Mine antiuomo: la vergogna che uccide ancora – Francesco Palmas

 


mineantiuomoMDF98112_2_48631906_300Non basta il trattato che le ha messe al bando

Uccidono. E quando non lo fanno, straziano corpi e anime. Invalidano per sempre, con costi enormi anche per la collettività. Le avevano proibite a Ottawa, nel lontano 1999. Ma le mine antiuomo continuano a mietere vittime innocenti. Perché sono l’arma più «abominevole e barbara mai concepita». Lo diceva già Kofi Annan. Tempo addietro si era accesa una fiammella di speranza. Morti e feriti sembravano in calo. E l’obiettivo di un mondo libero dalle mine nel 2025 non pareva così irraggiungibile. Ma i dati non mentono mai. Quando fu firmato il trattato in Canada, si contavano ancora 9mila vittime l’anno. L’interdizione e gli sforzi degli operatori di pace stavano garantendo ottimi risultati. Così fino al 2013. Ma da allora in poi il trend si è purtroppo invertito. Le vittime hanno ripreso a crescere, con un’iperbole nel 2014. Morti e feriti sono aumentati del 12%. Un dato ‘inquietante’, forse il più tragico del rapporto 2015 dell’Osservatorio sulle mine. Gli esperti che l’hanno redatto appartengono all’organizzazione non governativa Norwegian People’s Aid, un gigante mondiale della bonifica umanitaria, insieme ad Halo Trust e al Mines Advisory Group (MAG). Dalle 300 pagine del rapporto, emerge una mappa dai confini precisi. Vi spiccano dieci paesi, i più pericolosi e mortali a livello mondiale. Sono le macro-tessere di un mosaico infernale, intessuto di crisi e guerre, alcune semi-permanenti, altre dimenticate.

L’Afghanistan ha il triste primato. Le mine colpiscono qui più che altrove. Seguono la Colombia, l’Angola, la Bosnia, l’ex-Birmania, il Pakistan tribale, la Siria tragica, la Cambogia senza volto e il Mali del jihadismo rinascente. Molte delle campagne cambogiane sono tuttora minate. I contadini non possono tornare alle terre. Coltivarle è impossibile. «Troppo pericoloso», dicono gli esperti. Le mine le infestano. Sono un dramma umanitario che persiste, lontano dalle guerre, a decenni di distanza. Rallentano il ritorno dei profughi e degli sfollati. Distruggono le attività economiche. Ce ne sono nel mondo almeno 100 milioni. Pensate: dal 1945 sono state inventate 600 tipologie di mine terrestri. L’Italia era un grande produttore. Oggi non più, fortunatamente. Le sue mine ad ‘azione estesa’ hanno segnato una triste pagina dell’industria nazionale: le valmara-59 e le valmara-69 sono state utilizzate copiose dagli iracheni, per minare il deserto del Kuwait. Erano gli anni della prima guerra del Golfo. C’è un bellissimo libro di Gino Strada, che andrebbe letto e diffuso, per non dimenticare. Pappagalli Verdi racconta delle nostre mine antiuomo, impiegate dai mujhaeddin afghani. L’Afghanistan è pieno zeppo di mine: una, tremenda, è la sovietica Pfm-1. Ne avrete sentito già parlare: si chiama anche ‘mina a farfalla’, per la forma caratteristica, molto attraente per i bambini che la scambiano per un giocattolo. È stata prodotta nelle varie sfumature di marrone, verde e bianco.

Follie della guerra. Armi terribilmente semplici, fabbricate con pochi materiali: un involucro, una carica esplosiva e un congegno di accensione. È sufficiente una minima dimestichezza nell’uso degli esplosivi. Il web fornisce perfino manuali per realizzare ordigni anti-uomo, tanto rudimentali quanto esiziali. Tutti dal costo infimo. Il prezzo è garanzia di proliferazione: 3 dollari per le mine meno sofisticate e 10-15 per le più dirompenti. Molte componenti si trovano sul mercato civile. Altrimenti c’è il mercato nero delle armi, dove imperano le mine cinesi ed ex-sovietiche. Le più diffuse appartengono alla famiglia Mrud o Mon-50, copiate dalla statunitense M-18 Claymore. Costruite nei Paesi del blocco comunista, sono state impiegate massicciamente in tutto il mondo. Ne vengono continuamente rinvenute in Afghanistan, Bosnia, Croazia e Kosovo. Alcune varianti uccidono nel raggio di 200 metri, investendo chiunque vi si aggiri. Sono sistemi micidiali, dalla letalità intrinseca e permanente. Hanno una longevità di decine di anni. Bonificarle costa. Chiede un’infinità di tempo, perché le tecnologie laser e nucleari non sono ancora del tutto mature. Guerriglieri e produttori ci hanno messo del loro. Usano involucri sofisticati. Gli ordigni sono diventati impermeabili agli agenti atmosferici e semi-invisibili agli strumenti elettronici di ricerca. Non esistono più i contenitori di legno e di ferro, come ai tempi della Seconda guerra mondiale.

La tecnologia delle mine si è evoluta. La bachelite ha ceduto il posto alla resina sintetica, non aggredibile dai componenti chimici del terreno e sfuggente agli occhi elettronici degli sminatori. Quando va bene, si riesce a bonificare non più di 15-20 metri quadrati al giorno. E i costi lievitano: per ogni euro speso in un campo minato ne occorrono 20 volte tanto nell’opera di sminamento. Il trattato di Ottawa è la nostra unica speranza. Oltre 160 paesi l’hanno ratificato. Ma è monco. Mancano all’appello i grandi produttori di mine: Cina, Russia, Stati Uniti, Israele e le Coree. Il dipartimento di Stato, a Washington, assicura di aderire dall’anno scorso allo ‘spirito e agli obiettivi umanitari’ della convenzione. Garantisce che non userà mai più le mine antiuomo. Non lo fa dal 1991, con un’eccezione nell’Afghanistan del 2002. E allora perché non ratifica ancora? Ovvio: deve alimentare i campi minati della penisola coreana, per scongiurare un’invasione terrestre dal nord, come nel 1950. Di mine si muore e si pena ancora in 63 paesi (compresi quattro territori). Ucraina e Oman hanno allungato il tragico elenco, proprio quest’anno. Si muore di mine nel Donbass, nonostante la tregua. Sorte simile tocca al disperato popolo saharawi, dai più dimenticato. L’India, la Birmania e il Pakistan ne fabbricano a iosa. I confini ne sono disseminati. E non ci sono dati certi sui conflitti in Libia, Mali, Yemen, Siria e Iraq. Daesh usa mine ed esplosivi tanto negli assedi offensivi, quanto nelle fortificazioni difensive. «Quel che abbiamo visto a Kobane, supera di gran lunga i nostri peggiori incubi», racconta un operatore di Handicap International. «L’80% della città è in rovina e ci sono obici inesplosi ovunque». Le mine non fanno notizia, ma hanno ucciso e mutilato 100mila individui negli ultimi 15 anni; 3.679 nel solo 2014.

Milleduecentoquarantatré sono i morti dell’anno scorso. Gli altri sono feriti. Di una guerra insensata. Quando esplode, una mina scatena un’onda d’urto di seimila metri al secondo. Tutto intorno la temperatura schizza fino a 4mila gradi. Il rumore è assordante, intollerabile per l’orecchio umano. Il piede investito dall’esplosione si sbriciola, insieme alle ossa della gamba. Le schegge colpiscono il resto del corpo, deturpando perfino il volto e gli occhi. Mutilano e causano emorragie. Fanno più di 10 vittime al giorno, in massima parte civili (80%) e bambini (39%). E c’è un grido d’allarme. Guerriglieri e jihadisti stanno facendo un uso sempre più massiccio di ordigni esplosivi artigianali: i famigerati Ied, assimilabili in tutto alle mine antiuomo, come le bombe cluster. Dal 1965 ad oggi sono state usate 460 milioni di sub-munizioni. Ne persistono inesplose 132 milioni, sparse qua e là, come una spada di Damocle sulle generazioni future. Individuarle è estremamente complicato, anche per il personale esperto. I più ottimisti prevedono decenni di lavoro. Forse ci vorrà anche di più. Ma non bisogna perdere la speranza. Lo insegna il Mozambico, che si è dichiarato libero dalle mine e dagli ordigni inesplosi il 17 settembre scorso. Ripartiamo da qui.

4 dicembre 2015

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