Il sudario di latta. Taccuini di guerra – Recensione di Nanni Salio

cop_Ugo Lucio Borga, Il sudario di latta.Ugo Lucio Borga, Il sudario di latta. Taccuini di guerra, Marcovalerio, Cercenasco (TO), pp. 261, € 20,00

Raccolta di taccuini e immagini di guerra che formano un «sudario», come quelli che avvolgono i cadaveri che vengono pietosamente raccolti, ricomposti e trasportati per l’ultimo addio.

Scrittura sintetica, fatta di appunti, impressioni, senza pretese di capire pienamente cosa sta succedendo, perché «sul terreno si ha sempre una visione molto ristretta e parziale degli avvenimenti. Ci si limita a osservare ciò che accade di fronte. In assenza d’informazioni più ampie la percezione della realtà è davvero molto limitata. L’esperienza diretta è utile solo se messa a confronto con dati e analisi di carattere più generale: non rappresenta che una piccola parte di un mosaico decisamente complesso». (p. 97)

Questa è una delle poche riflessioni che volutamente l’autore limita all’essenziale, per raccontare soprattutto le frenetiche incursioni nei teatri di guerra che sembrano assomigliarsi tutti quanti: Siria, Libano, Libia, Somalia. Incursioni che portano reporter e fotogiornalisti a contatto con la morte, che li espongono a pericoli difficili da valutare e prevedere.

Anche le fotografie, tutte in bianco nero, rendono l’idea di questa continua esposizione al pericolo. Difficile distinguerle per scenari e paesi in guerra, tanto sono ricorrenti e simili le situazioni che vengono documentate in maniera necessariamente frammentaria.

Una «confessione» (p. 104) su uno dei momenti più cruciali e pericolosi vissuti dall’autore lo porta a dire: «[…] frequentando con una certa assiduità zone di guerra si finisce per assuefarsi all’idea di uccidere o essere uccisi». Ma «non bisognerebbe mai arrivare al punto di accettare un rischio incalcolabile […] nessuna fotografia vale la vita di un essere umano».

Ma perché fotografare, che cosa si propone un fotoreporter?

Il dibattito sulle risposte date a queste, e altre, domande è in corso sin dagli albori del fotogiornalismo e oggi è ancora più acceso nell’ambito del “giornalismo di pace” (peace jourrnalism). Sebbene ogni operatore sia mosso da motivazioni personali profonde e diverse, può essere utile riportare alcune riflessioni.

Come ricorda Stuart Allen in un saggio su «Documentare la guerra, visualizzare la pace: verso una fotografia di pace» (in: Ibrahim Seaga Shaw, Jake Lynchand Robert A. Hackett (a cura di), Expanding peace journalism, Sydney University Press, Sydney 2011, pp. 147-167)

«i primi fotoreporter (alla fine del XIX secolo) pensavano che immagini di soprusi avrebbero spinto la gente all’azione. […] Le fotografie erano viste non come un’espressione di alienazione, ma come un intervento nel mondo. Questo è l’ideale della fotografia che vive ancora oggi. Ma come accade con molti ideali, l’esperienza lo ha castigato. Adesso sappiamo che immagini di sofferenza possono essere facilmente ignorate – o peggio ancora possono piacere. Adesso sappiamo che immagini di sofferenza possono dare inizio a connessioni umane – e soffocare fatali desideri di vendetta. Adesso conosciamo la differenza terribile tra vedere, preoccuparsi, capire e agire».

Sappiamo anche che esiste una vera e propria industria della manipolazione delle immagini, per suscitare consenso alle politiche decise dalle grandi potenze e dai poteri oligarchici che dominano il mondo.

Come tentare di superare questi dilemmi e quelli posti dal dilagare delle tecnologie visive che, almeno in linea di principio, dovrebbero permetterci di «vedere» quasi in tempo reale cosa succede in ogni angolo del mondo? Come agire per far fronte alle difficoltà che incontriamo nell’operare concretamente per modificare le situazioni di violenza e violazione dei più elementari diritti umani?

I lavori più significativi per rispondere a queste e altre domande simili provengono dagli studi che Johan Galtung ha avviato sin dagli anni 1960, culminati nel «giornalismo di pace», e di conseguenza anche nel fotogiornalismo di pace, contrapposti a quelli di guerra. Queste proposte si basano sull’analisi, la teoria e la pratica della trasformazione nonviolenta dei conflitti attraverso un processo di diagnosi, prognosi e terapia che mira a individuare soluzioni concrete, costruttive e creative.

È questo il passo ulteriore che giornalisti e fotoreporter debbono compiere nella loro formazione professionale per non limitarsi a registrare, seppure in forma la più obiettiva possibile, quanto avviene nelle aree di guerra. È un percorso di integrazione della normale formazione professionale che è stato avviato da autori come Jake Lynch e che in misura seppure ancora iniziale abbiamo proposto in qualche occasione presso il Centro Studi Sereno Regis, con la partecipazione di alcuni professionisti del settore, tra i quali lo stesso Ugo Borga. Ci auguriamo che lavori come questo da lui prodotto siano uno stimolo per continuare su questa strada.

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