Il clima con occhi diversi

Elena Camino

Guerra alla Terra. Quando vedrete il prossimo film di guerra, provate a guardarlo da un punto di vista diverso: quello di un fringuello, di una salamandra, di una talpa, di un ciliegio, se la battaglia si svolge in Europa; oppure, se lo scenario è tropicale (magari il Vietnam), immaginate di essere una scimmia, un coccodrillo, un boschetto di mangrovie. Tutte le creature che popolano i campi di battaglia sono colpite, come e più delle persone, dalla furia della guerra. Milioni di creature innocenti perdono la vita quando gli umani si fanno la guerra. E quando gli scontri finiscono, e torna (almeno in apparenza) la pace, ancora a lungo gli ecosistemi soffrono: gli habitat di molti animali sono sconvolti, i veleni rilasciati durante i combattimenti percolano nelle falde, il suolo crivellato di esplosioni perde la sua fertilità.

Di queste creature non si parlerà nella prossima (XXI) Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) che si terrà a Parigi dal 30 novembre al 11 dicembre del 2015.

Si parlerà di ‘squilibri ambientali’, si discuterà sulle strategie da mettere in atto per ridurre la produzione di gas a effetto serra… ma non mi sembra che il tema della guerra sia tra le priorità. Eppure la guerra, sia nelle fasi di preparazione che nei momenti di violenza esplosiva, è forse la maggiore produttrice di sostanze climalteranti.

Militari climalteranti

Sara Flaunders, in un articolo del 2009, sosteneva che “il Pentagono è il maggior consumatore istituzionale di prodotti petroliferi e di energia in generale. Ma il Pentagono gode di una implicita esenzione in tutti gli accordi internazionali sul clima”.

H. Patricia Hynes, una studiosa che si è occupata di salute ambientale alla Boston University School of Public Health, ha pubblicato alcuni anni fa una serie di articoli dal titolo ‘Pentagon pollution’: nel n.ro 7 di questa serie (pubblicato nel 2011) che riguarda l’assalto militare al clima globale, l’Autrice segnala il ruolo preminente delle attività militari americane nel produrre sostanze climalteranti.

Adam J. Liska e Richard K. Perrin hanno pubblicato sulla rivista Environment (luglio-agosto 2011) un articolo dal titolo “Garantirsi il petrolio straniero: includere le attività operative militari nello studio dell’impatto dei combustibili fossili nei cambiamenti climatici”.

Un recente numero della rivista “Peace studies journal” (Vol. 8, issue 1, october 2015) è dedicato espressamente al tema degli impatti ambientali delle guerre. Traduco alcune frasi dell’Introduzione, scritte dall’Autore che ha curato questo volume, Joel T. Helfrish. “Mentre scrivo le isole di Pagan e Tinian nel Pacifico sono minacciate dai corsi di addestramento dei militari USA, per imparare a svolgere azioni con fuoco e bombe. Sono minacciate la barriera corallina e le altre forme di vita acquatica, sono a rischio di estinzione specie endemiche, sono sotto tiro antiche meraviglie geologiche e le acque profonde, ancora in parte inesplorate. Sono minacciati luoghi storici e spiagge incontaminate, e i residenti dell’Arcipelago delle Isole Marianne.

[…] Sebbene i Comandi Militari degli Stati Uniti sappiano da tempo che il cambiamento climatico è una minaccia ancora più grave del terrorismo, continuano a svolgere le loro attività come al solito – occupando luoghi da cui poi non si ritirano più, in cui distruggono terre e habitat critici, e utilizzano sempre più risorse per farlo. Insediata ormai su più di 800 basi in tutto il mondo, con i suoi test e l’uso di animali, con i suoi consumi di carburanti fossili e la costruzione di armi, la potenza militare USA distrugge l’ambiente, mentre vomita gas climalteranti e altre sostanze che provocano letali inquinamenti”.

Più difficile trovare dati sugli effetti ambientali delle attività militari della Russia, e in generale degli altri Paesi impegnati nelle forme di difesa militare e armata. La stessa Italia è stata di recente impegnata nelle esercitazioni della NATO: tra ottobre e novembre 2015 si è svolta in Italia, Spagna e Portogallo, dopo due anni di preparazione, la Trident Juncture 2015 (TJ15), una delle più grandi esercitazioni Nato. Vi hanno partecipato oltre 230 unità terrestri, aeree e navali e forze per le operazioni speciali di 28 paesi alleati e 7 partner, con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra, anzitutto cacciabombardieri a duplice capacità convenzionale e nucleare (Di Franceso e Dinucci). Quante emissioni climalteranti sono state prodotte in queste esercitazioni? E nelle attività che le hanno rese possibili, cioè la costruzione di armi, la formazione dei militari, l’uso di suolo, acqua e aria per le esercitazioni?

A Parigi bisogna parlare di disarmo e di nonviolenza

Tamara Lorinz è l’autrice di un Report pubblicato nel settembre 2014 dall’ International Peace Bureau dal titolo: “Demilitarizzazione per una radicale decarbonizzazione. Ridurre il militarismo e le spese militari per investire nel Green Climate Fund delle Nazioni Unite e per creare economie a basso carbonio e comunità resilienti”.

Come sottolinea l’Autrice, la comunità internazionale si è dichiarata impegnata a dare sicurezza energetica a tutti: occorre quindi che ci sia un’equa distribuzione del ‘budget’ limitato di carbonio di cui si consente l’utilizzo (nella prospettiva di ridurre l’effetto serra). Di fronte a queste limitazioni, non è forse irresponsabile – si chiede la Lorinz – usarlo per i serbatoi dei carri armati e degli aerei da guerra, invece che per favorire la transizione a una economia a basso carbonio?

Non è possibile – questa è la sua tesi – ridurre le emissioni di gas a effetto serra se non attraverso processi che includono pace e disarmo. Nella parte finale di un capitolo del Report che ha per titolo “Pace e disarmo, vie per una profonda decarbonizzazione”, Tamara Lorinz si sofferma su alcuni aspetti specifici, tra cui:
Occorre rifiutare la militarizzazione della crisi climatica: lo scopo dei militari è fare la guerra, non offrire aiuti umanitari. Non ci sono soluzioni militari alle crisi ambientali.
Bisogna ridurre drasticamente le spese militari, per investire invece in attività volte a mitigare i cambiamenti. In particolare occorre colmare il vuoto di informazione sugli impatti ambientali dei sistemi militari: è necessario che gruppi di ricerca indipendenti possano avere accesso ai dati e calcolare i consumi di carburanti, le emissioni di gas serra e gli impatti ambientali di tutti i Paesi impegnati in attività militari.

Da molti anni sono disponibili studi e progetti di conversione economica da attività militari a impieghi civili. Con il sopraggiungere della crisi climatica, un piano di conversione da una economia di guerra a un’economia di pace soddisferebbe contemporaneamente le esigenze di pace e di equilibrio ecologico.

Infine, l’ultimo punto che Tamara Lorinz richiama è l’opportunità e la possibilità di “integrare cooperazione, costruzione di pace e nonviolenza per costruire comunità resilienti ai cambiamenti climatici”. L’Autrice cita alcuni documenti in cui vengono suggerite modalità nonviolente per affrontare in modo cooperativo – anziché competitivo e violento – gli inevitabili conflitti prodotti dai cambiamenti ambientali. Ma fa notare che, salvo poche eccezioni, la maggior parte di questi documenti non chiama in causa la guerra e il disarmo. Occorre invece impegnarsi affinché vengano portate alla luce le connessioni tra sistemi militari e crisi climatica. Solo così si potranno affrontare alla radice i problemi che nascono da una appropriazione violenta e ingiusta delle risorse naturali.

Il ruolo dell’educazione

Nel numero speciale del Peace Studies Journal (già citato all’inizio) un articolo finale di Tom H. Hasting ha per titolo “Insegnare ecologia della guerra e della pace: un riassunto”. L’ Autore racconta della propria esperienza personale, e del Corso che egli ha iniziato a tenere ai suoi studenti fin dal 1997. Il Corso è organizzato in quattro sezioni: (a) gli impatti ambientali della guerra; (b) gli impatti ambientali della preparazione alla guerra; (c) le risorse naturali come ‘drivers’ (motori, pretesti) per la guerra; (d) come potrebbe realizzarsi un sistema di pace: un sistema che – secondo le parole di Gandhi (che l’autore cita espressamente) – soddisfi le necessità di tutti e non l’avidità di pochi.

A conclusione del suo articolo Tom Hasting fa notare che per 11.000 anni abbiamo studiato la guerra, ma solo da pochi decenni si stanno approfondendo gli ambiti di ricerca sulla pace e sui conflitti. Trent’anni fa erano pochissimi i corsi universitari sui temi dei conflitti e della pace, ora sono alcune centinaia. L’Autore prevede che – grazie all’introduzione di queste tematiche nei sistemi educativi – sia possibile un cambiamento dei ‘venti politici’, in grado di portare a nuove scelte e a nuove leggi.

Per gli insegnanti interessati segnalo che disponibile su richiesta un ipertesto dal titolo Una matassa da sbrogliare: violenza, ambiente, guerra. La nonviolenza per trovare il bandolo, che offre spunti di riflessione e proposte di percorsi educativi da realizzare con gli studenti.

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