18. Dalla Resistenza alla nonviolenza – Pietro Polito

Il luogo in cui questa rubrica esce e il suo sottotitolo, Note di critica nonviolenta, sono una dichiarazione inequivoca che il filo conduttore degli articoli fin qui pubblicati e di quelli che seguiranno è la nonviolenza. Lo sguardo è quello della nonviolenza, certo la nonviolenza intesa né acriticamente né fideisticamente, in una battuta, per chi scrive, la nonviolenza alla maniera di Aldo Capitini.

Aldo_Capitini

Capitini è stato un protagonista degli anni della prova, ma non della prova decisiva. Fondatore con Guido Calogero del liberalsocialismo, egli è stato attivo nell’antifascismo, tanto da subire un primo arresto il 5 febbraio 1942, rimanendo in carcere alle Murate di Firenze fino al 4 giugno, e un secondo il 23 maggio 1943, detenuto questa volta nel carcere di Perugia fino al 25 luglio. Come è noto le strade di Calogero e Capitini si dividono di fronte al Partito d’Azione. Quando il 3 settembre 1943 il movimento liberalsocialista confluisce nel nuovo Partito, l’uno sceglie il “partito”, l’altro il “movimento”.

Sia nello stile sia nell’argomentazione, come nell’impianto filosofico, il liberalsocialismo di Calogero non va confuso con quello di Capitini: l’uno è un “orientamento giuridico”, l’altro “orientamento social-religioso” (la distinzione è di Capitini). Al riguardo giova richiamare la ragione fondamentale che trattiene Capitini dall’adesione al PdA,: “E’ da insistere su questo carattere del movimento, di essere non un partito e un programma esclusivo, ma un atteggiamento dell’animo, un aprirsi in una direzione, una certezza e una speranza sempre rinnovantisi”.

Una certezza e una speranza che ai suoi occhi non possono rinchiudersi nei limiti angusti della politica dei partiti: dal punto di vista religioso, “il nuovo non sta in un nuovo partito ma in un orientamento della coscienza”. Rispetto ai compagni che scelgono la via della politica e più tardi sceglieranno la via delle armi, intende affermare le ragioni concrete di una nuova vita religiosa.

In Antifascismo tra i giovani (1966) ricorda come abbia trascorso il periodo dal settembre ’43 al giugno ’44 lontano da Perugia, in campagna, spostandosi da un rifugio all’altro per non recare pericolo a chi lo ospitava. Egli distingue la sua “posizione di religioso nonviolento” dall’”impeto politico derivante dalla Resistenza armata”

Egli non segue neppure la scelta del partigiano nonviolento Antonio Giuriolo, un combattente per necessità, un partigiano per convinzione, che ispirandosi, sulle orme di Capitini, all’etica della nonviolenza, partecipò alla lotta senza mai sparare un colpo di fucile, morendo il 12 dicembre 1944, mentre prestava soccorso ad alcuni compagni feriti.

Diverso fu l’atteggiamento di Capitini che egli stesso riassume ancora in Antifascismo tra i giovani: “Chiarita la mia posizione con gli amici liberalsocialisti […] rivendicata la mia assoluta indipendenza, vedevo affluire più rigorosa la mia ispirazione religiosa”.

Nell’ora della prova decisiva sceglie di non prendere parte alla prova, per il dissenso sul metodo di lotta: né ostacolò né incoraggiò la lotta armata. Sul significato di questa scelta e sui problemi e dilemmi morali e politici ad essa connessi tornerò più avanti. Prima giova richiamare le linee generali dell’interpretazione capitiniana della Resistenza.

In uno scritto inedito, La Resistenza italiana (1955), Capitini propone una nozione più larga di Resistenza che include l’opposizione al fascismo: “Parlare della Resistenza italiana – scrive – non sarebbe completo né esatto, se non si estendesse il termine a comprendere non soltanto la Resistenza armata dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45, ma anche la resistenza politica, morale, ideologica, che fu dal 3 gennaio 1925”.

Sempre nel 1955, nello scritto autobiografico, intitolato Sull’antifascismo dal ’31 al ’43, ritorna lo stesso concetto. Il periodo della Resistenza armata – osserva Capitini – non esaurisce la Resistenza, in quanto essa è stata “qualche cosa di più complesso di un’azione armata; ed anche qualche cosa di più durevole della fine pura e semplice di quel regime”. E in un altro scritto del 1967, Aspetti dell’opposizione etico-culturale al fascismo, leggiamo: “L’opposizione non è che la lunga premessa morale, culturale e politica di quella che poi è stata detta «Resistenza» e che ne è l’esecuzione, per così dire, armata”.

Si tratta di intuizioni, a lungo trascurate dalla storiografia, che in anni più recenti hanno avuto corso tra gli studiosi capitiniani e non solo. Per esempio, in una delle numerose biografie intellettuali a lui dedicate si può leggere: “La Resistenza è stata prevalentemente movimento spontaneo ed essenzialmente non-armato di autodifesa popolare di fronte alla guerra, all’occupazione tedesca, alle rappresaglie dei nazisti. A un’osservazione attenta il conflitto armato appare come secondario rispetto alla forza della solidarietà popolare che è l’elemento davvero decisivo e vincente di quella lotta” (R. Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2003, p. 49).

E’ auspicabile che la storiografia continui ad interrogarsi sul ruolo della nonviolenza nelle situazioni di violenza diffusa e di estesa militarizzazione della società. E il peso che la violenza e la nonviolenza hanno avuto nella Resistenza è un tema che non ha cessato di interrogarci.

Come ha scritto Matteo Soccio, “quella di Capitini non è la posizione disonorevole di chi ha abbandonato la lotta per mettere al sicuro se stesso, ma la sofferta constatazione di chi è stato già sconfitto dalle scelte degli altri e dagli eventi” (Capitini e il fascismo, in “Critica Liberale”, nn. 22-23, maggio-agosto 1983, p. 52).

Per capire il dilemma tragico in cui si viene a trovare Capitini, bisogna interrogarsi sul senso ultimo della vicenda storica negli anni tra il 1931 e il 1943. Di fronte alla Resistenza, egli si pone come l’assertore di un’altra via: “Non volevo né criticare ciò che altri avevano fatto con tanto coraggio ed eroismo, né perdere quella doverosa affermazione che mi toccava, di un metodo diverso, del sogno che gli italiani si liberassero da sé del fascismo con un’eroica non collaborazione e disobbedienza civile”. Aggiunge in Note di antifascismo nazionale e perugino: “I miei amici sanno che il mio pensiero e il mio sogno era che in Italia sorgesse una noncollaborazione generale, coraggiosa, tenace, secondo il metodo di Gandhi, negando ogni appoggio al fascismo e ogni mezzo, ma senza torcere un capello a nessuno; e in poche settimane il regime avrebbe finito di funzionare, e non sarebbero venuti gli immensi disastri di poi” (in L’Umbria nella Resistenza, a cura di Sergio Bovini, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. I, p. 114.)

Dalla lezione del ’43 si può ricavare un grande problema che non è solo storiografico ma che ci porta sul terreno della filosofia della storia, nel senso che riguarda non solo la comprensione del passato ma getta sul futuro. Un problema che è il problema fondamentale del nostro tempo, e lo sarà per le prossime generazioni, che Capitini formula semplicemente con queste parole: “Così non era accaduto. Perché”.

Come ha osservato Jacques Semelin in un libro importante, Senz’armi di fronte a Hitler (Sonda, Torino 1993; ed. orig. 1989), il “Perché” sollevato da Capitini riflette “un interrogativo più profondo, di natura etica e strategica sulle capacità delle società di resistere senza armi ad una aggressione (occupazione militare o potere totalitario)”. E’ il grande tema della difesa popolare nonviolenta, già posto da Capitini e ora al centro della letteratura nonviolenta (Gene Sharp, Jean Marie Muller, Johann Galtung, Theodot Ebert, Giovanni Salio, Antonio L’Abate, Antonino. Drago).

Perché non è accaduto? Capitini sembra dare una risposta legata al contesto storico in cui si trovò ad operare il movimento di opposizione in Italia. Allora, “di contro alla violenza del fascismo”, prevalse la scelta di “una violenza che doveva servire semplicemente a liberare, e non ad opprimere”. Riferendosi a se stesso, ricorda che “ci fu anche chi intravide un ulteriore contesto, quello di una società che rifiuta di distruggere gli avversari, e si costruisce mediante il consenso e il dissenso, utilizzando anche le molteplici forme della non cooperazione e della disobbedienza civile, senza violenza”. Tuttavia riconosce che “l’idea che fosse possibile liberarsi dal fascismo in questa forma – senza violenza –, persistente ed eroica, dicendogli «no», stabilendo le più profonde solidarietà popolari, era assolutamente immatura, e soltanto ora, per la conoscenza ed esperienza delle grandi campagne nonviolente, si fa strada nel mondo”.

Tornando su quegli anni in Attraverso due terzi di secolo ricorda che il suo “proposito”, a partire dal 1931, era stato “da «profeta» e da «apostolo» religioso che l’Italia si liberasse dal fascismo mediante la non collaborazione nonviolenta” e individua l’ostacolo alla realizzazione di quel proposito “nella stretta collaborazione col fascismo della Chiesa romana, della Monarchia e dell’esercito, del Gentile e della maggioranza degli intellettuali”.

Ammette il fallimento: “Certo, io ero sconfitto. Ma soprattutto perché la mia attività non era stata capace di costituire «gruppi» di nonviolenti”. L’autocritica è senza veli, impietosa. Con gli amici animati da una persuasione nonviolenta nel momento pisano del ’31-’32, e con i pochi collaboratori negli anni successivi, per esempio, Alberto Apponi, e anche alcuni partigiani, Antonio Giuriolo e Riccardo Tenerini, – dice – “eravamo sparsi, e nulla sapemmo organizzare che fosse visibilmente coerente, efficiente e conseguente ad idee di nonviolenza”.

Dalla vicenda dell’antifascismo dal ’31 al ’43, Capitini ricava una lezione e una speranza. La lezione è che “bisogna preparare la strategia e i legami nonviolenti da prima, per metterla in atto quando occorre”. Solo in questo modo, in situazioni come l’Italia nel ’24 al tempo del delitto Matteotti o la Germania nel ’33, “una vasta e complessa azione dal basso di noncollaborazione nonviolenta sarebbe stata occasione di inceppamento e di caduta per i governi”.

La speranza è che “i giovani vedranno meglio il passaggio dalle rivendicazioni attuate con tutti i mezzi offerti dalla violenza, da cui risorgimenti e rivoluzioni negli ultimi secoli, alle lotte e liberazioni sociali internazionali, operate con il metodo della nonviolenza, una nuova vita religiosa”.

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