21. L’esercizio della memoria. Visita al Martinetto | Pietro Polito


martinetto_torinoIl Sacrario del Martinetto, dove a Torino tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 furono fucilati oltre sessanta partigiani condannati a morte dal Tribunale speciale e dagli altri tribunali della Repubblica di Salò, è un luogo della memoria che almeno una volta nella vita andrebbe visitato.

Una mattina di fine dicembre, illuminata da un pallido sole, mi sono recato al Martinetto, accompagnato dalla guida sicura, esperta, giovane di Federica Tabbò, responsabile dei servizi educativi del Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà, che ringrazio.

Le parole si rivelano inadeguate a rendere il valore simbolico di ciò che ho visto e provato.

All’angolo tra corso Svizzera e corso Appio Claudio, circondato da palazzi d’abitazione, al di sotto del livello stradale, visibile dalla carreggiata, all’interno della più vasta area del vecchio poligono di tiro, è stato salvato il recinto, che in primavera diventa un piccolo giardino, dove avvenivano le esecuzioni.

Un angusto spazio rettangolare che ho percorso per il suo intero perimetro.

Le mura sono coperte da una pianta rampicante. Più o meno a metà del recinto dove veniva sistemato il plotone d’esecuzione ora c’è una siepe preceduta da due file di margherite, una di colore bianco l’altra di colore giallo. A una certa distanza dalla siepe si trova un piccolo dosso. Qui erano posti i condannati, di spalle al plotone, legati a una sedia. Dietro il dosso una fossa lunga e stretta dove venivano gettati i cadaveri.

Tre simboli ricordano l’orrore.

Al centro un sobrio cippo commemorativo. Vi si legge: “Qui caddero fucilati dai fascisti i martiri della Resistenza piemontese e la loro morte salvò la vita e l’onore dell’Italia. 1943-1945”. Sulla parete destra una lapide con i nomi e le professioni dei partigiani uccisi, su quella sinistra una teca con alcuni frammenti delle sedie utilizzate per “giustiziare” i partigiani.

Ho trascritto i mestieri dei vari martiri: meccanico, mosaicista, contadino, studente, elettricista, disegnatore, bibliotecario, meccanico, pasticciere, professore universitario, capitano d’artiglieria, generale del genio, geometra, nichelatore, muratore, verniciatore, carpentiere, operaio, motorista, calderaio, commerciante, tipografo, impiegato, tubista, manovale, fotografo, disegnatore, ingegnere, perito agrario. Un mosaico di storie, vite con i loro affetti, speranze, progetti, abitudini, ansie, paure, che nel loro insieme fanno del Martinetto il simbolo dell’unità e della varietà della Resistenza.

Dal Sacrario non si avvertono i rumori del traffico che scorre lungo i due corsi adiacenti. Quando dalla posizione degli assassini ho camminato piano verso quella delle vittime, la sensazione avuta è stata quella di avere perduto il controllo dei propri pensieri. Ho provato ad immaginare le prime ore del mattino del 5 aprile 1944, un giorno della settimana santa, tra la domenica delle Palme e la Pasqua, ma non ci sono riuscito.

Meglio lasciar parlare i fatti.

Alcuni componenti del primo Comitato militare regionale piemontese, Errico Giachino, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Massimo Montano, furono arrestati durante il mese di marzo; invece gli altri, Giuseppe Perotti, Silvio Geuna, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Valdo Fusi, Franco Balbis, Cornelio Brosio furono catturati la mattina del 31 marzo nei pressi del Duomo, in piazza San Giovanni, mentre si accingevano a prender parte a una riunione clandestina. Il Tribunale speciale fu convocato d’urgenza il 2 aprile. Il processo fu sommario e rapido. Solo due udienze: il 2 aprile gli interrogatori, il 3 aprile le conclusioni e la sentenza che condannava otto persone a morte e quattro all’ergastolo. Dopo un giorno di attesa, la sentenza capitale fu eseguita la mattina del 5, a meno di una settimana dall’arresto. Sotto i colpi del plotone d’esecuzione trovarono la morte il capitano Franco Balbis, Quinto Bevilacqua (Partito socialista), Giulio Biglieri (Partito d’azione), Paolo Braccini (Partito d’azione), Errico Giachino (Partito socialista), Eusebio Giambone (Partito comunista), il tenente Massimo Montano, il generale, Giuseppe Perotti.

L’orrore dell’eccidio traspare nelle parole di un testimone di quel tempo: “Raccogliamoci per un momento in devoto silenzio e cerchiamo di immaginare la scena: otto seggiole allineate, vicine l’una all’altra nello squallido e deserto recinto; su ogni seggiola è legato uno dei condannati, condotti sin qui in manette dalle prigioni; il plotone di esecuzione immobile, pronto ciecamente alla feroce consegna; un prete, missionario della Consolata, che li ha accompagnati nel carrozzone, è ora l’unico testimone, insieme con un medico militare, dell’eccidio, e li esorta e conforta dinnanzi al trapasso. Al momento in cui l’ufficiale ordina il fuoco, si alza un grido, l’ultimo grido: Viva l’Italia libera!”.

Come si è detto all’inizio, per il modo in cui i partigiani sono stati condannati e uccisi, il Martinetto è il simbolo di una memoria dolorosa che non può e non deve essere cancellata.

Quale memoria? Vi sono due tipi di memoria: la memoria esterna che è la memoria degli eventi e la memoria interna che è la memoria delle persone. L’una si tramanda attraverso la memoria collettiva, l’altra attraverso la memoria individuale. La prima è materia degli storici, la seconda dei testimoni, dei testimoni dei testimoni e dei post-testimoni.

Certo il Martinetto rappresenta la memoria esterna che si esprime nei libri di storia, nei monumenti, nelle lapidi, nei discorsi commemorativi. Ogni 5 aprile la Città rende onore ai caduti.

Ma ancor più il Martinetto è l’espressione della memoria interna, che soltanto è capace di restituire a ciascuno la propria vita e la propria morte. La memoria interna, quella che non si accontenta di manifestazioni esteriori ma si sedimenta nel profondo della coscienza, non è una memoria morta, è una memoria viva, perché nominando ogni vittima una ad una non ne lascia sparire nessuna nel nulla. Il nome è “il baluardo ultimo contro l’abisso dell’oblio” (Avishai Margalit).

Ma un filosofo ha detto: “Guai agli immemori. Saranno non soltanto incapaci di ricordare, ma anche di capire”. L’esercizio della memoria unisce il momento della commozione e quello della riflessione ed è il solo argine sia alla non conoscenza sia alla falsa conoscenza.

La memoria è necessaria per la democrazia e per la costruzione del futuro. Eppure, il nostro è un tempo che ha elevato a virtù la smemoratezza, la distrazione, la superficialità. Alla contro-memoria dilagante si può reagire con dei piccoli gesti. Recandoci al Martinetto, anche solo sostando un momento sulla carreggiata di corso Svizzera, compiamo un atto di memoria interiore.

1 commento
  1. enrico
    enrico dice:

    Grazie, Pietro, di questa tua testimonianza che è toccante nell'intimo dei sentimenti di dignità, di civiltà, che c erchiamo di coltivare e di vivere. Grazie! Enrico

    Rispondi

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