Arrendersi all’amore – Recensione di Cinzia Picchioni

cop_Thomas Merton, Arrendersi all’amoreThomas Merton, Arrendersi all’amore, Messaggero di Sant’Antonio, Padova 2014, pp. 96, € 9,00

Chi era Thomas Merton? L’ho già sentito…
Intanto era dell’Acquario – 31 gennaio 1915 – come Mozart, come Fabrizio De Andrè, come Giorgio Gaber, come Angelo Branduardi. Tutti, ciascuno nel suo campo, dei geniali innovatori (come è una caratteristica peculiare del segno zodiacale; non a caso la «nuova Era» si chiama appunto «dell’Acquario»). Poi era un po’ «vagabondo»: nato in Francia, si è trasferito con la famiglia a Long Island (Stati Uniti), poi si è ri-trasferito in Francia, e poi in Inghilterra e poi di nuovo – definitivamente – a New York. Poi è «solo al mondo»: resta orfano della madre a 6 anni, del padre a 16, l’unico fratello muore quando Thomas ha 29 anni. Ha vissuto soprattutto con i nonni, mentre suo padre – finché c’è stato – viaggiava per il mondo esponendo le sue tele.

Scrive recensioni… e di pace
A 24 anni, dopo la laurea in letteratura inglese, insegna alla Columbia University e scrive recensioni librarie, legge san Giovanni della Croce, visita Cuba, conosce e diventa amico di Daniel Walsh (!), fa il volontario nel quartiere di Harlem, e a 33 anni (ah! Questa età!) emette i voti solenni: è un monaco trappista, col nome di father Louis. Ma rispetto alla vita trappista – molto comunitaria – Thomas Merton manifesta l’esigenza invece di una vita più contemplativa e solitaria e – nel 1952 – comincia a vivere in progressiva solitudine, continuando a scrivere. «Dal 1961 iniziano in modo più frequente i suoi interventi contro i preparativi per la guerra nucleare; i suoi scritti in questa direzione vengono duramente criticati. Lo stesso abate generale, da Roma, gli proibirà di pubblicare saggi sulla guerra e sulla pace», p. 14.

Ma considerate la quantità enorme di denaro,
di energie, di preoccupazioni e di cure,
spesa per la produzione di armamenti,
che diventano quasi subito superati e devono esere smantellati.
Paragonate questo al misero gesto di annullare i francobolli
con un timbro che invita a «pregare per la pace»!, p. 45

«invece di amare ciò che tu credi sia la pace, ama gli altri uomini […] invece di odiare coloro che credi fomentatori di guerra, odia gli appetiti e il disordine della tua anima, che sono le cause della guerra. Se ami la pace, odia l’ingiustizia, odia la tirannia, odia l’avidità: ma odia queste cose in te stesso, non negli altri», p. 47

L’ultimo discorso e… papa Francesco
Dopo una relazione tenuta a Bangkok (il 10 dicembre 1968, qui da p. 89), dal titolo Marxismo e prospettive monastiche, Thomas Merton si ritira nella sua stanza e qui muore, fulminato dal contatto con i fili scoperti di un ventilatore. Verrà sepolto il 17 dicembre (mi è piaciuto pensare che è la data di nascita di papa Francesco), nel Kentucky, nel cimitero di Nostra Signora del Getsemani, sotto un cedro solitario, dove «Una neve leggera inizia subito a ricoprire il suo tumulo, quasi a custodire nel silenzio – per restituircela in futuro – una delle voci più eloquenti del XX secolo. Le sue ultime parole pronunciate in pubblico – “così io posso uscire di scena” – con la semplice intenzione di dichiarare che la conferenza […] era ormai giunta a conclusione, sembrano in realtà risuonare come inconsapevole preannuncio di un’altra fine […], p, 17.

Nessun uomo è un’isola
Per chi la conosce, «Nessun uomo è un’isola» è un comitato torinese che, fra le altre attività, gestisce il museo del carcere Le Nuove (con visiste, perfomance teatrali, mostre fotografiche, stage teatrali, raccolta di memorie dei detenuti?). Il nome l’hanno preso da un famoso libro di Merton (Garzanti, Milano 1958); prima – nel 1948 – Merton era diventato improvvisamente autore di fama internazionale con La montagna dalle sette balze; altri libri e scritti sono elencati nel libro che presentiamo, alle pp. 18-20. Le parole di Merton si trovano citate un po’ ovunque, è considerato «un maestro spirituale molto amato per la sua capacità di scrivere in modo profondo e suggestivo. Egli stesso considera la scrittura come opportunità di pensiero, di preghiera, di vita.

«La vita spirituale è innanzitutto una vita. Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. […] La vita spirituale non è quindi una vita completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli. […] La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza», pp. 68-9.

Ecco perché non ho scritto molto, quasi nulla, del libro in quanto tale: perché va letto e meditato. Fra l’altro ha una copertina molto «natalizia» (d’oro e rossa, con una bella foto degli occhi sorridenti del monaco), ed è piccolo ed economico, proprio adatto per un regalo a chi non conosca l’autore. Il curatore del volume, Antonio Ramina – frate minore conventuale – ha scelto e presentato i testi, fra i quali ne ho scelto uno – per chiudere – da La montagna dalle sette balze:
«Erano poveri, non avevano nulla, e perciò erano liberi e possedevano ogni cosa

[…] e lavoravano con le loro mani, arando e zappando in silenzio la terra, spargendo il seme e mietendo modesti raccolti per nutrire se stessi e gli altri poveri. Edificavano le loro mcase e facevano, con le loro stesse mani, i mobili e i rozzi vestiti che portavano; e intorno a loro tutto era semplice, povero e primitivo perché erano gli ultimi e i più piccoli fra gli uomini; esuli volontari, erano andati a cercare fuori delle mura del mondo Cristo povero e respinto dagli uomini», p. 25.

Il curatore
Antonio Ramina, frate minore conventuale, è laureato in lettere all’Università di Padova e in teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (Milano); insegna teologia spirituale e spiritualità francescana alla Facoltà teologica del Triveneto.

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