27. Per una rivoluzione nonviolenta | Pietro Polito


In un viaggio tra le voci della R/resistenza che ho incontrato personalmente o attraverso lo studio della loro opera non poteva mancare Danilo Dolci (1924-1997), che ho scoperto leggendo Aldo Capitini. A chi non lo conosce o a chi, conoscendolo, desidera rivisitarne il messaggio, suggerisco di partire da uno dei suoi libri meno noti, Non sentite l’odore del fumo, Laterza, Bari 1971, dove con la forza della poesia, rivolgendosi ai giovani, egli fonda la prospettiva di una rivoluzione nonviolenta sulla memoria di Auschwitz:

Le più grandi risorse / erano la speranza e la dignità. / Chi si rassegna, muore prima. / Non so se i giovani hanno appreso. / Se ci si lascia chiudere, terrorizzare, / se ci si lascia cristallizzare / si diventa una cosa / gli altri ci diventano cose. / Auschwitz è tra noi, è in noi, / non si può star male per una lampada qualsiasi, / non si può star male per un sasso. / Non so se i giovani sanno / in ogni parte del mondo: / non c’è rivoluzione se si trattano gli uomini come sassi, / sapere solo Auschwitz e il Vietnam, intossica, / ai giovani occorre, anche, / l’esperienza creativa di un mondo / nuovo davvero. / Ad Auschwitz ci torno volentieri, / mi dà la misura dei fatti”.

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La data chiave nella vita di Dolci è il 1950, quando, ad un passo dal completamento degli studi in architettura, capì che “un architetto avrebbe lavorato soltanto per i ricchi, per chi aveva soldi, e non per chi non aveva né casa né soldi. Occorreva fare un altro lavoro”. (Da un’intervista con Mao Valpiana, “Azione nonviolenta”, a. XXXII, n. 10, ottobre 1995, p. 2. Su Dolci vedi: G. Barone, La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo biografico di Danilo Dolci, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2000 e A. Capitini – D. Dolci, Lettere 1952-1968, a cura di G. Barone e S. Mazzi, Roma, Carocci, 2008).

In seguito all’esperienza nella comunità di Nomadelfia, fondata da don Zeno Saltini e sorta nell’ex-campo di concentramento nazifascista di Fossoli (Modena), matura la decisione di trasferirsi a Trappeto, in Sicilia, dove era già stato col padre capostazione per un breve periodo tra il 1940 e il 1941, dando vita a una delle esperienze più significative per il riscatto civile e sociale del Mezzogiorno, occupando un posto in prima linea nella lotta alla mafia, impegnandosi in prima persona in tragedie immani come il terremoto in Belice. Con una scelta radicale di vita “questo uomo settentrionale” si fa “un meridionale tra i meridionali, un siciliano tra i siciliani” (Antonio Renda).

Colpisce la varietà e la creatività delle forme di lotta e d’impegni che caratterizza l’esperienza etica e politica di Dolci in Sicilia. Aldo Capitini ha definito il suo metodo di lavoro “un approfondimento della terza via”. Nel senso che il nuovo metodo non va confuso né con l’opera del benefattore né con l’impegno dell’agitatore sindacale. Si tratta, invece, di una nuova forma di opposizione sociale che da un lato s’ispira al “valore del metodo della purezza e dell’’esattezza’”, dall’altro prefigura “un nuovo e incisivo modo di vivere la religione e la politica”.

Ci troviamo di fronte a una singolare e straordinaria applicazione della nonviolenza come reazione istintiva e naturale a una realtà tragicamente segnata dalla violenza della povertà e della mafia. L’incontro con Aldo Capitini è successivo e conseguente al primo impegno di Dolci e lo stesso Dolci ha riconosciuto che nel 1950 non aveva ancora letto nessun libro di nonviolenza e che solo in seguito si è avvicinato a Gandhi.

Tra le sue numerose azioni nonviolente ricordo il digiuno individuale e collettivo (il primo digiuno fu da lui compiuto nel letto di un bambino morto per fame); il sostegno all’obiezione di coscienza (ma Dolci preferisce parlare di “azione di coscienza” perché non basta dire no ma occorre produrre alternative); la costituzione del Centro Studi e Iniziative per la Prima Occupazione, creato con i soldi del Premio Lenin per la Pace (1958); lo sciopero alla rovescia: alcuni disoccupati guidati da Dolci, che nel corso della sua vita ha subito ventisei processi, furono paradossalmente processati per avere sistemato una strada comunale abbandonata dall’incuria dell’amministrazione (Processo all’articolo 4, Bari, 1956); il lavoro di autoanalisi popolare e il metodo maieutico, vale a dire la pratica di centinaia e centinaia di riunioni con pescatori, contadini, bambini. Proprio da una di questa riunioni nacque il progetto di una diga sul fiume Jato, quando il contadino Zu Natale Russo, che non aveva mai visto una diga, ebbe l’intuizione di costruire un grande “bacile” per dare l’acqua a tutta la zona intorno a Partinico anche nei sei mesi dell’anno quando la terra era arida per la mancanza di pioggia.

La prima caratteristica del metodo di Dolci è che l’impegno nonviolento si fonda sulla conoscenza della realtà attraverso gli strumenti dell’inchiesta. Per intendere il nesso tra ricerca sociale e azione politica, si leggano questi versi da Il dio delle zecche (Milano, 1976): “Non confondere eventi e speranze: / annota come in laboratorio / annota quanto è inceppato, o rotto / annota quanto non sai / annota quanto non intendi / annota quanto non vedi / annota per vedere”.

La seconda caratteristica fondamentale del metodo è la capacità da parte del gruppo nonviolento di suscitare e coinvolgere l’opinione pubblica nazionale e internazionale, in cui Dolci in Italia è stato forse insuperabile. Alle sue battaglie sociali aderirono, tra gli altri, intellettuali come Bobbio, Moravia, Galtung, Fromm, Russell, Sartre.

La terza caratteristica del metodo è che esso si richiama a un insieme di concetti e valori politici. Il posto di Dolci nella storia delle idee politiche si situa nel grande alveo del pacifismo e della nonviolenza. Quanto alla pace, mi limito a richiamare il ritratto dell’uomo di pace che in II dio delle zecche viene presentato come colui che “vede da dentro / dai diversi dentro / screpolando le croste soffocanti”.

Quanto alla nonviolenza, occorre porre in grande rilievo che essa è sempre strettamente connessa alla rivoluzione. “La nuova intuizione morale identifica ingiustizia e violenza: l’impedire direttamente o indirettamente lo sviluppo delle persone, dei gruppi, delle collettività. In quanto il mondo per gran parte è inaccettabile, la nuova morale, necessaria agli uomini, se vogliono sopravvivere, identifica la giustizia col cambiamento sociale, e, dove l’ingiustizia è più grave, con la rivoluzione nonviolenta” (D. Dolci, Per una rivoluzione nonviolenta, in Id., Non sentite d’odore del fumo, cit., pp. 95-96).

Il tema della rivoluzione è uno dei motivi più felici del Dolci poeta. Per esempio, nella raccolta Se gli occhi fioriscono (Bologna, 1997) s’incontra una esemplare raffigurazione delle rivoluzioni storiche segnate dalla violenza e per analogia dell’auspicata rivoluzione nonviolenta: “Chi si spaventa quando sente dire / rivoluzione, / forse non ha capito. / Non è una sassata a una testa di sbirro, / sputare sul poveraccio / che indossa una divisa non sapendo / come mangiare; / non è incendiare il municipio / o le carte al catasto/ per andare stupidi in galera / rinforzando il nemico di pretesti. / Il dominio è potere malato / cresci soltanto quando ti maturi / corresponsabile: / la gente non è suolo ma semente. / Quando senza mirare ti agiti / la rivoluzione viene a mancare; / se raggiungi potere e la natura / dei rapporti rimane come prima, / viene tradita. / È conquistata ad ogni istante quando / creature si organizzano / estinguendo ogni zecca”.

Detto in breve, la rivoluzione vagheggiata da Dolci (“la rivoluzione contro il Dio delle zecche e i suoi accoliti”) mira a eliminare definitivamente i mezzi –violenza, guerra, terrorismo, pena di morte – con i quali è stata edificata (finora) la storia umana. La rivoluzione nonviolenta è una rivoluzione permanente che impegna ciascuno in prima persona: “Rivoluzione è curare il curabile / profondamente e presto / è rendere ciascuno responsabile” (Poema umano, Torino 1974). Allo stesso tempo non può non essere fatta che insieme agli altri, adottando quel metodo dell’autoanalisi popolare così magistralmente descritto in Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi (1970): “Una riunione di consiglio è buona / se ciascuno chiarisce fino al fondo / la propria convinzione / verificando alla luce degli altri: / non un braccio di ferro ma lo scontro / e l’incontro di singole esperienze. / È buona quando è sobria: / si dice solo quanto è necessario. / Una riunione è buona se alla fine / uno non è più lui / ed è più lui di prima”.

La rivoluzione nonviolenta si precisa in Dolci in una teoria della comunicazione, intesa non come un processo di trasmissione delle conoscenze da chi sa a chi non sa bensì fondata sulla maieutica reciproca. Il presupposto iniziale è la critica della comunicazione di massa, nonché la chiarificazione di confusioni interessate come quella tra potere e dominio (“il dominio è potere malato”).

Il nucleo della pedagogia di Dolci mi sembra racchiuso in questo brano: “Seminare domande in ognuno matura e germina risposte: voce e nuovo potere”. Si tratta di una salutare pedagogia del dubbio che tuttavia non si risolve in una generica ripresa del socratico “Conosci te stesso” (Bozza di manifesto. Dal trasmettere al comunicare, Edizioni Sonda, Torino 1988, 1989). C’è stato chi ha visto nelle conversazioni con i contadini di Spine Sante e con i ragazzi del Borgo “in atto il superamento della metodologia socratica” (Giuseppe Casarrubea). In che senso? Trovo la risposta in questa frase di Gianni Rodari: “Non è [Dolci] il Socrate che aspetta i discepoli sul traguardo del concetto, ma il ricercatore che avanza con i compagni, crescendo con loro, educandosi con loro”.

Pur corrispondendo a grandi linee a fasi diverse dell’itinerario di Dolci, la meridionalità, l’impegno sociale, la riflessione politica, la creazione poetica, la ricerca pedagogica sono facce interconnesse dell’ideale di un nuovo umanesimo: “riuscire a formare una società essenzialmente maieutica” (la formula si trova in Chissà se i pesci piangono, Torino 1973) e di un medesimo atteggiamento mentale che chiamerei quello dell’utopista concreto. Come Capitini, Gandhi, Galtung, Dolci appartiene alla famiglia degli “idealisti pratici”: sforzandoci di applicarne i metodi, rinnoviamo noi stessi e le nostre istituzioni.

Il pensiero e l’azione di Dolci s’ispirano “all’urgenza utopica di una città terrestre in ricerca creativa del suo fine in contrapposizione alla frammentata e velenosa città delle zecche” (così si esprime nella prefazione a Il dio delle zecche). Dolci sa perfettamente che l’utopia può diventare pericolosa quando astrattamente si trasforma nella pretesa di “imporre presunte perfezioni”. Un’utopia è buona solo se la si può tradurre in un progetto, solo se, nonostante l’apparente contraddizione, è “utopia concreta”.

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