Volti, sguardi, voci dall’India…ci invitano ad una difesa comune della terra

Elena Camino

Una carrellata di testimonianze di proteste nonviolente in India contro un modello di sviluppo distruttivo, e qualche riflessione sulle implicazioni globali della perdita di ‘natura’.

La modernizzazione dell’India

Contadini, pescatori, raccoglitori… rappresentanti di quello che due Autori Indiani (Gadgil e Guha, 1995) chiamano il “popolo dell’ecosistema” ci parlano, attraverso le immagini e le scene raccolte da registi militanti, da emittenti TV, da Associazioni, talvolta dai cellulari di testimoni. Ci raccontano che la loro vita si svolgeva con serenità, coltivando i campi, o andando a pesca, o raccogliendo legna nelle foreste, finché… Finché non è successo qualcosa di inaspettato e spesso incomprensibile. Alcuni dicono che l’acqua del fiume ha cambiato colore, e berla fa stare male; altri dicono che i bambini hanno cominciato ad ammalarsi, di malattie prima sconosciute; altri ancora sostengono che la terra si è inaridita, le coltivazioni vengono su stentate. Sono trascorsi anni prima che potessero individuare le cause: gli scarichi tossici di una fabbrica a monte del fiume; le discariche di rifiuti radioattivi all’aperto; minerali ferrosi – invece del limo fertile – depositati nelle periodiche esondazioni sui terreni agricoli. Ora queste comunità sono impoverite, impaurite, protestano ma non trovano chi le ascolta, non sanno cosa fare… Subiscono il degrado causato dalle attività legate al ‘progresso.’

In altri casi è risultato subito chiaro che la solita vita – la vita dura ma autonoma dei contadini, dei pescatori, dei raccoglitori, una vita sostenuta dai sistemi naturali che ciclicamente fornivano di che vivere alle comunità – era minacciata direttamente dal ‘progresso’. Il governo indiano, spesso in collaborazione con imprese nazionali e multinazionali, da alcuni decenni sta portando avanti una politica di sviluppo economico che ha un bisogno crescente di terra, di coste, di foreste per installare le attività produttive essenziali a trasformare l’India in un Paese ‘moderno’. C’è bisogno di energia: occorre quindi costruire centrali nucleari e grandi dighe. Ci vogliono impianti siderurgici, chimici, fabbriche, strade, mezzi di trasporto moderni per tirar fuori l’India dall’arretratezza. Bisogna aprire nuove miniere per fornire le materie prime necessarie. Quindi occorrono spazi. Spazi che vengono sottratti all’agricoltura, alle coste, alle foreste, nei luoghi più fertili del Paese.

Non è più il tempo – infatti – delle grandi imprese coloniali, quando le potenze europee attingevano dai forzieri del Terzo Mondo le ricchezze necessarie per realizzare il processo di industrializzazione, e scaricavano lì gli scarti. L’India – per diventare una potenza industriale seguendo il modello occidentale – deve colonizzare una parte di sé. Contadini, pescatori, raccoglitori che vivono nelle aree ancora ‘naturali’ dell’India devono farsi da parte, abbandonare i luoghi in cui vivevano da innumerevoli generazioni per fare spazio alla realizzazione della modernità indiana. Così, nelle comunità più periferiche dell’India rurale, arrivano i rappresentanti del governo che spiegano alla gente che non può più stare lì, che deve andarsene. Ma dove? Non ci sono aree coltivabili di scorta, non ci sono coste non abitate. La soluzione del governo è semplice: la chiamano ‘compensazione’, e prende la forma di un risarcimento in denaro – con cui queste comunità dovrebbero poter sopravvivere, una volta allontanati dalle loro abitazioni, senza più terra, senza più animali, senza più i frutti della natura.

Conflitti palesi, conflitti nascosti

Vi sono molti fuochi che ardono in India: la crisi agricola è tra le più sconvolgenti e distruttive, e si trova al centro di un insieme di calamità interconnesse.  E’ una crisi che nasce da un causa principale, la commercializzazione predatoria del paese, un modello di sviluppo distruttivo che include enormi infrastrutture e grandi dighe (3.600 dighe sono state costruite dall’Indipendenza a oggi); che ha regalato ampi territori (grazie alle ‘Special Economic Zones – SEZs) alle imprese multinazionali per realizzare impianti industriali  e devastanti scavi di dighe. (http://www.counterpunch.org/2014/01/31/land-conflict-and-injustice/)

Secondo il SIPRI (un Istituto internazionale di ricerca per la pace: www.sipri.org) l’ India è il primo importatore mondiale di armi e di sistemi di difesa, per i quali ha speso nel 2013 5,6 miliardi di $. Queste armi non servono tanto per combattere nemici esterni, quando per reprimere le rivolte che da alcuni decenni infiammano una vasta area dell’India centrale, la ‘green belt’ ancora ricca di foreste, che è anche la ‘mineral belt’, ricca di giacimenti minerari: bauxite, rame, minerali ferrosi, minerali di uranio. Materie prime indispensabili per il boom industriale del Paese.

Negli ultimi trent’anni in quell’area  si è aperto un vero e proprio conflitto armato tra gruppi di ribelli (i Naxaliti) e lo Stato Indiano, il quale ha dispiegato sul campo diverse forze militari e creato, in maniera non ufficiale, le milizie  Salwa Judrum per opporsi ai gruppi Maoisti. Quando i media internazionali parlano dell’India, del suo PIL che cresce, della modernità che avanza, solo di rado accennano a questi conflitti, che pure hanno causato migliaia di morti e migliaia di rifugiati. Ancora più silenziosi sono i mezzi di informazione rispetto ai movimenti di cittadini, agricoltori e comunità indigene che mettono in atto pratiche nonviolente (manifestazioni, boicottaggi, marce: i sathyagraha di Gandhi) per esprimere il loro dissenso nei confronti di politiche socio – economiche imposte dall’alto, che sottraggono spazi vitali alle comunità rurali per portare vantaggi nelle mani di pochi. I leader di questi movimenti di protesta, e i membri delle comunità coinvolte, si sono spesso trovati a dover affrontare soprusi e minacce da parte di rappresentanti delle forze dell’ordine o delle compagnie multinazionali alle quali si oppongono.

Nonostante la scarsa attenzione dei media, cercando con cura tra i siti web è possibile raccogliere una gran varietà di testimonianze di queste lotte nonviolente. Nel loro insieme, si tratta di un coro numeroso e dolente di persone – da quelle che stanno opponendosi agli espropri a quelle che sono già state trasformate in sfollati e rifugiati, che il modello di sviluppo dominante liquida come ‘unhabitants’ (gente che non abita più in alcun luogo… ).

Paradossalmente, queste sono le stesse comunità che per decenni o per secoli hanno conservato e protetto il suolo, le aree di pesca, le foreste da cui dipende in buona misura la sostenibilità della specie umana sulla Terra, come ci ricordano le dichiarazioni ufficiali che hanno accompagnato l’apertura dell’Anno Internazionale dei suoli, come vedremo tra poco.

Tre tipi di popolazioni

Riprendendo uno schema proposto da Gadgil e Guha (1995), cerchiamo di collocare i contadini, i pescatori, i raccoglitori di cui vogliamo ascoltare le voci in uno scenario più ampio, a livello mondiale.

Secondo questi Autori, “La maggior parte dei poveri del mondo deve grattare la terra e sperare nella pioggia per far crescere il proprio cibo, deve raccogliere legna o letame per cuocerlo, deve costruire da sé la propria capanna con bambù o steli di sorgo tenuti insieme dal fango, e deve cercare di tenere lontani gli insetti affumicandoli con il fumo della cucina”. Tutte le persone che dipendono dall’ambiente naturale della

località in cui vivono per soddisfare le loro necessità materiali appartengono alla popolazione dell’ecosistema.

Via via che il mondo naturale arretra si restringono le capacità degli ecosistemi locali di sostenere queste persone. Dighe e miniere hanno letteralmente ‘spostato’ milioni di contadini e di tribali, altri hanno dovuto emigrare perché le loro foreste, e di conseguenza le loro sorgenti, erano svanite. Queste persone costituiscono la categoria dei rifugiati ecologici, che vivono ai margini di isole di prosperità, con ben poco rimasto a disposizione da raccogliere del mondo naturale, e non abbastanza denaro da poter comprare i beni che i negozi espongono.

Il resto della popolazione (circa il 20% alla fine del secolo scorso) è rappresentato dai veri beneficiari dello sviluppo economico, che potrebbe essere definito come la crescita dell’artificiale a scapito del naturale. Coloro che beneficiano di questa situazione hanno un potere di acquisto che consente loro di comprare automobili e di spostarsi in aereo, di indossare abiti di poliestere e di cibarsi di pesce, carne e frutta che provengono da ogni parte del mondo. Sono la gente della biosfera, perché godono i prodotti dell’intera biosfera. Poiché divorano ogni cosa venga prodotta sulla faccia della Terra, possono essere chiamati onnivori.

Le percentuali si stanno drammaticamente modificando, aumentando i conflitti e le disparità e portando il pianeta sempre più vicino al collasso: non a caso due importanti appuntamenti internazionali del 2015 si occuperanno di un tema che è strettamente connesso a quanto abbiamo detto: quanto suolo possiamo permetterci di cementificare, urbanizzare, destinare allo sviluppo industriale se vogliamo soddisfare l’esigenza primaria, il diritto di ciascuno, di avere cibo a sufficienza?

Linguaggi diversi – un solo concetto: insostenibilità

Una celebre frase di Gandhi, ormai diventata di moda (che rischia quindi di essere svuotata del suo significato più profondo) diceva che la Terra può soddisfare le necessità di tutti, non gli egoismi di ciascuno. Dopo cento anni, a esprimere lo stesso concetto sono alcuni gruppi di studiosi, che affermano l’urgente necessità di un nuovo paradigma che consenta il mantenimento delle società umane all’interno dei vincoli planetari (Steffen et al., 2015). Partendo da una prospettiva diversa, con un approccio analitico e quantitativo, questi Autori giungono alla stessa conclusione che Gandhi aveva tratto a partire da considerazioni etiche e con un approccio narrativo. Steffen et al.(2015) affermano (e documentano con numerosi dati sperimentali) che il livelli di perturbazione di origine antropica di quattro processi /caratteristiche del Sistema Terra (il cambiamento climatico, l’integrità della biosfera, i flussi biogeochimici, i cambiamenti dei suoli) hanno ormai superato le soglie oltre le quali il rischio di destabilizzazione del Pianeta diventa preoccupante. In altre parole, questo gruppo di studiosi (sono 18 a firmare l’articolo) sta dicendo che il modello di sviluppo tecnologico-industriale basato sull’uso di combustibili fossili e di fertilizzanti, sull’urbanizzazione e la progressiva distruzione degli ecosistemi, sta mettendo a rischio gli equilibri del nostro pianeta: quelli che hanno consentito all’umanità di trovare per milioni di anni un ambiente accogliente e adatto alle sue necessità.

Un sito per accogliere voci nonviolente

Il sito www.indiaincrociodisguardi.it è nato nell’ambito di un Progetto ideato da tre Associazioni operanti nel territorio piemontese:

  • Il Gruppo ASSEFA Torino, con una storia di collaborazione più che quarantennale con una Associazione indiana gandhiana, impegnata a sostenere piccole comunità rurali in progetti di auto-sviluppo economico, sociale e spirituale nell’India del Sud (www.assefatorino.org);
  • Il Centro Studi Sereno Regis, punto di riferimento per le sue attività di ricerca, documentazione e formazione sui temi della pace, dell’ambiente, della nonviolenza (https://serenoregis.org/). Alla realizzazione del sito hanno contribuito, in particolare, due ragazze durante il Servizio Civile: Marta e Jessica.
  • Il Centro Interuniversitario IRIS (www.iris.unito.it), attivo dal 2002, formato da ricercatori accademici e studiosi indipendenti che si occupano di affrontare le problematiche della sostenibilità da molteplici punti di vista e con diverse chiavi interpretative (da quella scientifica a quella psicoanalitica, linguistica e artistica).

Le tre Associazioni sono accomunate dall’idea che la nonviolenza nei mezzi e nei fini, nelle relazioni interpersonali e in quelle con i sistemi naturali che ci ospitano, sia la prospettiva più attuale e il riferimento più importante per una transizione verso un mondo più sostenibile. L’esperienza dell’ASSEFA in India (e di altre realtà rurali, anche in altri Paesi) documenta l’esistenza e la realizzabilità di modelli di sviluppo diversi da quello dominante, e offre elementi di speranza sulle possibilità di cambiamento.

Lo scopo primario del sito è quello di far sentire le voci di chi non ha voce, di far conoscere questo vasto popolo dell’ecosistema che in India sta cercando di difendere acqua, aria, suolo e aria pura per la propria sopravvivenza. Ma le voci da sole non bastano. Accanto alle voci di queste comunità si stanno levando, frammentarie, spesso isolate, anche le voci di intellettuali, di accademici, di attivisti dei diritti umani, di associazioni e aggregazioni di cittadini, per denunciare la natura iniqua e distruttiva del modello di sviluppo basato sulla crescita economica sbilanciata, e sulla difesa armata dei privilegi acquisiti. La rete web costituisce una potenziale opportunità di aggregazione e collaborazione, nella prospettiva di contribuire a creare un movimento mondiale in grado di opporsi, con la determinazione e il coraggio necessari, e con strategie di azione nonviolente, a una visione e a una costruzione del mondo basata sul mito della potenza, dell’innovazione, del controllo, del tempo lineare, della sostituibilità del naturale con l’artificiale… Forse solo grazie a una rete molto ampia di soggetti che condividono alcune idee e principi di base può diventare possibile non solo affermare dei NO (NO alle mega dighe, NO alle centrali nucleari, NO allo spostamento forzato di popolazioni, NO alle miniere che distruggono foreste e montagne; ma anche NO all’installazione di basi militari, NO alle grandi opere che intercettano le falde idriche e inquinano l’ambiente, NO alle guerre…) ma anche proporre e sperimentare modelli di società economicamente più eque e ambientalmente sostenibili.

I contadini indiani e gli appuntamenti internazionali

Il 2015 è stato dichiarato dall’Assemblea delle Nazioni Unite ‘anno dei suoli’ (The International Year of Soils (IYS) A/RES/68/232; http://www.fao.org/soils-2015/en/). Il Direttore generale della FAO fa notare che “i molteplici ruoli dei suoli spesso passano inosservati. I suoli non hanno voce, e poche persone parlano in loro difesa. Essi sono i nostri silenziosi alleati nella produzione di cibo.” Tra gli obiettivi di questo ‘Anno dei suoli’ viene segnalato:

  • Sviluppare consapevolezza nella società civile e dei decisori pubblici dell’importanza cruciale del suolo per la vita umana;
  • Educare il pubblico sul ruolo che i suoli svolgono nella sicurezza alimentare, nell’adattamento ai cambiamenti climatici, nella conservazione dei servizi degli ecosistemi, nella riduzione della povertà;
  • Sostenere politiche e azioni efficaci per la gestione e protezione delle risorse del suolo…

Il suolo, in particolare quello agricolo, sarà oggetto di interesse durante la grande Esposizione Universale Expo Milano 2015, che l’Italia ospiterà dal primo maggio al 31 ottobre 2015, il più grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione. “Per sei mesi Milano diventerà una vetrina mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri”. (http://www.expo2015.org/it).

Che cosa potrebbero consigliare agli esperti delle Nazioni Unite e agli organizzatori dell’EXPO i contadini, i pescatori, i raccoglitori che in India a migliaia affrontano conflitti? E quelli che a milioni ormai sono stati privati delle loro terre, dei loro raccolti, delle loro aree di pesca?

Oltre a esprimere il loro dissenso e a organizzare dei sathyagraha, oltre ad affermare – inascoltati – il loro diritto a restare nei luoghi in cui vivono da generazioni e conservare la loro autonomia e sovranità alimentare, essi possono ormai parlare anche la lingua degli esperti, e citare dati scientifici che dovrebbero essere in grado di suscitare dubbi anche nei più accesi sostenitori del modello della ‘crescita infinita’:

  • Nel 1800 solo il 3 per cento della popolazione mondiale viveva in centri urbani, molti dei quali erano dei grossi villaggi Nel 1900 era diventato il 14%, e nel 2000 si è raggiunta la percentuale del 50% (Fazal, 2000). Ormai (2015) il 54% della popolazione umana vive in agglomerati urbani, e le previsioni indicano che nel 2050 sarà il 66% (http://www.un.org/en/development/desa/news/population/world-urbanization-prospects-2014.html)
  • Globalmente l’urbanizzazione provoca la perdita di due ettari di suolo al minuto. Coprire il terreno con cemento e asfalto sigilla il suolo, che non può più essere usato per produrre cibo, per assorbire l’acqua piovana, per alimentare la biodiversità del suolo. (http://ec.europa.eu/jrc/en/news/soil-atlas-2015)
  • Le attività militari (addestramenti ed esercitazioni, campi di battaglia, distruzioni da armi convenzionali e chimiche) sono tra le maggiori cause di distruzione di suolo del mondo.
  • Un dato sull’India: la perdita di suolo si registra soprattutto negli Stati e nei Distretti in cui sono state istituite Zone Economiche Speciali (Special Economic Zones) in cui il governo cerca di attirare investimenti da parte di industrie locali e internazionali. (Pandey & Seto, 2015).

Sembra chiaro, dunque: lo sviluppo tecnologico-industriale-militare sviluppato dall’Occidente e riproposto in India è incompatibile con la sostenibilità alimentare e con il rispetto dei diritti umani.

Ascoltiamoli, dunque, questi contadini, pescatori, raccoglitori. E oltre ad imparare da loro, cerchiamo di far risuonare le loro voci, in modo che in tanti li possano ascoltare e possano contribuire, ciascuno con le proprie forze, a difendere i loro diritti e insieme a difendere il futuro di tutti noi.

Il 2 marzo alle 20,30 ci sarà una presentazione al pubblico del sito www.indiaincrociodisguardi.it

(presso il Centro Studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Sala Poli).

In questa occasione saranno anche proposte alcune sequenze di film e riprese video sulle tipologie di conflitti socio-ambientali illustrati nel sito: impianti industriali, centrali nucleari, miniere e grandi dighe.

Fazal S. Urban expansion and loss of agricultural land – a GIS based study of Saharanpur City, India

Environment &Urbanization Vol 12 No 2 , 2000.

Gadgil M. & Guha R. Ecology and equity, Routledge 1995.

Pandey B. & Seto K. C. Urbanization and agricultural land loss in India: comparing satellite estimates with census data. J Environ Management VOL 21, ISSUE 148, 53-66, 2015

Steffen W. et al. Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet Science VOL 347 ISSUE 6223, 2015.

Presso il Centro Sudi Sereno Regis  avrà luogo la presentazione del sito www.indiaincrociodisguardi.it. Dove: via Garibaldi 13, Sala Poli

Quando:  lunedì 2 marzo alle  20,30

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