L’Italia del silenzio – Recensione di Cinzia Picchioni

Gianni Oliva, L’Italia del silenzio. 8 settembre 1943Gianni Oliva, L’Italia del silenzio. 8 settembre 1943, Mondadori, Milano 2013, pp. 192, 19,50

Il titolo è volutamente provocatorio, per dire che le scelte, dopo l’8 settembre, sono state di pochi, mentre la maggioranza aspettava un risultato determinato dalle armate angloamericane. “il disorientamento e lo sbandamento si incontrano ovunque, la voglia di reagire di qualche minoranza non è sufficiente a sovvertire l’immagine di inerzia morale che avvolge il paese”, pp.15-6.

Gianni Oliva racconta un altro 8 settembre: il giorno del silenzio, silenzio della morale, della ragione, della volontà. […] Ricostruendo ora per ora gli eventi drammatici del 1943-’45 […] racconta di un’atmosfera antieroica, dove l’elemento dominante fi in larga misura quello dell’attesa, “eterna psicologia italiana che aspetta dagli stranieri la salvezza” scriverà Piero Calamandrei”, dal risguardo di copertina.

Docenti e giuramenti

Quando il fascismo impose ai docenti universitari il giuramento di fedeltà in 12 rifiutarono; ma nell’anno accademico 1931-’32 insegnavano nelle università italiane 863 docenti ordinari e 985 incaricati: 1848 cattedre (più 77 professori straordinari e 2638 liberi docenti). “[…] a fronte di 12 dissidenti, ci sono stati 1836 obbedienti”, il 99,40 per cento. Ecco il titolo. Ecco il silenzio.

Beeeeee

Com’era? “Meglio un giorno da leone che cento da pecora”? Ecco che cosa ebbe a dire un professore, uscito da una riunione in cui si erano cancellati i nomi di illustri ebrei: ““Eppure eravamo tutti contrari”. Alla nostra osservazione del perché avessero fatto ciò, ebbe a rispondere: “Siamo tutti pecore””, p. 165.

A causa delle leggi razziali la cultura italiana si impoverisce con l’allontanamento di studiosi ebrei come, fra gli altri, Cesare Musatti, Emilio e Beniamino Segre, Gino Luzzatto, Mario Fubini, Attilio Momigliano, Giorgio Mortara.

Guanti e infanti

Tutto questo “gregge” era così obbediente anche perché era stato fatto un ottimo lavoro: la propaganda, e l’ottimo lavoro doveva continuare a farsi anche nella scuola, e bisognava essere sicuri che i docenti lo continuassero.

Leggere della propaganda mi ha fatto ripensare ai racconti di mio padre – nato nel 1924. Oliva scrive di

[…] entusiasmo e precettazione, modelli imposti dall’alto e identificazioni che procedono dal basso [hanno plasmato] una generazione sostanzialmente obbediente, incapace di riflessione autonoma […] adagiata in certezze politiche ed esistenziali accettate a metà strada tra l’abitudine e la fede. Non si può parlare di coinvolgimento consapevole in quell’interminabile sequenza esibitoria di divise […] gagliardetti, cinturoni, ghette, foulard azzurri dei balilla, […] medaglie, calzettoni, guanti […]”

Ecco, i guanti. Mio padre mi raccontava del conflitto familiare fra lui e suo padre che non voleva comprargli i guanti da balilla. Mio nonno faceva il ferroviere, non aveva grandi mezzi economici, e non aveva nemmeno l’ideale fascista come scopo, anzi. Ma mio padre, un bambino, era rimasto totalmente affascinato da quei guanti e li voleva ad ogni costo, minacciando di buttarsi nel fiume o chissà quale altra rappresaglia se non glieli avessero comprati. Voleva essere anche lui come gli altri.

Il male è banale?

Se è vero (per nostra fortuna) che le camere a gas e i forni crematori non sono all’orizzonte, è altrettanto vero che restano attuali i processi che li hanno resi possibili e che hanno trasformato un popolo di tedeschi in un popolo di nazisti. I tre elementi costitutivi dell’esperienza totalitaria, la violenza intimidatoria, il controllo della formazione e la manipolazione delle informazioni […] possono riproporsi in altre combinazioni e portare a nuove derive. Come ha insegnato Hannah Arendt, il male è banale e per commetterlo non è necessario essere cattivi: basta che qualcuno ci abbia educato a sovvertire i valori, a scambiare il giusto con l’ingiusto, la ragione con il torto”, p. 9.

Divisioni vecchie e nuove

L’antifascismo del Ventennio costituisce un elemento della storia nazionale che non va negato ma di cui non si può tacere il tratto di fenomeno di ristrette minoranze, spesso paralizzato da lacerazioni interne politico-ideologiche [*], e comunque incapace di incrinare il fronte interno negli anni del regime e della guerra”, p. 167.

[*] Non ho potuto fare a meno di pensare che, ieri come oggi, la “sinistra” è divisa, ecco perché – forse – non riesce a fare nulla, ieri la Resistenza, oggi un’opposizione degna di tale nome.

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