Una notte partigiana – Pietro Polito

Un efficace giudizio riassuntivo sul Diario partigiano di Ada Gobetti si deve a Bianca Guidetti Serra, una delle sue amiche più care, di cui ricorre in questi giorni il primo anniversario della morte. Nella postazione alla edizione 1996, riproposta nel 2014, Bianca scrive che il Diario è “un libro nuovo per le nuove generazioni”, in cui l’autrice “ricompone, sia pure sommariamente un complesso fenomeno storico. Così il Diario supera il suo tempo per giungere come una vivificante testimonianza fino ad oggi”. La cifra del libro può essere individuata in “un nostalgico riandare al passato per i vecchi amici, collaboratori, compagni di avventure”.

Ada dedica i suoi ricordi “ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia – legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti – mi è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia. E forse lo è stato veramente. E soltanto se riusciremo a salvarla, a perfezionarla o a ricrearla al di sopra di tanti errori e di tanti smarrimenti, se riusciremo a capire che questa unità, questa amicizia non è stata e non deve essere solo un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma è un valore in se stessa, perché in essa forse è il senso dell’uomo – soltanto allora potremmo ripensare la nostro passato e rivedere il volto dei nostri amici, vivi e morti, senza malinconia e senza disperazione”.

Nella parte finale del libro il legame con gli amici traspare nella sua forza come un ponte tra il passato e il futuro. Alla data del 25 aprile 1945 Ada scrive queste parole: “Son corsa tutto il giorno come un’invasata, ma ho la sensazione – o l’illusione? – d’aver fatto tutto quel che dovevo. […] È strano, non mi sento minimamente eccitata: né ansia, né preoccupazione, né esaltazione: son straordinariamente lucida e tranquilla. Ma è proprio questa calma quasi incosciente il sintomo che segna per me l’avvicinarsi dei momenti più gravi”.

Successivamente in una decina di pagine posteriori di alcuni anni, datate 28 aprile 1949, ella descrive minutamente la mattina, il pomeriggio e la sera del 26 e del 27 aprile 1945, nonché la notte tra il 27 e il 28 aprile, il giorno della liberazione di Torino.

Una notte partigiana in cui non le riuscì di dormire.

Alla fine di una giornata lunghissima ella ripensa “a tutto quel che era accaduto”, ma pensa “soprattutto al domani”. Mentre lontano a momenti si avverte ancora il rumore delle armi, Ada sa che la guerra non è ancora finita e che i tedeschi possono rappresentare ancora un pericolo.

In quella notte partigiana non è però preoccupata dagli ultimi sussulti possibili della lotta in corso. La “lotta cruenta” è virtualmente terminata, il Reich è ormai allo sbando, gli alleati stanno per arrivare, il tempo dei bombardamenti, incendi, rastrellamenti, arresti, fucilazioni, impiccagioni, massacri, sta per finire.

E nemmeno è spaventata dalle enormi difficoltà che si sarebbero incontrate nella ricostruzione di un paese devastato dalla guerra.

Ciò che la turba è l’intuizione “che incominciava un’altra battaglia. Più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, facili da individuare e da odiare, ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, e contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire”.

Il nuovo nemico è l’interesse di parte, l’abitudine, il pregiudizio. Ed è un nemico da “combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare … rinnovarci tenendoci «vivi»”.

Ada teme che “nell’aria morta d’una normalità solo apparentemente riconquistata” si spenga “quella piccola fiamma di umanità solidale e fraterna” che ha sostenuto e guidato i partigiani per lunghi venti mesi. La “meravigliosa identità” di quei giorni è destinata a infrangersi, “gli amici, e i compagni di ieri sarebbero stati anche quelli di domani”, ma la lotta comune “non sarebbe stata un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico, immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi”.

Ricordando la notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, quattro anni dopo, il 28 aprile 1949, confessa: “tutto questo mi faceva paura. E a lungo in quella notte – che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo – mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che m’accingevo ad affrontare con trepidante umiltà”.

Ma Ada sa che ciascuno degli “amici vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola” si assumerà il proprio compito per “perseguire la propria luce e la propria via”.

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