L’era della crescita (‘growthcene’). Pensare con l’approccio critico della decrescita | Ekaterina Chertkovskaya e Alexander Paulsson


Facciamo chiarezza su quale tipo di crescita è necessario mettere in discussione con la decrescita: è l’aumento dei flussi globali di materia e di energia, è l’accumulazione di capitali e il produttivismo; sono i tentativi irragionevoli di continuare a far crescere il PIL. In altre parole, mettiamo in discussione l’era della crescita materiale (growthcene).


growthcene


Ultimamente è aumentato l’interesse per la decrescita – un termine generico che include le critiche alla narrativa dominante della crescita economica nelle nostre società e comprende varie alternative per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale (Kallis et al., 20151). Questo approccio è condiviso non solo dai proponenti della decrescita, ma anche dai suoi critici, che spesso sono favorevoli a molte delle idee di questo movimento ma esprimono delle riserve sul termine ‘decrescita’.

Ci sembra che queste riserve, almeno in parte, dipendano dal fatto che il termine stesso di ‘crescita economica’ è ambiguo e contestato. Per esempio, Kate Raworth2 afferma che non è chiaro se la decrescita si riferisce agli aspetti biofisici o ai valori monetari, misurati in termini di PIL, e sostiene che questa differenza è significativa. John Bellamy Foster3 propone di discutere di decrescita non in termini astratti, ma più concretamente in termini di ‘deaccumulazione’ – una transizione che si propone di abbandonare un sistema orientato all’accumulazione senza fine di capitale.

Le riserve espresse sul termine ‘decrescita’ rendono dunque necessario chiarire che cosa si intende con la parola ‘crescita’, e quali trappole occorre evitare se si vuole mettere in atto la transizione verso una decrescita sostenibile4. Nelle pagine che seguono cerchiamo di descrivere tre modi di interpretare la crescita, che dovrebbero essere messi in discussione dalla descrescita: primo, fare affidamento all’aumento indefinito dei flussi di materia e di energia; secondo, mirare all’accumulazione di capitale e al produttivismo; terzo, puntare sempre all’espansione quantitativa delle economie nazionali (misurate con il PIL). Proponiamo anche di usare l’espressione ‘era della crescita’ (growthocene) per caratterizzare l’epoca in cui viviamo, estendendo la nozione di ‘era del capitale’ (capitalocene) e rifiutando il termine, ormai entrato nel linguaggio corrente, di antropocene.

Flussi biofisici di materia ed energia

Le economie in tutto il mondo si basano sulla crescita dei flussi biofisici, che ha prodotto conseguenze ecologiche gravissime sul pianeta e sui suoi ecosistemi. La decrescita – al contrario – implica una riduzione di tali flussi. Il concetto di antropocene, che in parte accoglie questa critica, è tuttavia molto problematico, perché suggerisce che tutti gli esseri umani siano responsabili della crisi ecologica, senza sottolineare differenze di classe, di genere, di razza, di geopolitica o di sistemi economici.

L’economia ‘verde’ (Green economy) è diventata una parola di moda, e viene spesso suggerita come soluzione ai problemi ecologici del mondo, sia da destra che da sinistra. Ma l’economia ‘verde’ non è né sostenibile né giusta, perché si basa sull’idea di incorporare soluzioni (ipotizzate come ‘verdi’) nell’economia dominante, senza metterne in discussione le basi. Per esempio, l’attribuzione di valore alla natura in termini economici è tale solo di nome, mentre in realtà consente di continuare la distruzione di sistemi ecologici e di sottrarre le risorse biofisiche ai governi (Kill, 2015) 5.

Le fonti energetiche rinnovabili rappresentano naturalmente un passo importante nella transizione, ma non portano automaticamente alla sostenibilità o alla giustizia. In Brasile, per esempio, il modo con cui si sta operando la transizione verso le energie rinnovabili sta mettendo a rischio la biodiversità dell’Amazzonia, e spesso costituisce una minaccia ai modi di vivere delle comunità indigene e alle basi ecologiche che ne consentono la sopravvivenza (come dimostra i caso degli Indiani Munduruku).6

Così, nello sforzo per conseguire sostenibilità e giustizia, la decrescita va al di là del discorso sui flussi di materia e di energia, e sui limiti fisici del nostro pianeta. Si tratta di mettere in discussione le soluzioni problematiche e potenzialmente dannose proposte come ‘verdi’, come i mercati del carbonio e della biodiversità, o la scelta dell’energia nucleare. Non solo: l’approccio della decrescita richiede di far emergere i problemi nascosti dietro alle attraenti etichette di ‘inclusività’, ‘riduzione della povertà’, ‘sviluppo’ ecc.

Più in generale occorre chiedersi quali sono i rischi delle soluzioni proposte, chi ne esce vincitore e chi perdente; e ancora, quali divisioni sociali, quali ingiustizie, quali disuguaglianze vengono mantenute, riprodotte, eventualmente rinforzate.

Accumulazione del capitale e produttivismo

Quest’ultimo punto ci porta a mettere in discussione la crescita intesa come accumulazione di capitale. In primo luogo le condizioni in cui si verifica l’accumulazione di capitale sono dipendenti da classe, genere, razza e altre caratteristiche; inoltre quando il surplus viene reinvestito in attività economiche, le differenze vengono ulteriormente accentuate. In breve, lo sforzo per accumulare si basa su ingiustizie e disuguaglianze, come è stato evidenziato da più fonti. Parte di queste critiche hanno portato a suggerire il concetto di ‘capitalocene’, per indicare che non è l’intera umanità, ma il capitalismo ad essere responsabile dei problemi ecologici e sociali che dobbiamo ora affrontare (Haraway, 20157; Malm, 20158; Moore, 20149).

Allora la frase “cambia il sistema, non cambiare il clima” dovrebbe implicare non solo che dobbiamo affrontare in modo diverso il clima o l’ecologia, ma proprio il modo con cui le nostre società sono organizzate. La decrescita problematizza le forme dell’accumulazione e – specularmente – le forme di consumo, che hanno un’apparenza di ‘sostenibilità’ o che sembrano orientate alla comunità. Per esempio, la nozione della ‘sharing economy’ è stata messa in discussione come qualcosa che trasforma gli spazi sociali e comunitari in merci, e sfrutta il lavoro precario (Schor, 201410).

Il concetto di capitalocene è senza dubbio un’idea potente per capire problemi sociali ed ecologici senza trattarli separatamente, tuttavia non coglie il quadro completo. Per esempio, è difficile inserire nello scenario la storia ambientale dell’ex-Unione Sovietica e del blocco dell’Europa dell’Est, i cui sistemi economici hanno avuto effetti ecologici e conseguenze sociali altrettanto devastanti. La produzione industriale era il motore chiave dell’organizzazione di quelle economie, se non di quelle intere società.

E’ quindi importante mettere in discussione non solo l’accumulazione capitalistica, ma anche il produttivismo, cioè la crescita della produzione come se fosse una cosa positiva di per sé. Ma il produttivismo nelle economie contemporanee non riguarda solo la produzione industriale: riguarda anche la produzione di informazioni, di conoscenza, di tecnologia, di servizi.

E’ anche cruciale sottolineare che sfidare il produttivismo non implica necessariamente ridurre tutti i tipi di produzione: occorre distinguerne diversi modi di realizzarsi, diverse conseguenze… Per esempio, sarebbe auspicabile sostenere un incremento della permacoltura, in quanto si tratta di una pratica produttiva sostenibile in agricoltura. Altrettanto desiderabile secondo molti sarebbe la diffusione di iniziative come il cooperativismo11, in alternativa alla ‘sharing economy’.

In linea con le riflessioni proposte fin qui, suggeriamo di usare il termine di ‘era della crescita’ (growthocene) – che esprime la propensione a conseguire una crescita perpetua, affidandosi all’idea che si possa contare sul flusso crescente di materia e di energia, sull’accumulo di capitale e sul produttivismo in generale  – per descrivere l’epoca in cui viviamo e i problemi ecologici e sociali che incombono su di noi. L’idea della decrescita, quindi, mette in discussione sia le condizioni sia le conseguenze del ‘growthcene’.

Espansione quantitativa delle economie nazionali misurata tramite il PIL

L’assunzione – assai problematica – che sta alla base dell’idea di growthcene è che l’espansione quantitativa possa portare automaticamente a un aumento di prosperità. Da qui deriva che il PIL è la misura dominante del valore monetario delle economie nazionali. Questo indicatore era stato introdotto come strumento del governo degli Stati Uniti per affrontare la Grande Depressione e più in là per pianificare le attività produttive durante la Seconda Guerra Mondiale: solo in seguito diventò la misura predominante per le economie nazionali.

Il PIL e altre misure analoghe, oltre ad essere indicatori inadeguati di prosperità, conducono a conseguenze problematiche. In primo luogo hanno portato ad accettare una regola comune, che consentiva di analizzare e interpretare la situazione economica di paesi a basso reddito sulla base dell’ipotesi che il loro riferimento per il futuro fosse il modello industriale (Speich, 2011)12. Secondo, pilotare e orientare in base al PIL istituzioni pubbliche di importanza cruciale come l’educazione e la salute, ha creato dei sistemi che invece di essere funzionali ai bisogni della gente sono orientate a soddisfare certi criteri economici.

E’ importante sottolineare che non solo la descrescita non si pone l’obiettivo di ridurre il PIL13, o il valore monetario dell’economia, ma che la decrescita stessa non dovrebbe essere valutata tramite il PIL o misure analoghe, che sono essenzialmente indicatori fasulli di prosperità. Il PIL è stato criticato in modo convincente da molti studiosi, ormai, (e.g. Fioramonti, 201314), ma resta ancora del lavoro da fare per smontare la sua posizione tuttora egemonica.


*Ekaterina Chertkovskaya fa parte del team sulla decrescita presso il Pufendorf Institute for Advanced Studies e del gruppo di ricerca in Sustainability, Ecology and Economy presso la School of Economics and Management, entrambi all’Università di Lund. E’ anche membro del collettivo editoriale del giornale ephemera15

*Alexander Paulsson fa parte degli stessi gruppi di lavoro, ed è ricercatore postdoc presso lo Swedish Knowledge Centre For Public Transport.


February 19, 2016
Titolo originale: The growthocene: Thinking through what degrowth is criticising
http://entitleblog.org/2016/02/19/the-growthocene-thinking-through-what-degrowth-is-criticising/
Traduzione e sintesi di Elena Camino per il Centro Studi Sereno Regis


Note

2 commenti
  1. mario ciani
    mario ciani dice:

    Una analisi giustamente molto critica alla crescita e decrescita ma, non indica come questo correre e frenare bruscamente dell'economia si possa evitare. siamo alle solite,siamo tutti capaci a criticare e nessuno che indica le soluzioni che, a mio avviso non mancano se si volesse ma, fa comodo non indicarle. Siamo alle solite, denunciamo tutto e tutti senza condannare mai nessuno, modifichiamo tutto senza cambiare nulla.

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  1. […] In primo luogo, bisogna rendersi conto che la situazione attuale è assolutamente insostenibile dal punto di vista ecologico ,nè oggi nè domani. Ad esempio l’Earth Overshoot Day, che misura lo scarto fra impronta ecologica e biocapacità, ogni anno continua ad anticiparsi e nel 2019 è caduto il 29 luglio: ciò vuol dire che oggi consumiamo risorse pari a 1,7 volte la capacità rigenerativa annuale della Terra! In termini di “impronta ecologica”, quella media mondiale è di 2,8 ettari a testa, mentre quella sostenibile è di 1,7! In secondo luogo, la distribuzione dell’impronta ecologica è estremamente diseguale: se la media attuale è 2,8 ha, l’Italia è a 4,6 ha, gli USA a 8,2 ha, l’Australia a 9,3 ha ed il Lussemburgo a 15,8 ha! Ovviamente, l’impronta ecologica (di cui le emissioni di CO2 sono un’altra misura) sono estremamente correlate al reddito: noi ricchi (o “sviluppati”) siamo quelli che stanno avvelenando e distruggendo il Pianeta, tanto che più che di “Antropocene” è giusto parlare di “Capitalocene” o, ancora meglio, di “Crescitocene“. […]

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