Evangelizzare la morte – Recensione di Cinzia Picchioni

cop_Goffredo Boselli, Evangelizzare la morteGoffredo Boselli, Evangelizzare la morte, Edizioni Qiqajon, Bose 2012, pp. 88, € 8,00

La morte è di vitale importanza

Non lodatemi per il titolo, non è mio. Lo incontrai per la prima volta anni fa, seguendo i corsi di don Sergio Messina intitolati «Vivere il morire», che insegnavano l’accompagnamento ai morenti.

Il libercolo (solo perché è piccolino) che presentiamo questa settimana tratta invece dell’accompagnamento di chi è già morto. Scopriamo che la Chiesa ha un nuovo modo di farlo: dal 2011 esiste un «rito delle esequie» diverso da prima. E nel libro leggiamo che questa novità è importante e che proprio affinché non passi inosservata è stata pubblicata questa riflessione, scritta da un monaco di Bose e liturgista (leggiamo nella quarta di copertina).

Rito delle esequie per confessare la fede e umanizzare la morte dunque, compresa la parte più innovativa, un’«appendice» che riguarda la cremazione. Partirei proprio da qui – nel libro è in fondo – per dire che questo librino è un utile strumento per riflettere sia su come trattiamo la morte in generale (nelle nostre società), sia su come trattiamo la nostra propria morte. Che riguarda tutti e tutte noi (e che, anche solo per questo, meriterebbe, secondo me, un’attenzione maggiore e migliore). Questa attenzione è soddisfatta dal Boselli che, in poche pagine, ci conduce a un ragionamento (Come vorrei essere accompagnato nel mio «ultimo viaggio»? E la veglia, che posto ha? E la processione a piedi? Perché non si rispettano quasi più i tre giorni canonici prima di seppellire il corpo? Ecc.). Da tempo sto personalmente raccogliendo dati e «pensando» a proposito della cremazione; e ancora non sono riuscita ad arrivare a una decisione. Le riflessioni che ho trovato verso la fine di questo libro mi danno altri spunti su cui non avevo ancora ragionato. Non nuovo invece il parere sui «nuovi» modi dei riti funebri (alcuni lo so che non mi piacerebbero).

Applausi

No, non la famosissima canzone dei Camaleonti; parlo della discutibile usanza che da un po’ accompagna i funerali. Di questo e di altri «riti» si tratta in alcune pagine del libro, per riaffermare la necessità di rispettare le tappe della celebrazione tradizionale delle esequie: la visita alla famiglia del defunto, la veglia, la preghiera alla chiusura della bara, la processione alla chiesa, la celebrazione, la processione al cimitero, la benedizione del sepolcro e la sepoltura. Ho trovato corretto questo modo di agire: se non si gradisce il rito tradizionale, si può fare un’altra cosa, altrimenti verrà fuori «un funerale nel quale si ricerca più l’espressione dei sentimenti che l’interiorizzazione del senso». Le foto o i filmati del defunto, i suoi oggetti, le letture da parte di amici e parenti sono un’altra cosa – dice il libro, e mi trova d’accordo – cercano di «tenere vivo» il morto, invece che lasciarlo andare e «camminargli dietro»; questa è la funzione della processione, come leggiamo alle pp. 43 e ss:

«è di grande significato umano e spirituale che il rituale preveda che il popolo accompagni il defunto alla chiesa e poi al cimitero camminando sempre dietro al feretro. [che] precede un popolo […] nello spazio per significare che lo precede nel tempo, in quella condizione alla quale ogni vivente un giorno giungerà: si segue in processione perché lo si seguirà nella condizione; […]».

Illuminante questa frase no? Potremmo eleggerla a mantra di questa riflessione/recensione! No, però ce n’è un’altra: «I vivi chiudono gli occhi ai morti e i morti aprono gli occhi ai vivi» (adagio chassidico, p. 44). Wow! Non saprei quale scegliere… anche perché ce n’è un altro ancora «la morte non ce la si toglie di mezzo togliendo di mezzo il morto», p. 37, a proposito dell’abitudine odierna di «fare in fretta», il più in fretta possibile, e magari senza vedere (si muore sempre di più in ospedale, non c’è quasi più la veglia, il Rosario è una noia ecc.) Ma non è finita! C’è un’altra «frase koan», «Stare davanti al morto perché la morte ci stia davanti» (a proposito della sempre più rara abitudine – da ritrovare – di stare nella casa dove il defunto ha vissuto, e vegliarlo).

Un velo bianco…

A proposito di riti perduti ho trovato commovente la Preghiera alla chiusura della bara. È, quello, un momento particolarmente difficile, come sa chiunque abbia già assistito alla morte di un genitore (e sono fra quelli); il coperchio nasconde per sempre alla vista il volto, che fino a quel momento si era ancora potuto vedere, «riconoscendo» che la persona carissima era ancora «lì». Invece poi basta, da un momento all’altro uomini estranei avvitano grossi pezzi di ferro sul coperchio, sigillando per sempre la possibilità di «vederlo/vederla ancora una volta». Bene, nel libro troviamo scritto che nel rito cristiano in quel momento è data a un familiare la possibilità di stendere un velo bianco sul viso del defunto. Come una sorta di «graduale» allontanamento accompagnato da parole come «[…] la vita del nostro fratello (della nostra sorella) è ora nascosta in te [Dio]; il suo volto, che viene sottratto alla nostra vista, […] è illuminato per sempre dalla vera luce […]. Come una specie di piccola consolazione [] per chi resta […] con solo delle foto, da ora in poi e per sempre.

Finisco citando Edgar Morin, che – alle pp. 24-5 – ritiene sia finito il tempo della rimozione della morte in occidente, e in una pubblicazione recente (citata nel libro, in nota) scrive:

«La morte così a lungo rimossa è tornata a domandare ai vivi di prendere coscienza della sua ineluttabilità e del suo mistero. […] Dobbiamo […] risuscitare [mai verbo fu più azzeccato, non trovate? NdR] riti e cerimonie della morte […] la riforma della vita non può che essere accompagnata da una riforma della morte».

Il rituale è importante, ecco perché Goffredo Boselli di Bose ha creduto utile scrivere questo interessante strumento per riflettere sull’unico tema davvero universale.

«riaffermare […] che il morire, la morte e i suoi riti sono una questione centrale, tanto per il singolo uomo quanto per la convinzione umana nel suo insieme […] la liturgia cristiana dei funerali è un autentico atto di profezia compiuto, in nome del vangelo, dalla chiesa nei confronti della società e della cultura contemporanee. […] la questione della morte e dei suoi riti sta al cuore dell’idea stessa di umanità», pp. 22-3.

C’è un momento della mia giornata in cui sento di vivere la mia vita. Verso la sera, quando la gente di solito pranza e ascolta le notizie dei telegiornali, io, invece, mi immergo nella lettura di un libro. Uno di questi libri – Vivere Slow-apologia della lentezza, della scrittrice Marìa Novo, pubblicato dalle Edizioni Dedalo – ha risposto a una delle domande che mi sono posto spesso senza trovare una risposta.

Perché mi sento felice quando leggo? La risposta è perché mi riapproprio del mio tempo. Secondo la tesi sostenuta dall’autrice la ricerca della nostra felicità è strettamente collegata alla gestione del nostro tempo. Imporre un rallentamento alle nostre esistenze contribuisce al nostro benessere psico-fisico, ma anche all’umanizzazione dei nostri rapporti con gli altri individui, con ripercussioni ed effetti di carattere sistemico (http://www.edizionidedalo.it/site/index.ph).

La tesi di Marìa Novo può sembrare eretica. Oggi la società moderna è minata da una malattia estremamente pericolosa (e aggiungerei anche contagiosa): la fretta, ma nel libro dell’autrice troviamo esempi pratici e interessanti di individui, comunità, organizzazioni e addirittura intere città che hanno aderito alla filosofia di vivere slow.

Il libro Vivere slow-apologia della lentezza è stata una vera e propria rivelazione, è nata in me la consapevolezza che alcuni mali dell’economia e della società odierna sarebbero risolvibili con la lentezza. Mi riferisco, per esempio, a drammi come il precariato che impone agli individui una capacità di cambiamento che va oltre i propri ritmi biologici.

Sono convinto che la filosofia slow possa dare una regolata alla chimera che ha fatto molta strada nell’economia trovando molti sostenitori. Flessibile è bello, stabile è brutto. Forse dovremmo affermare che cambiare è bello, ma con una certa gradualità. La lentezza può effettivamente aprirci le porte verso una maggiore sostenibilità umana e ambientale del nostro sistema economico che oggi rifiuta di guardare in faccia gli esseri umani e gli alberi che distrugge.

Rallentando le nostre vite aumenta il nostro grado di interazione con gli altri individui, stabilendo un reale confronto fatto di gesti, di sguardi, di messaggi non verbali che ci permettono di cogliere sfumature nel nostro interlocutore di cui correndo non ci saremmo mai accorti. Stabilire delle relazioni sociali nel vero senso della parola può darci una ricchezza umana del tutto inaspettata.

La lentezza ci permette di non rimanere solo legati al presente, ma di proiettarci verso

il futuro perché, come scrive l’autrice, rallentare «[…] i nostri ritmi vuol dire adeguarsi al tempo della natura di cui facciamo parte. Dunque una persona lenta presta attenzione alle modalità di produzione e di consumo dei prodotti. Fare le cose con calma significa attribuire valore sia al processo che al prodotto finale». Ma non solo, vi inviterei a fare un piccolo esperimento. Provate a scrivere su un piccolo foglio cinque fatti o episodi che vi sono successi il mese scorso. Sono sicuro che vi ricorderete con maggior facilità i momenti della vostra vita che avete in qualche modo de-accelerato. La fretta, in altre parole, ci toglie anche i nostri ricordi e il nostro passato.

Oggi corriamo, corriamo con l’illusione di avere una vita più piena e ricca. Ma siamo dei corridori che spesso non si accorgono di distruggere più che di costruire. Il rischio concreto è che alla fine di questa corsa ci rendiamo conto che tutto ciò che abbiamo fatto non è stato altro che spalare sabbia per riempire con un deserto la nostra esistenza e quella delle generazioni future. E come scrive Marìa Novo: «Il tempo […] è un dono molto più prezioso del denaro, perché impossibile da accumulare».

In questi giorni ho deciso di rivolgere un paio di domande ad alcuni professionisti sul tema della lentezza. Antonella Appiano, giornalista esperta di Medio Oriente (e presidente di Moan-Opportunities and News-Associazione Culturale di Ricerca e Studi sul Medio Oriente e il Nord Africa), ha gentilmente risposto alle mie domande (http://www.conbagaglioleggero.com/).

Attraverso la preziosa testimonianza di Antonella Appiano possiamo avere un confronto interessante tra occidente e Medio Oriente su questo tema. Mondi distanti dove la ricerca del benessere e della felicità si è mossa in direzione opposte.

C’è un momento durante le tue giornate in cui credi che la fretta ti faccia perdere qualcosa di prezioso?

Antonella Appiano: A volte capita. Soprattutto quando sono all’estero per lavoro, in qualche Paese arabo, e devo scrivere reportage e interviste e mandarli al giornale. I tempi sono stretti: si corre. E invece mi capita di pensare che mi piacerebbe fermarmi al bazar e bere un caffè turco. Oppure girovagare nella città. La sensazione è appunto di perdere momenti particolari che non torneranno più. Una luce, una emozione, un attimo fuggevole che avrei potuto catturare. Vivere. Il contrasto poi è forte in Paesi dove in concetto del tempo è così diverso dal nostro. Un proverbio afgano per esempio recita: «Voi occidentali avete l’orologio, noi il tempo». La morale produttivistica della nostra società, prende in considerazione solo il «prezzo» delle cose, non il «valore». Ecco certi momenti possono non rendere dal punto di vista economico ma possiedono un valore immenso.

Metti in atto delle «strategie di rallentamento» per difenderti dalla frenesia quotidiana e professionale di tutti i giorni?

Antonella Appiano: Premetto che amo molto il mio lavoro. È una passione, quindi mi piace anche il suo lato frenetico. Quel senso di urgenza. Il dover partire all’improvviso. Ma a volte può diventare logorante e allora certo ricorro alle mie «strategie di rallentamento»: per riprendere fiato e perché ogni tanto è indispensabile il distacco. Sono piccoli trucchi. Cerco sempre per esempio di ritagliarmi, in settimana, una giornata per me, o anche solo una manciata di ore, scollegata da internet, dai social, dal telefono e dai cellulari. E la passo a casa, leggendo un libro, guardando un film o anche solo raccogliendo i pensieri. Incenso e musica in sottofondo. Una «operazione» importante perché il vortice di incontri, parole, scambi, può bloccare il flusso del nostro «vero sentire», bombardato soprattutto oggi da una quantità enorme di stimoli.

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