Guerre, terrorismi e propaganda mediatica

Nanni Salio

Per gentile concessione di Nuovasocietà che ringraziamo di cuore. Nanni ha scritto questo articolo, Guerre, terrorismi e propaganda mediatica, a metà gennaio. Sarà pubblicato nell’edizione cartacea della rivista il 15 febbraio 2016.

Guerre, terrorismi e propaganda mediatica


Ricorrono in questi giorni 25 anni dalla prima guerra dei Bush contro l’Iraq, nel 1991. Un quarto di secolo è un periodo sufficiente per valutare successi ed errori e per cercare di dissipare la “nebbia della guerra” che sempre avvolge queste storie. The fog of war è l’opera di Errol Morris, regista di un bellissimo documentario su Robert McNamara, nel corso del quale questo illustre personaggio racconta 11 lezioni che avremmo dovuto apprendere dalla guerra (ma non abbiamo appreso!), di cui lui, come segretario della difesa ai tempi di Kennedy e del Vietnam, se ne intendeva (The fog of War, di Errol Morris, disponibile in DVD, con sottotitoli in italiano; vincitore dell’Oscar 2004 per i documentari, ottimo strumento anche dal punto di vista educativo).

Subito dopo la fine della guerra fredda e gli eventi del 1989 nei paesi dell’Est europeo e del 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si diffuse la sensazione che si sarebbe entrati in una fase della storia che avrebbe segnato la fine delle guerre. Fu una speranza ingenua e al tempo stesso pericolosa perché portò a una generale disattenzione rispetto ai piani che il complesso militare-industriale-scientifico-mediatico-corporativo stava elaborando negli USA. Questi piani si riassumono nel progetto di costruzione del “secolo americano”, con il predominio assoluto e indiscusso della superpotenza statunitense: da un mondo bipolare a uno unipolare, per assicurarsi il controllo delle risorse, a cominciare dal petrolio. Per realizzarli si aumentano enormemente le spese militari e si utilizzano i servizi segreti per far circolare informazioni del tutto infondate.

Contestualmente alla guerra in Iraq, nota come prima guerra del Golfo, anche se in realtà fu preceduta da quella tra Iran e Iraq negli anni 1980-1988, si scatenarono le guerre di secessione nei Balcani che portarono al disfacimento della Yugoslavia (1991-1995).

Un altro evento che è necessario ricordare per comprendere cosa sta accadendo oggi è la guerra per procura dei mujaheddin in Afghanistan (1979-1989), finanziati e armati dagli USA, che contribuì, tra le altre cause, al decadimento dell’Unione Sovietica.

Siamo abituati a vedere le ultime guerre in corso non come processi storici, ma come singoli eventi. Nel diffondere questo atteggiamento sono complici i media, che raramente svolgono un compito critico e fanno prevalere soprattutto la propaganda a favore di una o dell’altra fazione in guerra. Giornalismo di guerra, secondo il modello delle competizioni sportive, invece che giornalismo di pace.

Per comprendere cosa è accaduto a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno colpito gli USA è necessario introdurre il concetto di “contraccolpo” (blowback), termine usato dalla CIA per descrivere le reazioni di altri paesi alle politiche di dominio progettate e sostenute dagli sttrateghi del Pentagono.

Nella sua trilogia, Chalmers Johnson ne parla diffusamente e con grande competenza. Sono tre libri che occorre conoscere per comprendere radici e dinamiche delle crisi attuali (Gli ultimi giorni dell’impero americano. I contraccolpi della politica estera ed economica dell’ultima grande potenza, Garzanti, Milano 2003; Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, Garzanti, Milano 2005; Nemesi. La fine dell’America, Garzanti, Milano 2008). Come sostiene Johan Galtung, il blowback è la terza legge della dinamica applicata alla politica internazionale: “a ogni azione corrisponde una reazione, una controforza”. Il terrorismo degli stati, esercitato dall’alto, con bombardieri e droni, genera come risposta il terrorismo dal basso, di coloro che si ribellano e colpiscono spesso indiscriminatamente civili, come peraltro fa il terrorismo di stato, che si limita a chiamare questi “deplorevoli” eventi “effetti collaterali”.

Che cosa possiamo fare per cercare di dissipare la “nebbia della guerra”? Ecco alcuni passi da compiere:

  1. Contestualizzare gli eventi: ricostruire la storia dei paesi in guerra, attingendo alle molte fonti disponibili, soprattutto nei siti internet più affidabili, pur sapendo che tutti possono sbagliare e che la verità è una merce rara che viene nascosta dalla “nebbia della guerra”. Si possono consultare i seguenti siti internazionali: www.antiwar.com; www.znetitaly.altervista.org; www.transcend.org e tra quelli italiani segnaliamo: www.serenoregis.org, che contiene la traduzione degli editoriali settimanali di Johan Galtung.
  2. Non cedere al ricatto della paura: chiediamoci quali sono le minacce a cui dovremmo prestare maggiore attenzione. Nei paesi occidentali, la probabilità di morire per un attentato terroristico è da 100 a 1000 volte inferiore di quella di un incidente stradale o di una malattia terminale o indotta dagli squilibri e inquinamenti ambientali. Bisogna inoltre sapere che il terrorismo dei gruppi estremisti islamici provoca un numero di vittime da 10 a 100 volte superiori tra i mussulmani rispetto agli occidentali. E infine occorre prestare attenzione alle grandi minacce globali: caos climatico, crisi energetica, crisi finanziaria, povertà e miseria estreme, che vengono ignorate o lasciate in secondo piano.
  3. Giornalismo di pace invece che giornalismo di guerra: il giornalismo di pace distingue tra conflitto e guerra. La guerra non è sinonimo di conflitto ma l’esito di un conflitto non risolto. Il giornalismo di pace si basa su tre passi fondamentali: mappare tutti gli attori del conflitto; individuare i loro obiettivi legittimi (quelli che non violano i bisogni e i diritti umani fondamentali); elaborare soluzioni concrete, costruttive e creative per soddisfare gli obiettivi legittimi di tutte le parti in conflitto. Esempi di questo tipo di giornalismo si trovano negli editoriali di Galtung. Una approssimazione, tuttavia utile, a questo tipo di giornalismo è il giornalismo di inchiesta di autori come Robert Fisk, John Pilger, Pepe Escobar, Marinella Correggia, i cui articoli sono spesso disponibili in rete anche in italiano.

 

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