Cibo di guerra. Quinto rapporto sui conflitti dimenticati – Recensione di Nanni Salio


Copertina_cibo_di_guerra_conflitti_webCaritas Italiana, Cibo di guerra. Quinto rapporto sui conflitti dimenticati, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 210, € 18,00

Questa è la quinta edizione del rapporto di Caritas Italiana, «Famiglia Cristiana» e «Il Regno» sui «conflitti dimenticati nel mondo», che si focalizza, nell’anno della contestatissima Expo 2015 sul rapporto tra guerra e problema alimentare.

Sin dal titolo c’è una nota stonata che crea confusione nel corso dei sei capitoli che costituiscono questo rapporto: si confonde il concetto di conflitto con quello di guerra e li si usa come sinonimi. Ma, come ormai da decenni ci insegnano i migliori studiosi di «ricerca per la pace» e di trasformazione nonviolenta dei conflitti (da Johan Galtung a Paul Lederach) conflitto e guerra vanno tenuti distinti. Viviamo costantemente, dalle relazioni quotidiane a quelle internazionali, situazioni di conflitto che non degenerano né in guerre né in violenza. E il compito dei movimenti e delle istituzioni che intendono operare per costruire un futuro di pace e nonviolenza è proprio quello di apprendere tecniche e metodi per trasformare in modo costruttivo, concreto e creativo ogni situazione conflittuale.

Nel cap. 1, in un inserto, Walter Nanni traccia una «mappa mondiale dei conflitti», con una tabella in cui individua alcuni criteri classificatori, distinguendo sostanzialmente tra conflitti non violenti senza precisare tuttavia cosa intende con questo termine che nella letteratura corrente, anche accademica, è oggetto di ampie analisi e si scrive come una parola unica. Ma nell’intero capitolo, Francesco Strazzari analizza in chiave geopolitica «lo spazio prossimo della guerra». È un’analisi che ignora totalmente i contributi che potremmo definire di «geopolitica della nonviolenza», per riprendere un titolo di Richard Falk e che Galtung affronta criticamente nei suoi editoriali settimanali nella rete Transcend, tradotti in italiano a cura del Centro Studi Sereno Regis e pubblicati su questo sito.

Anche il cap. 4, «Video e guerra, nell’era di You Tube», pur interessante per l’ampia analisi delle diverse fonti oggi disponibili, avrebbe potuto essere più incisivo se nell’analisi l’autore, Nicola Bruno, avesse fatto riferimento ai lavori di «Peace Journalism», di Johan Galtung e Jack Lynch, per distinguere tra giornalismo di guerra e giornalismo di pace, con criteri applicabili anche alla produzione video. A pag. 111, il riferimento ai video che proverebbero l’utilizzo di armi chimiche da parte del governo di Assad viene dato senza sollevare alcun dubbio, e senza tener conto dei lavori di Seymour Hersh che sostengono una tesi diversa. Ancora una volta siamo immersi nella «nebbia della guerra», amplificata a dismisura dalla capillare diffusione dei nuovi media.

Il cap. 6 ha un titolo ancora una volta fuorviante, «Fame e conflitto», che prosegue nei paragrafi successivi, diversamente dal titolo del cap. 2, «Guerra, fame e aiuto umanitario», sebbene anche in questo caso si faccia un uso superficiale di alcuni termini, quale il concetto di violenza. Si afferma infatti, a pag. 47: «Assieme alla violenza, la «fame» è sempre stata il sintomo più noto ed esplicito di una crisi umanitaria». Ma la violenza alla quale si fa riferimento è solo quella «diretta» e si ignora che la fame è una delle più intense forme di violenza «strutturale», le cui vittime superano di gran lunga quelle di tutte le forme di violenza diretta, sia interpersonale sia delle guerre.

L’invito quindi, rivolto ai vari autori e collaboratori della Caritas Italiana e degli altri Enti che collaborano a questi meritevoli studi è quello di conoscere e approfondire il lavoro ormai pluridecennale svolto nell’ambito della ricerca per la pace, per rendere più incisiva ed efficace l’opera di denuncia delle «guerre» dimenticate.

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