Calais

Alberto Fierro

L’idea di andare a Calais viene a Giorgia, un’amica italiana conosciuta qui a Londra. Alcuni suoi amici di SOAS (l’università di studi Medio Orientali e Africani di Londra, molto di sinistra) sono andati nel campo profughi a dare una mano diverse volte. Cerco su internet le associazioni che lavorano nel campo, noto come “jungle”, e ne contatto una. Si deve compilare un questionario standard e dopo qualche giorno arriva una risposta prestampata: “siamo contenti che veniate ad aiutarci, vi aspettiamo”. Ci danno l’indirizzo della “warehouse”, un magazzino in cui raccolgono gli aiuti che vengono invitati da tutta Europa. L’appuntamento è alle 9 al magazzino, ogni giorno c’è una presentazione per i nuovi volontari che vengono successivamente smistati nelle diverse attività (cucina, catalogazione del materiale, distribuzione, ecc.).

Arrivare a Calais è inquietante di per sé: andiamo con un passaggio trovato sul sito Bla Bla car e il conducente, un ragazzo canadese molto simpatico, ha prenotato il posto per l’Eurotunnel. All’ingresso le macchine in coda vengono fatte salire sui treni speciali che percorrono i 50 km di tunnel sotterraneo. Arriviamo al tramonto, e la scena delle macchine che entrano nei convogli sembra fantascienza. Nella risposta precompilata l’associazione con cui lavoreremo ci aveva suggerito di prenotare un posto all’ostello di Calais. Appena arrivati entrano altri giovani che hanno tutta l’aria di essere, come noi, volontari che aiutano l’associazione al magazzino. Fuori dalla porta dell’ostello conosciamo Stefano, un ragazzo italiano che sta facendo il volontario già da qualche giorno.

Ci accoglie con un caloroso: “sono proprio contento di vedere degli italiani”. Dopo un po’ di chiacchiere capiamo che si riferisce al fatto che, tra i volontari, gli italiani sono pochi… “Perchè non vengono qui? Dove sono? Ci sono ancora persone che per trovare se stesse vanno in India… Ma vengano a vedere cosa succede qui!”

Stefano al mattino lavora al magazzino, prepara i pacchi da portare al campo e poi nel pomeriggio va con altri volontari a consegnarli. Ha trent’anni da poco, i rasta e lavora a Barcellona come barista e musicista raggae. Ci parla del campo e dei suoi abitanti con grande passione. Dice tante cose che confermeremo noi stessi l’indomani. “Tantissimi parlano l’italiano! Alcuni hanno anche la carta d’identità. Cercano di andare in Regno Unito perché da noi non c’è lavoro, ma magari hanno vissuto in Italia anche anni”. Non è difficile immedesimarsi nei migranti.

Soprattutto quando si vive a Londra e si entra in contatto con la comunità degli italiani espatriati. Tutti giovani che lavorano, guadagnano, hanno una vita “normale”; cosa che in Italia sembra sempre più un privilegio per pochi. E i migranti che stavano in Italia? Sono poi tanto diversi da noi? Anche loro vogliono andare a Londra perché non c’è lavoro in Italia, solo che non basta la carta d’identità per passare i controlli aeroportuali: bisogna essere italiani “veri”, cittadini Europei.

Arriviamo all’ingresso del magazzino. C’è un sacco di gente (circa 100 persone): è domenica e lunedì nel Regno Unito è festa. Sono arrivate persone di tutte le età, alcune sembrano far parte di gruppi organizzati. Ci fanno leggere e firmare una serie di documenti. In parte per motivi assicurativi, un po’ per informarci del funzionamento dell’associazione. Poi una volontaria Inglese con la kefiah ci dispone tutti in cerchio e quasi senza dire nulla inizia a fare quello che gli Agapini conoscono come “energising”: corsetta sul posto, piegamenti, un po’ di stretching.

Noi tutti la seguiamo e ci facciamo energizzare in preparazione della giornata di lavoro. Inizia la spiegazione. Ci prega di non fare foto fuori dal magazzino e nelle strade adiacenti. E’ una questione di sicurezza: a diversi gruppi di estrema destra il lavoro che fanno le associazioni al campo non piace e possono essere pericolosi. Insiste su un punto preciso: se siamo venuti a fare “turismo della sofferenza” abbiamo sbagliato posto. L’associazione cerca di essere il più professionale possibile ed evitare di creare problemi ai migranti del campo. Andare da soli del campo è vietato: per andarci bisogna avere un ruolo, bisogna sapere cosa fare. Non si va con una macchina fotografica a chiedere le storie dei migranti, per quello ci sono i professionisti. Le donne devono mettersi pantaloni larghi e legarsi i capelli, spiega che è un’esplicita richiesta degli abitanti.

Ci mettiamo al lavoro. Dividono i volontari in vari gruppi, io devo dividere pacchi e pacchi di vestiti a seconda di genere, taglia, ecc. L’atmosfera nel magazzino è rilassata, tutti si muovono veloci con la musica di sottofondo. Indossiamo pettorine fosforescenti gialle, mentre i volontari che si fermano di più hanno delle pettorine rosse. C’è talmente tanta gente che spesso si crea più confusione che altro, ma in effetti è notevole come comunque riescano a coordinare ogni giorno decine di persone che non hanno un’idea precisa del loro compito e che non si conosco a vicenda.

Durante il pranzo, con Giorgia decidiamo di chiedere alla ragazza con la kefiah del “jungle book”. Il giorno prima Stefano ci aveva spiegato che verso le cinque in una parte del campo i migranti vanno a fare conversazione in inglese con i volontari internazionali, l’attività si svolge nella biblioteca del campo, appunto battezzata “jungle book”. Ci dicono che non c’è problema, che possiamo andare alla libreria, su un foglietto disegnano una mappa per arrivarci. Insomma, il discorso del mattino sul non andare nel campo è per evitare che 50-100 persone ci vadano tutti i giorni a fare foto, ma di per sé non c’è nessun problema o pericolo.

Mentre parliamo un signore inglese sulla sessantina ci offre un passaggio: si chiama Robert, ha un bel piercing penzolante e sostanzialmente fa la spola tra campo, magazzino e ostello dando passaggi a chi ne ha bisogno. Quando partiamo si uniscono a noi un ragazzo e una ragazza inglesi, una loro amica lavora in una cucina all’interno del campo e vogliono andare a salutarla.

Tre mesi fa la polizia ha sgomberato la parte sud. Arrivando in macchina si vede una grande distesa di terra secca con al centro una chiesetta di legno e lamiera. Assieme alla libreria che le sta accanto, è l’unica cosa che è stata risparmiata dalle ruspe. Il campo si trova di fianco alla superstrada, a pochi chilometri di distanza dall’ingresso per l’eurotunnel e per i traghetti che vanno in Inghilterra. I migranti cercano di passare sotto i camion, nelle macchine. Stefano ci ha detto che non sa come, ma un modo per passare c’è e viene usato, basta pagare molti soldi.

Nel campo vivono circa 4.000 persone, è praticamente una cittadina. Robert ci lascia al jungle book. Nello spiazzo adiacente molti giocano a calcio, a un centinaio di metri si vede invece l’inizio della parte del campo risparmiata. Ci incamminiamo con i due ragazzi inglesi e un altro volontario che troviamo lì. Non c’è particolare pericolo: è giorno e non siamo soli. Il campo è come un qualsiasi quartiere periferico di una grande città europea: un posto dove non passeggiare di sera o non accompagnati. Le persone però sono sempre sorridenti, tutti salutano. La strada principale ha tutto: ristorante, parrucchiere, dentista, empori e negozietti. Stanno dentro tende, casupole malandate e ovviamente le insegne sono su cartoni o tavole di legno. Un po’ mi sento come quando stavo a Kongwa.

Ci sono file di bagni chimici puzzolenti. L’acqua arriva, infatti vedo due o tre lunghi lavandini pubblici ai lati della strada. Le abitazioni variano: girando a sinistra vediamo delle grosse tende blu da campeggio, in fondo invece dei container bianchi (a quanto pare l’unica cosa che ha costruito lì il governo francese), sono bruttissimi e isolati dal resto del campo da inferriate. Mentre camminiamo vediamo Julia, una ragazza portoghese che sta con noi in ostello, sta distribuendo il cibo preparato dall’associazione. E’ una bella giornata di sole ma fa comunque molto freddo, è umido. A gennaio nel campo dev’essere disumano.

Arriviamo alla cucina dell’amica. Entriamo in una tenda rotonda con tappeti e tavoli per terra. Subito fuori si può prendere del tè ed entrano diverse persone con i piatti pieni di cibo cucinato. Ad un certo punto un bell’uomo di fronte a noi inizia a suonare la chitarra: canta bene e la canzone è bella. Chiedo al mio vicino in che lingua sia, è farsi, sono un gruppo di iraniani! Allora cinque minuti a parlare di quanto sono belle Isfahan e Shiraz, la tomba del poeta Hafez e della cordialità degli iraniani.

Sono già le cinque, torniamo verso la libreria. E’ una stanzetta scalcagnata, ma hanno un ottimo assortimento: classici in edizione Penguin, vocabolari e grammatiche, qualche guida turistica (ovviamente di Londra) e libri in arabo e urdu. Una volontaria sta uscendo, le chiediamo come funziona, se c’è qualche tema particolare di cui è meglio non conversare, ma no, sembra tutto molto spontaneo. Giorgia inizia a discutere della grammatica inglese con due o tre migranti, davanti a me c’è Michael, ragazzo giovane che parla inglese molto bene.

E’ eritreo, mi domanda com’è la vita a Londra, quanto costa e l’ammontare degli stipendi. La conversazione è molto piacevole, Michael è istruito: ha fatto il primo anno di filosofia all’università e poi è partito. Vuole sapere qualche frase semplice in italiano, allora poi gliene chiedo la traduzione nella sua lingua. Trattengo tutte le domande che vorrei fargli sul suo viaggio e la sua storia. Perché dovrebbe tirare fuori cose brutte per soddisfare la mia curiosità?

Credo che fosse a questo che si riferiva la ragazza con la kefiah del mattino. Dopo un’oretta ci ringraziamo cortesemente a vicenda e vado fuori a fumare una sigaretta. “Ah, sei italiano! Come stai? Piacere. Ma come mai parli così bene l’inglese? In Italia nessuno parla l’inglese…Ahah”. Incontro diverse persone, afghani e pakistani. Tutti parlucchiano l’italiano. Sono passati e hanno vissuto per un po’ da noi. Sono conversazioni brevi, il tempo di dare e riprendere l’accendino. Due persone vengono a chiedermi se posso dare loro dei soldi, ma non insistono particolarmente.

Alle sette siamo stanchi, cerchiamo di tornare verso l’ostello e troviamo un passaggio. La superstrada lungo il campo e completamente recintata. Una griglia di metallo con in cima del filo spinato. Robert ci dice che hanno speso diversi milioni di euro per costruirla. Assurdo. La recinzione è lunga, diversi chilometri lungo tutta la strada per evitare che le persone riescano ad arrivare alle partenze dei treni e dei traghetti. Quando sto tornando, in macchina, penso all’incredibile ingiustizia; in coda per il traghetto, poi, penso che è solo il caso che mi ha fatto stare dalla parte “giusta” della recinzione.

p.s. andate a Calais (o a Celilla, Idomeni, ecc.). Le associazioni che lavorano lì hanno sempre bisogno di volontari e di supporto. Anche solo per un giorno o due!

Calais

Alberto Fierro


 

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