In viaggio con Leila Alaoui nell’île du diable | Roberta Chionne


Mostre | Alla fotografa uccisa lo scorso gennaio in un attentato a Ouagadougou è dedicata la sesta Biennale di Marrakech. Che presenta i suoi reportage sui migranti dalle ex colonie francesi

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«Mi sento a casa ovunque finché posso essere mobile», diceva di sé l’artista


Fisicamente non c’è, non può esserci, ma la presenza di Leila Alaoui si percepisce ovunque alla sesta Biennale di Marrakech.

E non solo perché l’evento le è stato dedicato dal presidente esecutivo Amine Kabbaj. Non solo per le iniziative di artisti e galleristi che permettono di vedere i suoi lavori e il suo bel volto, quasi a trattenere quella che fino a pochi mesi fa, fino all’attentato di Ouagadougou in cui a gennaio ha perso la vita, era una compagna di progetti e ideali. La presenza di Leila, che in un’intervista si era definita«un’antropologa dalla sensibilità visiva e artistica», è nello spirito di questa Biennale che riflette sulle identità culturali, sui diritti umanitari, sugli effetti di colonizzazioni e decolonizzazioni attraverso una poetica bellezza in grado degenerare empatia.

Questo, d’altra parte, è stato sin dalla fondazione l’obiettivo della Biennale di Marrakech, nata nel 2005 da un’idea di Vanessa Brandson per avvicinare le persone attraverso la cultura nonostante le paure generate dal trauma dell’11 settembre.

«Quanto è successo a Ouagadougou» ha detto Kabbaj all’inaugurazione della kermesse, «riguarda tutti noi. Leila non era una giornalista, era una fotografa che raccontava le condizioni in cui vivono alcune persone del nostro pianeta. Lo ha fatto in Marocco, voleva farlo in tutta l’Africa e in Africa ha incontrato il suo destino».

Uccisa in Burkina Faso, dove documentava una campagna in difesa dei diritti delle donne per Amnesty International, Leila era un talento giovane ma già riconosciuto, capace di rapire occhi e cuore. Pubblicato su riviste internazionali ed esposto in contesti prestigiosi dalla Maison Européenne de la Photographie all’Institut du Monde Arabe di Parigi, il suo lavoro esplora i temi della migrazione e delle identità culturali, sociali ed etniche attraverso un linguaggio che realizza una coinvolgente sintesi tra il valore documentario e narrativo del documentario e la bellezza dell’opera d’arte.

Alla Biennale marocchina avrebbe dovuto presentare l’installazione-video L’île du diable (2015), prima parte di una trilogia che non potrà ultimare sulle memorie delle generazioni di immigrati provenienti dalle ex colonie francesi. Il video («un tributo ad anime dimenticate e esiliate», lo definisce la lettera aperta che gli organizzatori della rassegna hanno scritto in ricordo di Alaoui) raccoglie le testimonianze di ex operai magrebini delle ormai demolite fabbriche Renault Bilancourt, attive dal 1921 al 1992 sull’ile Seguin, mentre ripercorrono spazi e momenti di quella che chiamavano «l’isola del diavolo», un luogo intriso di fatica e crisi identitarie ma anche di solidarietà interculturale e senso di appartenenza.

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MIRAGGI – Una foto della serie No Pasara, sui giovani marocchini che sognano di migrare in Spagna. Protagonisti di No Pasara sono i giovani harragas, pronti a tutto pur di andare in Europa

Appassionata di studi umani e di umanità, nomade e curiosa, «mi sento a casa in ogni posto finché ho la possibilità di essere mobile», Leila risiedeva tra Beirut, Marrakech e Parigi, dove era nata nel 1982 da madre francese e padre marocchino. Cresciuta a Marrakech, nel 2000 si reca a New York per studiare fotografia e vi resta sino al 2008, quando sente il desiderio di tornare alle sue radici e ha l’opportunità di realizzare No Pasara, un reportage finanziato dall’Unione Europea sui giovani marocchini che sognano di migrare in Spagna, gli harragas (bruciatori di frontiere) pronti a tutto per arrivare in Europa. Trascorre un’estate con loro, condivide alcuni giorni di viaggio su una barca partita dalle coste marocchine, e realizza 30 istantanee, 10 per ogni tappa del corpo e dell’anima: l’inquietudine di Béni Mellal «dove è nato il bisogno di andarsene», l’espressione lontana dei giovani imbarcati a Tangheri e la delusione di chi ha tentato la traversata ed è tornato a Nador.

L’esperienza di No Pasara la riavvicina al suo Paese, dove decide di restare. Dopo la serie 40, dedicata a una quarantina di artisti marocchini contemporanei che la pone a contatto con la scena culturale locale, realizza il suo lavoro più famoso, esposto nel padiglione del Marocco di Expo 2015, Les Marocains, ritratti fotografici a grandezza naturale di persone appartenenti a diversi gruppi etnici del paese, consegnando un’eredità visiva di tradizioni e costumi che stanno scomparendo. La serie, ispirata al lavoro The Americans di Robert Frank, è il frutto di un viaggio che Leila decide di compiere attraverso aree del Marocco rurale con uno studio fotografico mobile. Facilitata dal suo essere dolce, donna e marocchina, riesce nella difficile impresa di condurre uomini e donne della strada nello studio fotografico per essere ritratte, tutte con la stessa luce e lo stesso fondo nero, chiedendo loro solo di guardarla, spesso il tempo di uno scatto prima di fuggir via intimidite.

Nel 2013 realizza la serie Atreen (We are waiting), commissionata dal Danish Refugee Council (Drc) in Libano e dalla Commissione Europea, per testimoniare le conseguenze della crisi siriana attraverso immagini che raccontano storie di uomini, donne e bambini sradicati dai loro territori.

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VIDEO-INSTALLAZIONE – Immagini da Crossing, dedicata ai migranti dell’Africa sub-sahariana

Alla quinta Biennale di Marrakech, nel 2014, presenta il cortometraggio Crossings dedicato ai viaggi compiuti dai migranti dell’Africa sub-sahariana e destinato a denunciare la preoccupante repressione razzista che subiscono in Marocco. Anche per questo progetto Leila cerca la costruzione di un rapporto di conoscenza e fiducia, trascorre mesi con i migranti a Rabat, registra ore di testimonianze e infine rievoca l’odissea dei loro viaggi con un’installazione composta di nove schermi un cui si alternano frammenti di realtà e fotografie astratte, effetti sonori e voci che raccontano.

Crossings e alcune fotografie di No Pasara sono visibili fino all’8 maggio nell’ambito di uno dei numerosi progetti paralleli della Biennale, presso lo spazio L’Blassa, nel quartiere Gueliz di Marrakech, città dove nell’autunno 2016 era prevista la sua prima personale presso la galleria marocchina Voice Gallery dell’italiano Rocco Orlacchio.


Fonte: pagina 99we | sabato 26 marzo 2016
Tutte le foto: THE ARTIST’S ESTATE AND VOICE GALLERY MARRAKECH

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