Un rapido sguardo a Indonesia-Malaysia – Johan Galtung


Muhammadiyah University – Yogyakarta, Indonesia

Venendo dalla Malaysia, i due vicini appaiono incredibilmente diversi. L’Indonesia, più ricca di antiche culture, più grande per territorio, un arcipelago di migliaia di isole, ha 3.500 $ di PIL pro-capite, la Malaysia 11.500; oltre tre volte tanto. Prodotti del brutale colonialismo occidentale, olandese per l’Indonesia, inglese per la Malesia, divenuta Malaysia. Sfruttate, derubate, impoverite. Entrambe sperarono che la seconda guerra mondiale, combattuta per la democrazia e i diritti umani, vi avrebbe posto termine nel 1945, ma ebbero invece guerre per mantenere il colonialismo – fino al 1949 e 1957, rispettivamente.

Entrambe erano state occupate per 3 anni e mezzo dal Giappone mossosi a sud per battere il boicottaggio imposto dagli USA, mirando alle risorse petrolifere in Indonesia (essendo il petrolio malaysiano non ancora scoperto). C’era una differenza: il futuro leader dell’Indonesia, Sukarno, e il suo numero due Mohammad Hatta avevano vissuto in Giappone, si fecero amici e incontrarono gli olandesi di ritorno alla “loro” colonia che combatteva come un paese libero, mentre non ci fu una tale libertà in Malesia.

Allora, perché la differenza? È quasi come un esperimento sociale. La chiave sta nella minoranza cinese locale, in Malaysia usata dagli inglesi contro la maggioranza malese, come minatori sfruttati nelle miniere di stagno, e come capitalisti con le loro bande a Penang e Singapore; in Indonesia anche nell’esercito e nel PKI, il partito comunista indonesiano, il più grande al di fuori del blocco sovietico. Gente che lavora sodo, ben organizzata, abile col denaro, s’attirò molto dello stesso odio e violenza che gli ebrei in Germania e gli armeni in Turchia – finiti entrambi con genocidi.

Così pure in Indonesia: il massacro del 1965-66; programmato dai think tank USA e dalla CIA con il governo indonesiano. Tattica CIA standard: voci incontrollate di un imminente colpo di stato di sinistra, magari organizzandone anche qualcuno – come il golpe contro Gorbaciov del 1991 – e poi un golpe massiccio, ben preparato, di destra. Mezzo milione o giù di lì uccisi, il generale Suharto al potere per tre decenni, che diede agli USA libero accesso all’economia che volevano. Iniziò un saccheggio, e durò; come con Yeltsin in Russia.

In Malaysia s’arrivò a tumulti nel 1969, ma la reazione fu del tutto diversa: la Nuova Politica Economica. Quaranta per cento dei malesi musulmani viveva in miseria, 35% dell’economia era in mani inglesi, e 20% in mani cinesi locali. I cinesi della maggioranza di Singapore se n’erano venuti via nel 1965 e ora la Malaysia ha un PIL pro-capite di 11.500 $, di gran lunga il primo nell’ASEAN – con qualche membro ancora nell’ordine delle migliaia.

Il governo malaysiano non si volse contro i cinesi, bensì elevò le classi inferiori malesi mediante una discriminazione positiva – come attraverso le linee di faglia di razza e di genere altrove. Riscattò molto del capitale cinese straniero e locale, ridusse la miseria al 4% o meno, investì nuovi capitali in istruzione, sanità, industria, e infrastrutture. Elevare i ceti inferiori significò più partecipazione nell’economia, che cominciò a fiorire (e continua). I cinesi erano furiosi, molti se ne andarono (ad esempio in Australia), ma la gran parte rimase, pur sempre una forza essenziale nell’economia. Poi il governo strafece, con un monopolio malese sul potere governativo e con l’islamizzazione – ambedue alquanto controproducenti; ma è un’altra storia.

L’Indonesia massacrò una forza chiave imprenditoriale che favoriva anche una migliore distribuzione, e si beccò una dittatura militare e l’imperialismo USA. Seppure con la gloria di un palazzo dilapidato di un regno tuttora attivo entro la repubblica a Yogyakarta, rispetto a nove sultani malesi musulmani nelle nove province della Malaysia, con tanto di governatori. L’uno e le altre hanno elezioni periodiche; la Malaysia non cambia mai il partito al governo mentre l’ Indonesia sì.

La Malaysia è adesso al 3° posto nel rapporto mondiale fra auto e abitanti, ben oltre il magico 600/1000. Il risultato è una scintillante parata di auto in parte nazionali, ingorghi senza fine, incidenti, inquinamento. L’Indonesia ha ancora i carretti, e catapecchie anziché grattacieli. E anche l’islamizzazione, della varietà più rigida e rigorosa, pagata generosamente dall’Arabia Saudita.

Human Rights è un altro diffuso movimento enfatizzato da Thomas Meaney e Saskia Schäfer in un bell’articolo sull’Indonesia [i]; con una Commissione Nazionale. Funge da mediatore in molti dei conflitti, ne ho vista la forza, un contrappunto laico ai fondamentalismi religiosi.

Apriamo il Jakarta Post, il giornale principale in inglese:

4 dicembre: “Spendere per essere più lanciati nella crescita”. Non granché bene. Si aggiunga “e per eliminare la miseria” per meno sofferenza e più crescita. Il che sarebbe anche più islamico, meno laico-economicistico-neoliberista.

4 dicembre: “La legge sulle elezioni locali ha di fronte un futuro incerto”. Molto male. Come la gran parte dei paesi, l’Indonesia ha tre livelli di potere interno: le autorità locali – municipalità e loro parti – distretti e la repubblica stessa. Numerose e complesse in un paese complesso. Ma c’è una norma: praticare la democrazia a tutti i livelli, con elezioni locali a livello comunale e distrettuale. Sì, può condurre a qualche complessa varietà, meno standardizzazione, ma dopo tutto perché no? Ben più importante è che la gente si senta a casa, che i suoi diritti vengano presi sul serio per un paese raggiante di iniziative positive. E un’altra norma: il vero federalismo – l’Indonesia deve fare una certa strada – non teme la diversità etnica e il conferimento di autonomia alle numerose etnie. E ancora: si cerchi di risolvere i problemi al livello più basso, con consultazioni e voti.

5 dicembre: “Jokowi ordina le esecuzioni. Cinque persone devono essere giustiziate questo mese, con altre 20 a seguire il prossimo anno. Opinioni divise fra gli attivisti dei diritti umani, i legislatori e gli esperti legali sull’efficacia della pena di morte”. Molto, molto male. Ce ne sono stati 162 nel braccio della morte nel periodo 2000-2014. 27 sono stati uccisi – 17 per omicidio, 7 per narcotici, 3 per terrorismo – cui devono ora seguirne altri 27. Ma più importante che l’ “efficacia” è la sacralità, radicata più in profondo che la rappresaglia nell’islam. Si dica ai condannati e al mondo: “voi avete preso e distrutto vite, noi no”.

Si provino gli incredibili cibi in Indonesia, anche ottimi in Malaysia; che concorrono facilmente con l’Europa e la Cina, più vari. Si provi Bali, hindu morbida. Ma serve una politica economica davvero nuova, non per competere con la Malaysia ma magari imparando dai successi e i fallimenti dei vicini, uno dei quali è il calpestare tutti i tamil.

Prossima fase, fra qualche generazione: la cittadinanza ASEAN per tutti.

NOTE:

[i]. “Jokowi’s Way” [La modalità di Jokowi], The Nation, 22-09-2014. “Jokowi” è l’abbreviazione standard del nome dell’attuale presidente, Joko Widodo, ex-esportatore di prodotti complessi di carpenteria.

8 dicembre 2014

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis

 

Titolo originale: A Quick Glance at Indonesia-Malaysia

http://www.transcend.org/tms/2014/12/a-quick-glance-at-indonesia-malaysia/

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