della resistenza di piazza Tahrir e hanno contribuito a creare e a diffondere un immaginario che ha alimentato lo spirito della rivoluzione, in una lotta che ha contrapposto alla forza della repressione la creatività della nonviolenza. Così quando l’architetto e grafico Shady Youssef celebrava nella piazza il crollo del regime disegnando l’immagine del re caduto degli scacchi, poi replicata per le strade dal graffitista El Teneen, affermava la vittoria dell’insurrezione giovanile attraverso la metafora sovversiva del gioco e della dimensione estetica utilizzata dai dadaisti. La stessa che ritroviamo nei segnali stradali capovolti e decostruttivi di Nazeer che portano alla strada della “liberazione” – traduzione italiana di Tahrir – o ancora nelle garitte “occupate” e snaturate dai graffiti antimilitaristi, tracce delle esperienze di anarchia estetica e libertaria elaborate dalla piazza.

Il carroarmato di Ganzeer nel quartiere di Zamelek. Foto © Maria Antonietta Malleo

Dove, racconta ancora Youssef, i giovani urbanisti dimostranti, anziché proporre interventi di pianificazione e di coordinamento spaziale, preferivano osservare la spontanea organizzazione di ciò che Beuys chiamerebbe una scultura sociale, che si andava costituendo come un laboratorio di consapevolezze condivise di partecipazione, nonviolenza, diritti umani e delle donne, convivenza interreligiosa, determinanti per la costruzione di nuove identità democratiche. Una sperimentazione ancora visivamente leggibile in uno straordinario paesaggio urbano rivoluzionario che spiazza le aspettative e gli stereotipi dello sguardo occidentale e riafferma il legame tra arte e nonviolenza: dagli stencil nei quali si fronteggiano il fucile (“loro”) e la videocamera (“noi”), o il dito di chi argomenta e la pistola sulla scritta “pacificamente” che scandisce l’ingresso di una delle moschee dell’Università del Cairo, al carro armato a dimensioni reali di Ganzeer, puntato contro il giovane ciclista che trasporta il pane, chiamato in arabo “vita” e simbolo di identità nazionale. Un’iconografia della sproporzione tra viltà degli uomini armati e coraggio degli inermi, che, da Goya a Picasso passando per Manet, attraversa la “storia dell’arte come storia dell’agire nonviolento”, secondo una bella definizione di Argan3. E ancora al ciclo del graffitista Anwar sul Battaglione di Monna Lisa (che colpisce i volti grotteschi e cangianti del regime che fioriscono come piante infestanti) e può essere considerato un’allegoria della pittura come arma nonviolenta.

Uno stencil di Dokko (spray). Foto © Maria Antonietta Malleo.

In questa battaglia per la libertà, dallo spazio aperto del web a quello reale delle strade e delle piazze, le nuove tecnologie hanno permesso la diffusione massiva non solo delle prassi dell’azione nonviolenta (come il manuale Dalla dittatura alla democrazia di Gene Sharp4) ma anche dei contenuti e delle tecniche del graffitismo (come lo stencil booklet dello stesso Ganzeer5 con “disegni… ready made che ognuno può stampare, incollare su cartoncino, tagliare ed usare” che sembra una versione 2.0 dei procedimenti warholiani di riproducibilità e creazione seriale e collettiva). E attivisti e artisti, sin dai primi giorni delle proteste di massa avevano fatto circolare una guida visiva alle modalità, alle strategie e agli “obiettivi della disobbedienza civile”6. Dove è sintomatico che l’abbigliamento dei dimostranti, oltre alla bomboletta spray da spruzzare sui parabrezza, sulle videocamere di sorveglianza dei mezzi militari e sugli elmetti dei poliziotti (per impedire loro di“vedere”), includeva le rose, un riferimento alla precedente rivoluzione nonviolenta tunisina ma anche al celebre graffito di Banksy con il giovane antagonista che lancia un mazzo di fiori.

Graffiti di Keizer. Foto © Maria Antonietta Malleo.

L’analisi dei contenuti dei graffiti del Cairo mostra la loro specificità – in termini sociali, politici e culturali – all’interno del più generale antagonismo della Street Art come movimento globale. Così in uno spirito identitario nazionalista gli eventi contemporanei si intrecciano con la memoria delle lotte indipendentiste e rivoluzionarie del paese e con l’immaginario della cultura di massa, in una ibridazione di generi e citazioni che va dagli slogan degli ultras a quelli della resistenza palestinese (Respect Existence or Expect Resistance a firma Keizer), alla maschera di Guy Fawkes del film V for Vendetta divenuta il simbolo globale delle proteste del 20117, al pensiero di Camus, al fumetto e all’adbusting (dal Nescafé al NoSCAF, No Supreme Council of Armed Forces), all’interpretazione delle iconografie faraoniche e dei geroglifici, con messaggi diretti e facili da ricordare nella sintesi di visuale e verbale tipica del graffitismo. Come racconta la blogger Soraya Morayef (Suzee) “la Street Art continua ad ispirare e a motivare gli egiziani… non solo per le idee e i messaggi degli artisti ma per la resilienza e la determinazione che essi mostrano continuando a illuminare, a protestare e ad educare il passante con la propria arte”8. E le modalità dei giovani graffitisti sono talmente entrate nella vita politica egiziana da essere state utilizzate nell’ultima campagna elettorale non solo con finalità di contestazione ma come integrazione dei tradizionali metodi di comunicazione dei candidati.

Pitture tromp l’oeil su uno dei muri eretti dai militari per impedire nuove proteste a piazza Tahrir. Foto © Maria Antonietta Malleo.

Lo sviluppo delle prassi artistiche nel contesto della rivoluzione, con l’occupazione fisica e non solo visiva della città, ha dunque determinato una riappropriazione della visualità e dell’immaginario collettivo e, con la democratizzazione dello spazio pubblico tramite meccanismi creativi antagonisti a quelli e del sistema artistico e del “consumo culturale” di matrice capitalistica, anche un’idea di democratizzazione dell’arte, secondo quanto dichiarato da Ganzeer: “Le strade sono di tutti. Le gallerie sono per una nicchia che va alla ricerca dell’arte. È sbagliatissimo che le strade siano così aperte agli effetti del lavaggio del cervello di pubblicitari a guida capitalistica e così chiuse ad un’arte onesta che è stata intrappolata nei confini di gallerie dal falso costrutto. Le gallerie devono esistere ma non dovrebbero essere l’unico modo per fare esperienza dell’arte”10. E ancora: “Adesso la gente partecipa e ha cura del proprio destino. Non so se durerà, ma dopo la rivoluzione c’è stata una svolta culturale nel modo in cui la gente si rapporta con le strade”.
La battaglia estetica per le vie del Cairo – quasi una continuazione di quella di piazza Tahrir – sembra essersi sviluppata con una semantica del mostrare e coprire, dello svelare e nascondere: labbra cancellate (dove il diritto di parola negato è restituito dal linguaggio dello sguardo) o imbavagliate (come nella pubblicità della Freedom Mask prodotta dalla giunta militare allora al potere in un ironico manifesto di Ganzeer che ne determinò l’arresto nel maggio 2011); sguardi imprigionati dietro le sbarre, o di vigilanza democratica delle videocamere degli attivisti; o, in una assimilazione configurativa di occhio, tv e oblò della lavatrice, sguardi anestetizzanti e propagandistici dei media controllati dal potere. E ancora, occhi degli ottocento giovani di piazza Tahrir accecati dalla polizia durante le dimostrazioni (ai quali si riferiscono gli stencil con il Wanted di uno dei responsabili, processato e poi rilasciato, che ricordano Warhol non solo per la sua serie sul tema dei ricercati ma soprattutto per lo sdoppiamento reiterativo dell’immagine), gap come dettagli inquietanti che affiorano da un livello altro di spazialità, quello del rimosso della memoria, e volti del potere a loro volta accecati nei manifesti in una sorta di contrappasso simbolico che denuncia anche un altro tipo di cecità. Questa partita del mostrare e nascondere si gioca anche su e attorno al corpo della donna: un tema presente nella drammatica vicenda, resa nota da YouTube ed evocata dai molti stencil del reggiseno blu, di Alia El Mahdy, la ragazza di piazza Tahrir (nota come “la rivoluzionaria nuda” o “blue bra girl”) brutalmente picchiata, trascinata dalle forze dell’ordine e scoperta dell’hijab (il velo culturalmente simbolo di modestia e di moralità), per essere umiliata pubblicamente nella sua dignità e decenza, e poi ricoperta da un altro poliziotto in un gesto di pudore. Un livello di violenza anche sessista, ricordato pure dagli stencil che raffigurano Samira Ibrahim circondata da un esercito che ha il volto del medico (da lei denunciato e rimasto impunito) che le effettuò il test di verginità, praticato sulle dimostranti come forma intimidatoria e di ritorsione sociale9.

Le vittime della repressione della rivoluzione del 25 gennaio. Foto © Maria Antonietta Malleo.

Ma è il tema dei martiri, come vengono chiamate nella cultura profondamente religiosa del paese le vittime della repressione, a dominare: il volto del 27enne Khaled Said, la cui brutale uccisione ha determinato le proteste culminate nel 25 gennaio 2011, appare per le strade del Cairo con un’evanescenza fantasmatica e surreale. Assieme alle immagini dell’artista Ahmed Basiony, morto mentre filmava le dimostrazioni (un lavoro postumo che ha rappresentato l’Egitto all’ultima Biennale di Venezia) o di Alaa Abd El-Fattah e dello sheikh Effat uccisi a piazza Tahrir e che, associati a quella dell’attivista Mina Daniels, vittima del massacro dei cristiani dell’ottobre 2011, sono divenuti i simboli della rivoluzione e dell’unità religiosa in Egitto. “I volti dei martiri e degli attivisti incarcerati continuano a proliferare sui muri – racconta Morayef – …come memoria visiva e stimolo emotivo della nostra recente, spesso traumatica storia… Per me si tratta di arte e storia nel suo farsi ed è stata la prima volta che ho visto un graffito come forma d’arte per riflettere la realtà e registrare la storia in tempo reale”11.

Uno stencil su uno dei muri eretti per impedire nuove proteste a piazza Tahrir. Foto © Maria Antonietta Malleo.

La verità delle immagini che ricordano l’impunità dei responsabili delle repressioni e dei massacri, gli arresti ingiustificati e le violazioni dei diritti (dallo scoppio della rivoluzione ci sono stati oltre 12.000 giovani arrestati e condannati da tribunali speciali), in un uso dello spazio pubblico che diviene esercizio di memoria, demistificazione e svelamento, ha determinato la censura dei murales da parte delle autorità militari. Spingendo gli artisti a rispondere nel 2011 con l’organizzazione di un Mad Graffiti Weekend (pubblicizzato dall’immagine dello spray contro il fucile), una realizzazione collettiva di stencil aperta a calligrafi, fotografi, videomaker, blogger, giornalisti, scrittori, pubblicitari, writer12, seguita nell’anniversario della rivoluzione da una settimana di mobilitazione a Mohamed Mahmoud street che fu sede cruenta di scontri. Strategicamente significativa per la sua vicinanza a piazza Tahrir, la via ancor oggi è al centro di un conflitto tra la volontà degli artisti di “far vedere” per non dimenticare e l’iconoclastia del potere che intende sottrarre allo sguardo il ricordo degli eventi, in un’opposizione sempre antica e sempre nuova che riporta al ruolo della memoria nelle lotte per la verità e la giustizia dell’America Latina e alle dinamiche della storia e dell’arte, tra oblio e memoria e tra memoria e immaginazione13. Con murales a più mani e in divenire, coperti, ridipinti e da poco nuovamente cancellati, la strada si è trasformata nel luogo della satira politica, con le raffigurazioni sarcastiche del serpente con le teste dei generali, del burattinaio e dei burattini (i militari e i politici), cancellati poco prima delle elezioni ma ridipinti con i volti dei candidati alle presidenziali; della testa metà Mubarak metà Tantawi (comandante della giunta), coperta ma rimpiazzata dall’immagine di un artista che combatte con pennello… Ma con le sue stratificazioni e cancellazioni è soprattutto divenuta uno specchio della memoria e un sito di compassione e preghiera, di identità e coscienza collettiva per le scene epiche di battaglia con figure di miti egizi, opera di Alaa Awad e Hanaa El Degam, come una moderna Guernica della fase rivoluzionaria, e per gli sguardi delle giovani vittime del massacro di Port Said del 2012 di Ammar Amo Bakr, integrati dai volti delle madri che mostrano le foto dei figli scomparsi, con le stesse dinamiche ostensorie delle Madri argentine di Plaza de Mayo. Dove il “vedere e toccare” interno alla semiosi dell’immagine ne attesta il valore di verità e di presenza. Un trompe-l’œil che ha anche consentito di vedere spazi di libertà (affrescati dagli artisti) oltre i muri e le barricate alzate dopo la rivoluzione dalla giunta militare per mantenere il controllo degli accessi a piazza Tahrir e prevenire nuove proteste di massa. In una “immaginazione al potere” che ha sostenuto la lotta per il rovesciamento di un regime e la formazione di nuove consapevolezze democratiche, affermando, anche in una cultura tradizionalmente astratta ed aniconica come quella islamica, il potere delle immagini.

1. In Matt Kennard, Global Art Uprising: How the revolutionary spirit transformed creativity, in “The Comment Factory”, 27 February 2012, http://www.thecommentfactory.com/the-global-art-uprising-how-the-revolutionary-spirit-transformed-creativity-6220/
2. Sull’argomento cfr. A. Meringolo, I ragazzi di piazza Tahrir, Clueb, Bologna 2011 pp. 83-93, e E. Ferrero, Cristiani e musulmani, una sola mano, Emi, Bologna 2012, p. 14.
3. Giulio Carlo Argan, “La storia dell’arte”, in Storia dell’arte come storia della città, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 80.
4. Gene Sharp, Come abbattere un regime. Dalla dittatura alla democrazia, Chiare Lettere, Milano 2011.
5. In http://ganzeer.blogspot.com.es/2011/07/free-downloadable-revolutionary-stencil.html#!/2011/07/free-downloadable-revolutionary-stencil.html
6. In Alexis C. Madrigal, Egyptian Activists’ Action Plan: Translated, in “The Atlantic”, 27 January 2011, http://www.theatlantic.com/international/archive/2011/01/egyptian-activists-action-plan-translated/70388/
7. Jonathan Jones, Occupy’s V for Vendetta protest mask is a symbol of festive citizenship, in “The Guardian”, 4 November 2011.
8. Soraya Morayef, For the Love of Graffiti: Cairo’s Walls Trace History of Colourful Revolution,September 20, 2012, inhttp://suzeeinthecity.wordpress.com/
9. In Matt Kennard, Global Art Uprising.., cit.
10. Cfr. Meringolo, cit., p. 63.
11. In For the Love of Graffiti…, cit.
12. Nell’appello agli artisti (in http://streetfiles.org/photos/detail/1240481/) Ganzeer scriveva che “l’unica speranza che abbiamo in questo momento è distruggere la Giunta militare usando l’arma dell’arte”.
13. Per cui rinvio a Museums for Peace: A contribution to Remembrance, Reconciliation, Art and Peace, Proceedings of the 5th International Peace Museums Conference, Gernika Foundation, Gernika, Spain, 1-7 May 2005.


Fonte: Arte e Critica, http://www.arteecritica.it/onsite/74/articolo14.html

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