Un nuovo ordine mondiale? L’ISIS e l’accordo Sykes-Picot – Richard Falk


Zone di spartizione dell’accordo Sykes-Picot

Zone di spartizione dell’accordo Sykes-Picot

Uno dei contributi apparentemente permanenti dell’Europa al modo di organizzare la società internazionale è consistito nel creare un forte consenso a sostegno dell’idea che solo uno stato sovrano territorialmente delimitato abbia titolo a tutti i privilegi di appartenervi. Le Nazioni Unite, l’incarnazione istituzionale della società internazionale, riconoscono questo principio limitando agli ‘stati’ l’appartenenza all’organizzazione. Naturalmente c’è un’enorme varietà di dimensioni, popolazione, potenziale militare, dotazione di risorse e autonomia di fatto tra gli stati. A un estremo ci sono stati giganteschi quali India e Cina con popolazioni che superano il miliardo, mentre all’altro ci sono paesi minuscoli come il Liechtenstein e Vanuatu che per la sicurezza dipendono prevalentemente dalla diplomazia e dalla politica, piuttosto che dalla forza degli armamenti e degli eserciti. Tutte e quattro queste entità politiche hanno lo stesso voto singolo quando si tratta di agire all’Assemblea Generale o come partecipanti a conferenze internazionali come il Vertice sul Cambiamento Climatico recentemente conclusosi a Parigi, anche se la geopolitica fa la parte del leone nel Consiglio di Sicurezza e nei corridoi fuori dalle sale dei convegni.

Dal punto di vista della legge internazionale e della teoria organizzativa agli inizi del ventunesimo secolo continuiamo a vivere in un ordine mondiale stato-centrico. Al tempo stesso il concetto giuridico dell’uguaglianza degli stati che è il fondamento del protocollo diplomatico non dovrebbe fuorviarci. La determinazione dell’ordine mondiale resta prevalentemente opera degli stati più potenti, che agiscono sulla base di calcoli geopolitici con il rispetto della legge internazionale e della morale esibito solo quando fa comodo. Tuttavia la monocultura politica degli stati territoriali rimane formalmente il fondamento esclusivo dell’ordine mondiale, ma la sua realtà politica è contestata in vari scenari e in nessun altro luogo più che in Medio Oriente.SyQuesto è un po’ sorprendente. Ce lo si sarebbe potuto attendere in decenni del passato, specialmente in Medio Oriente e nell’Africa sub-sahariana, dove gli ‘stati’ sono stati imposti arbitrariamente cento e più anni fa per soddisfare ambizioni coloniali e tenendo scarso o nessun conto dei desideri e delle identità di chi viveva in un particolare spazio geografico. Tuttavia senza eccezione movimenti nazionalisti e loro capi in tutto il mondo, sebbene consapevoli che le demarcazioni coloniali dei confini erano arbitrarie e sfruttatrici, perciò prive della legittimità di esperienza etnica, religiosa e storica, si sono tuttavia astenuti dal contestare l’idea che uno stato politicamente indipendente debba essere delimitato dagli stessi confini del precedente stato coloniale. Sembra che questa accettazione mondiale dello status quo territoriale rifletta due considerazioni diverse. Mettere in discussione i confini coloniali aprirebbe un pericoloso vaso di Pandora, pieno fino all’orlo di odiosi conflitti etnici e rivendicazioni territoriali contraddittorie. Oltre a ciò, conseguire il controllo di uno stato territoriale esistente è stato considerato dalla legge internazionale come la realizzazione appropriata di un popolo in cerca di liberazione mediante l’esercizio del proprio diritto all’autodeterminazione nazionale. Un simile risultato è stato sempre più sottoscritto come l’obiettivo corretto di movimenti nazionalisti in tutto il Sud globale, indipendentemente dal fatto che il sentimento ideologico di un dato movimento inclinasse a sinistra o a destra. Questa idea dell’autodeterminazione è stata sottoscritta anche dalle Nazioni Unite, in tal modo rovesciando la precedente accettazione del regime coloniale come coerente con la legge internazionale.

Naturalmente qui e là ci sono state alcune spigolosità e intense divisioni all’alba dell’era post-coloniale, ma sorprendentemente pochi di un carattere tale da produrre nuove delimitazioni del dominio territoriale. La Malesia si è divisa in Malesia e Singapore e, più considerevolmente, il Pakistan si è separato dall’India e poi il Bangladesh si è separato dal Pakistan in una lotta sanguinaria. Tuttavia in tutti questi casi il risultato della frammentazione politica è stato la creazione di uno stato sovrano territoriale coerente aggiuntivo che aveva un qualche genere di logica culturale, religiosa o storica. Restano diversi movimenti di liberazione nazionale repressi, più rimarchevolmente Palestina, Sahara Occidentale, Kashmir, Tibet, Cecenia, Kurdistan, cioè movimenti nazionali per creare stati indipendenti che sono rimasti sotto prolungata occupazione. E’ appropriato considerare questi popoli come residenti in “nazioni asservite”, trattenuti da strutture oppressive imposte dallo stato dominante. E’ presente un certo grado di ambiguità poiché il diritto all’autodeterminazione non può essere supposto validamente esercitato in qualsiasi modo che sfoci nella frammentazione di uno stato sovrano esistente. Per chiarimenti si veda la Risoluzione 2625 dell’Assemblea Generale dell’ONU sui Principi di Coesistenza Pacifica della Legge Internazionale, con particolare attenzione al commento inserito riguardo al principio dell’autodeterminazione. In pratica, tuttavia, quando la frammentazione è il risultato di movimenti di secessione vincenti, le nuove entità politiche sono accettate come ‘stati’ ai fini dell’appartenenza alla società internazionale. La dissoluzione della Jugoslavia nelle sue parti componenti illustra la subordinazione del principio legale dell’unità dello stato alle realtà politiche della frammentazione.

Non è parso esserci altro concetto di comunità politica sovrana che abbia contrastato l’idea europea dello stato così come si è evoluta dalla Pace di Westfalia (1648). Di nuovo, ci sono alcune eccezioni ininfluenti. Il Vaticano, pur essendo una comunità essenzialmente religiosa, è riconosciuto a certi fini come stato, anche se gli è negata la piena appartenenza all’ONU. Più di recente, come risultato di decenni di frustrazione, la Palestina è riuscita a essere accettata dall’Assemblea Generale dell’ONU come stato osservatore non membro, ma senza alcun diritto di voto o di partecipazione come membro ai dibattiti dell’Assemblea Generale o del Consiglio di Sicurezza. La Palestina, come una specie di “stato fantasma”, è accettata come membro dall’UNESCO, come parte statale presso la Corte Penale Internazionale, e le è persino consentito di far sventolare la propria bandiera nazionale all’esterno della direzione generale dell’ONU.

Forse la sfida formale più fondamentale a un ordine mondiale puramente statale è sorta con l’emergere dell’Unione Europea. La UE rappresenta in effetti gli interessi dei suoi 25 stati membri a molti fini, tra cui presso alcune conferenze internazionali. E tuttavia alla UE non è stata concessa appartenenza o un voto indipendente all’ONU, né ci sono state obiezioni all’appartenenza permanente sia del Regno Unito sia della Francia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Nonostante recenti tensioni associate alla politica di bilancio, all’antiterrorismo e reazioni statali ai flussi di profughi, la UE conserva la possibilità di evolvere a un certo punto in un qualche nuovo genere di sistema di governo post-Westfalia che rappresenta i propri membri in una varietà di sedi globali e in tal modo contrasta i principi fondativi dell’ordine mondiale stato-centrico. Giusto ora la Commissione Europea ha promulgato nuove norme che irrigidiscono il controllo ai confini europei in un modo che dà precedenza al controllo confinario nazionale rispetto alle tradizioni della Pace di Westfalia.

Attualmente più complessa è l’origine meta-territoriale degli Stati Uniti, con la loro vasta rete di basi all’estero, la loro potenza navale e spaziale in grado di colpire qualsiasi punto del pianeta, e la sua rivendicazione di ‘presenza’ in tutte le regioni del mondo. Gli Stati Uniti sono il primo ‘stato globale’ della storia mondiale, con la loro sovranità territoriale unicamente come base psicofisica della loro portata non territoriale globale. Non si tratta di un impero così come il termine era inteso sulla base di un controllo pubblico e formale, tuttavia sono lungi dall’essere uno stato normale che generalmente confina le proprie operazioni di sicurezza e le proprie rivendicazioni diplomatiche entro i propri confini territoriali, se non si trova coinvolto in una guerra distante.

Tentativi sporadici di dotare la società civile di uno status internazionale non hanno trovato seguito politico nonostante il diffuso sostegno per la creazione di un “parlamento globale di popoli” sul modello del Parlamento Europeo. Il sostegno populista a un qualche genere di ruolo politico per la società civile a livello globale ha trovato l’opposizione automatica dei governi e delle istituzioni internazionali opposte a qualsiasi indebolimento del paradigma di Westfalia.

II.

E’ su questo sfondo statista che alcune recenti pratiche islamiche riguardo alla comunità politica e all’ordine mondiale sono innovative e provocatorie. Nello spiegare il processo rivoluzionario in corso in Iran nel 1978-79 l’ayatollah Khomeini insistette che ciò che stava accadendo in Iran andava trattato come una ‘Rivoluzione Islamica’ e non come una ‘Rivoluzione Iraniana’. Ciò che veniva affermato era che la comunità più rilevante era la umma mussulmana, che non ha trovato attuazione in tempi recenti ma merita la principale lealtà e adesione dei credenti, quale che sia la loro residenza in spazi nazionali. Una visione simile è stata articolata più aggressivamente nella dichiarazione di Osama Bin Laden la cui visione del mondo era islamica, trascendendo le realtà laiche di stato e nazionalismo, ed esprimendo quella che potrebbe essere descritta come una visione del mondo islamica cosmopolita.

La sfida più considerevole di tutte allo stato-centrismo è stata montata dall’ISIS e specialmente dalla sua proclamazione di un nuovo califfato in Medio Oriente, i cui contorni sono stati basati sui modelli di governo territoriale di fatto in Siria e Iraq, anziché sui confini degli stati sovrani esistenti. I capi dell’ISIS si sono anche vantati della “fine del Sykes-Picot”, l’accordo anglo-francese del 1916, in origine segreto, che condusse alla creazione del Medio Oriente statista moderno nei territori in precedenza amministrati dall’Impero Ottomano. E’ stata questa visione colonialista Sykes-Picot che ha minato con successo la promozione post-coloniale da parte di Woodrow Wilson dell’autodeterminazione come base organizzativa per delimitare il Medio Oriente dopo la prima guerra mondiale. Sinora l’ISIS ha attuato la sua rivendicazione di governare l’area che controlla mediante la legge della sharia applicata in termini rigidi ed è così riuscito a sconfiggere l’autorità territoriale sovrana sia della Siria sia dell’Iraq. L’ISIS è a volte descritto come un “quasi-stato”, a causa del suo controllo territoriale ma dell’assenza di legittimazione diplomatica internazionale, e forse perché la sua durata non si è consolidata per un arco di tempo sufficiente.

Ci sono almeno tre elementi di questo modello non statale di controllo che meritano attenzione. Innanzitutto l’ISIS sembra non avere alcun obiettivo attuale o in prospettiva di essere internazionalmente accettato come stato o di essere trattato come veicolo di autodeterminazione per i siriani e gli iracheni che vivono sotto la sua autorità. L’ISIS affida la sua autorità di governo esclusivamente a una rivendicazione settaria sunnita di applicare la sharia a quelli che vivono sotto la sua autorità. In secondo luogo, screditando gli stati Sykes-Picot imposti nella regione dopo la prima guerra mondiale, l’ISIS sta rivendicando per sé una legittimazione politica superiore rispetto a quella conferita da procedure diplomatiche internazionali o mediante ammissione alle Nazioni Unite, e tale rivendicazione ha una certa eco tra quelli che vivono sotto il suo dominio. In terzo luogo segmenti significativi della popolazione sunnita che è la presenza dominante nel ‘califfato’ hanno accolto l’ISIS, almeno inizialmente, come forza di liberazione che liberava la popolazione dall’oppressione e dalla discriminazione sciita e offriva più efficacemente servizi sociali a livello della base.

In effetti l’ISIS ha efficacemente, anche se aspramente, sollevato questioni sulla legittimità politica di stati imposti dall’autorità coloniale e accettati dai movimenti indigeni nazionalisti nel processo del conseguimento dell’indipendenza politica. Questa contestazione dello statismo europeo in Medio Oriente sarà probabilmente più duratura dello stesso ISIS. Da un punto di vista etnico i movimenti curdi in Iraq, Turchia e Siria, che non hanno mai accettato i confini Sykes-Picot, stanno oggi costituendo nuove comunità politiche delimitate etnicamente che in Iraq e Siria possiedono gli attributi di stati de facto. Come nel caso dell’ISIS, queste entità emergenti sono definite quasi-stati o stati all’interno di stati. In altre parole siamo così intrappolati nel linguaggio statista che dobbiamo collegare in modo fuorviante queste realtà politiche innovative alla cornice statista.

In questa prospettiva val la pena di notare la doppia proposta dell’ex ambasciatore neocon statunitense presso l’ONU, John Bolton, (vedasi “To Defeat ISIS, Create a Sunni State” [Per sconfiggere l’ISIS si crei uno stato sunnita], NY Times, 24 novembre 2015). Da risoluto interventista Bolton vuole che l’occidente faccia del proprio meglio per distruggere il califfato dell’ISIS, ma accoppia questa iniziativa militarista con l’affermazione piuttosto sorprendente che Iraq e Siria hanno perso la loro titolarità di stati per reclamare quei territori. Invece “Washington dovrebbe riconoscere la nuova geopolitica. La migliore alternativa allo Stato Islamico nella Siria nord-orientale e nell’Iraq occidentale è un nuovo stato sunnita indipendente”. Come ci si poteva aspettare, la logica di Bolton è del tutto neocolonialista nella concezione e nell’attuazione, proposta da un addetto ai lavori di Washington, progettata per tenere fuori Mosca, per ripristinare l’influenza statunitense nella regione e per appoggiare indirettamente gli obiettivi anti sciiti delle monarchie del Golfo. In altri termini, ciò che Bolton favorisce è lontano dalla logica di Westfalia e dalla pratica dell’autodeterminazione.

E’ vero: lo stato sunnita di Bolton è una costruzione politica imposta dall’esterno che ci si attende sia accettata come stato tradizionale con autorità limitata ai suoi confini internazionali. Per contro il califfato dell’ISIS rivendica autorità basata sulla sua interpretazione salafita estrema dell’Islam, e mentre mantiene e difende il territorio sotto il suo controllo, la sua pretesa comunità di aderenti non è geografica e non si applicano concetti di cittadinanza e nazionalità. E’ suggestivo che persino Bolton si opponga a un approccio statunitense basato sullo “sforzo di ricreare la mappa successiva alla prima guerra mondiale”. Ciò che rende interessante la proposta di Bolton è solo che essa involontariamente conferma la sfida dell’ISIS alla legittimità di come l’Europa costruì il Medio Oriente post-ottomano nell’atmosfera colonialista che restava dominante dopo la prima guerra mondiale.

III.

Pare evidente, quando si consideri la complessità del mondo come funziona oggi, che il modello dello stato-centrismo di Westfalia non è più descrittivo, se mai lo è stato. Tener conto dello stato globale USA, della UE e dell’ISIS richiede una cornice di concetti, politiche e prassi più ibrida che sia anche più sensibile ai collegamenti multilivello dell’autorità e del potere, nonché degli elaborati schemi di reti transnazionali e sistemi localizzati di controllo che producono le complesse strutture di amministrazione che garantiscono ordine e stabilità quotidiana alle persone. Un’indagine più completa di queste diverse strutture organizzative richiederebbe anche di incorporarvi in ruolo delle imprese e delle istituzioni finanziarie transnazionali che creano le realtà operative e sfruttatrici della globalizzazione neoliberista.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/a-new-world-order-isis-and-the-sykes-picot-backlash/

Originale: RichardFalk.com

traduzione di Giuseppe Volpe, 19 dicembre 2015

http://znetitaly.altervista.org/art/19056

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