John Berger, irriducibile storyteller – Guido Caldiron

Intervista. Un incontro con lo scrittore e critico d’arte inglese John Berger, a Roma per presentare «Capire la fotografia», il volume edito da Contrasto. «L’Inferno di Bosch si è tramutato in una sorta di profezia del clima mentale che la globalizzazione e il nuovo ordine economico hanno imposto al mondo»

«Non so dirti che cosa faccia l’arte ecome lo faccia, ma so che spesso ha giudicato i giudici, chiesto ven­detta per gli inno­centi e mostrato al futuro quel che il pas­sato ha sof­ferto, così che non lo si è più dimen­ti­cato. So anche che quando l’arte, qua­lun­que ne sia la forma, rea­lizza que­sto, i potenti ne hanno paura e che, a volte, una simile arte cir­cola tra la gente come una voce e una leg­genda, per­ché dà senso a quel che le bru­ta­lità della vita non sanno spie­gare, un senso che ci uni­sce, per­ché final­mente è inse­pa­ra­bile dalla giu­sti­zia. L’arte, quando fun­ziona così, diventa il punto di incon­tro dell’invisibile, dell’irriducibile, del dura­turo, del corag­gio e dell’onore».
Scrit­tore, dise­gna­tore, cri­tico d’arte, poeta, gior­na­li­sta, sce­neg­gia­tore cine­ma­to­gra­fico, autore tea­trale, John Ber­ger — in Ita­lia per pre­sen­tare Capire la foto­gra­fia (Con­tra­sto) — ha intrec­ciato nella sua lunga esi­stenza l’amore per l’arte e un impe­gno poli­tico vis­suto prin­ci­pal­mente nella forma di un’attenzione costante per gli ultimi. Una pas­sione per la libertà e una ricerca per affi­nare di con­ti­nuo il pro­prio sguardo nei con­fronti del mondo che ne fanno un testi­mone lucido e appas­sio­nato del nostro tempo.

Fin dagli anni Cin­quanta lei spiegò dalle pagine del «New Sta­te­sman» che era stato l’interesse per l’arte a spin­gerla verso la poli­tica e il sociale. «Non sono asso­lu­ta­mente io che tra­scino la poli­tica nell’arte, è l’arte che mi ha tra­sci­nato nella poli­tica», scrisse allora. Come è nato que­sto intrec­cio tra le due grandi pas­sioni della sua vita?

In realtà, da ragazzo più che essere inte­res­sato a quanto acca­deva nella società bri­tan­nica, ne ero impres­sio­nato e addi­rit­tura com­mosso sul piano umano. Avevo un senso di classe per certi versi innato. E que­sto ben prima di appren­dere qual­cosa di poli­tica o di stu­diare arte. Ero stato man­dato in un col­le­gio di quelli che for­ma­vano gli uffi­ciali per l’esercito dell’impero bri­tan­nico: la disci­plina era ter­ri­bile, il clima impron­tato al sadi­smo. A sedici anni non ne potevo più: sono evaso e mi sono iscritto alla scuola di belle arti. Dise­gnavo molto bene fin da bam­bino, ma lì finii per sco­prire ciò che amavo dav­vero. Gli arti­sti e i lavori che mi attrae­vano di più erano quelli con un pre­ciso con­te­nuto poli­tico o sociale.
A Roma, ho apprez­zato Cara­vag­gio, ma all’epoca guar­davo soprat­tutto ad arti­sti che erano quasi miei con­tem­po­ra­nei, i pittori messicani come Diego Rivera. Ma eravamo nel 1943, c’era la guerra e avve­ni­menti come la bat­ta­glia di Sta­lin­grado col­pi­rono pro­fon­da­mente la mia imma­gi­na­zione, come quella di tanti miei coe­ta­nei, e mi spin­sero ad arruo­larmi: dove­vamo com­bat­tere per fer­mare il fasci­smo. Dopo la libe­ra­zione, a Lon­dra, era­vamo in tanti a cre­dere che si dovesse impe­dire che tutto tor­nasse come era stato negli anni Trenta: la crisi eco­no­mica, la minac­cia fasci­sta, l’annuncio della guerra. Mi sono impe­gnato nella lotta con­tro il riarmo nucleare, poi ho ini­ziato a soste­nere gli arti­sti dis­si­denti dell’Urss, di cui facevo uscire clan­de­sti­na­mente le opere dal paese, e i gio­vani della Pri­ma­vera di Praga. Tutta la mia gene­ra­zione sen­tiva che non era suf­fi­ciente pro­te­stare. Biso­gnava agire per cam­biare le cose.

Que­sta scelta, che non l’ha mai abban­do­nata, l’ha por­tata nell’ultimo decen­nio in Chia­pas a incon­trare Mar­cos e a soste­nere i movi­menti fran­cesi con­tro Sar­kozy. Che forma ha assunto nel suo lavoro di scrit­tore e di sag­gi­sta sull’arte e la fotografia?

Credo pro­prio di sì, per­ché prima di essere «arte», un qua­dro o una foto­gra­fia rac­con­tano qual­cosa, con­ten­gono ciò che comu­ne­mente si chiama un mes­sag­gio, un segno tan­gi­bile del mondo e delle per­sone che lo abi­tano. O almeno, è que­sto che cerco quando osservo un qua­dro o un’immagine. Quanto allo scri­vere, penso che nel momento in cui si creano dei per­so­naggi, in realtà si inventa molto poco: si tratta soprat­tutto di osser­vare e ascol­tare — prin­ci­pal­mente di ascol­tare — molte per­sone e poi, diciamo così, di fare un’opera di sin­tesi. C’è poi un altro motivo per cui mi con­si­dero un «nar­ra­tore di sto­rie» piut­to­sto che un roman­ziere. Al suo appa­rire, nell’Inghilterra della fine del XVIII secolo, il «romanzo» rac­con­tava prin­ci­pal­mente le vicende interne alle fami­glie ric­che e ari­sto­cra­ti­che. Non mi inte­res­sava inse­rirmi in una simile pro­spet­tiva, guar­davo piut­to­sto al mistero con­te­nuto nelle sto­rie che si tra­man­dano i mari­nai o i con­ta­dini. I miei per­so­naggi sono dete­nuti, pri­gio­nieri poli­tici o per­sone che vivono per strada, senza casa. O che comun­que si chie­dono quale debba essere il posto che occu­pano nel mondo. Le loro sto­rie ci inter­ro­gano, ci con­du­cono a doman­darci in quale realtà viviamo, in cosa e come potrebbe cam­biare ciò che ci circonda.

A que­sto pro­po­sito, lei ha sot­to­li­neato come nella situa­zione attuale, segnata prima dal domi­nio neo­li­be­rale — da lei defi­nito come «fasci­smo eco­no­mico» -, e poi dalla crisi, si sia ope­rato un «seque­stro del lin­guag­gio»: siamo stati pri­vati anche degli stru­menti per defi­nire una pos­si­bile alter­na­tiva. Dopo la rivolta urbana che ha scosso Lon­dra alcuni anni fa, ha scritto che a quei gio­vani «man­ca­vano le parole» per dire la loro rab­bia. È dav­vero così?

In effetti credo sia uno dei rischi più grandi che cor­riamo oggi: un peri­colo che si ali­menta  di due feno­meni prin­ci­pali. Da un lato, con lo svi­luppo del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, il potere di deci­sione su ciò che avviene a livello mon­diale si è per molti versi con­cen­trato nelle mani di pochi, di un ristretto gruppo di ope­ra­tori eco­no­mici, quando invece prima era arti­colato in più livelli, nei sin­goli Stati e pas­sava attra­verso le scelte dei poli­tici, l’azione dei par­titi. Per­ciò se prima i cit­ta­dini pote­vano inci­dere o almeno influen­zare in qual­che modo le scelte finali, oggi sono stati com­ple­ta­mente esau­to­rati dalla nuova con­fi­gu­ra­zione del potere glo­bale. La «democrazia» nel senso tra­di­zio­nale del ter­mine, non esi­ste più. Anche se i poli­tici con­ti­nuano a par­lare, la loro è sol­tanto una prova di forza for­male, priva di reale signi­fi­cato. Accanto a que­sta tra­sfor­ma­zione deci­siva, ve ne è poi stata un’altra. Rispetto al pas­sato, oggi­giorno tutti noi viviamo pra­ti­ca­mente immersi nel lin­guag­gio dei media: media che risen­tono dell’influenza, e tal­volta del con­trollo diretto, di que­gli stessi ambienti eco­no­mici che gui­dano il mondo. Media che, in mag­gio­ranza, pre­ten­dono di rac­con­tarci la realtà, ma che, a causa del loro legame indis­so­lu­bile con il potere e quindi della loro man­canza di libertà e auto­no­mia, non fanno che costruire un discorso vuoto, un lin­guag­gio dove per il reale non c’è alcuno spa­zio. Tutto ciò ha con­dotto, spe­cie i più gio­vani, a nutrire un forte scet­ti­ci­smo, se non un vero e pro­prio sospetto, non solo nei con­fronti del lin­guag­gio dei media, ma del lin­guag­gio tout court. E, in que­sta situa­zione, come dar loro torto?

Per que­sto ha para­go­nato la cul­tura dell’età della glo­ba­liz­za­zione all’orizzonte clau­stro­fo­bico descritto da Hie­ro­ny­mus Bosch nell’Inferno del suo cele­bre trit­tico con­ser­vato al Prado: un mondo spa­ven­toso senza alcuna via d’uscita?

L’Inferno di Bosch si è tra­mu­tato in una sorta di pro­fe­zia del clima men­tale che la glo­ba­liz­za­zione e il nuovo ordine eco­no­mico hanno impo­sto al mondo: l’orizzonte è del tutto assente, non c’è con­ti­nuità tra le azioni, non ci sono pause né per­corsi, un pas­sato, un futuro. Non solo: non si vede nep­pure di sfug­gita un «altrove» o un «altri­menti», ciò che è dato è del tutto simile a una pri­gione. Restando su que­sto piano, pro­prio par­tendo dal Giar­dino delle deli­zie di Bosch pos­siamo fare una com­pa­ra­zione con l’opera di Bru­gel, che non era esat­ta­mente suo con­tem­po­ra­neo ma non era nem­meno troppo distante da lui. Entrambi erano a un tempo affa­sci­nati e ter­ro­riz­zati da ciò che gli uomini sono in grado di fare ai loro simili, spe­cie se ven­gono inco­rag­giati e messi nella con­di­zione di agire da un potere senza pietà. Se però Bosch dà vita a que­sto incubo, un inferno che non cono­sce alter­na­tive, Bru­gel descrive un orrore simile, ma lo fa ricor­rendo a tante pic­cole sto­rie, quelle che riem­piono tutti i suoi qua­dri.
Non si tratta di una dif­fe­renza da poco, per­ché i pro­ta­go­ni­sti delle sto­rie mostrate da Bru­gel sem­brano con­ser­vare in ogni caso la pos­si­bi­lità di uscire dalla situa­zione ter­ri­bile in cui si tro­vano e que­sto per il solo fatto che l’artista li ha ritratti, ne ha mostrato le vicende. Bosch sem­bra voler chiu­dere gli occhi rispetto al ter­rore che gli suscita il mondo, men­tre Bru­gel esprime in qual­che modo un sen­ti­mento di fra­ter­nità nei con­fronti dei pro­ta­go­ni­sti delle sto­rie che dipinge. È que­sto senso di comu­nità che può fare la dif­fe­renza: l’alternativa a ciò che subiamo ini­zia quando la pen­siamo pos­si­bile, quando ritro­viamo il desi­de­rio di rac­con­tare le nostre «sto­rie» e ascol­tare quelle degli altri.

Il suo sguardo sulle imma­gini foto­gra­fi­che sem­bra nutrirsi di que­sta duplice let­tura. Come spiega in «Capire una foto­gra­fia», dopo il Viet­nam lei met­teva in guar­dia sul fatto che l’essere inon­dati di scatti ter­ri­bili pro­ve­nienti dal fronte non aiu­tava neces­sa­ria­mente a com­pren­dere le cause del con­flitto, impri­gio­nan­doci anzi per certi versi in una sorta di orrore indif­fe­ren­ziato. Oggi, al con­tra­rio, ritiene che le foto pos­sano atti­rare l’attenzione sui con­flitti dimen­ti­cati. Cosa è accaduto?

Credo che dipenda molto dal tipo di imma­gini e dall’epoca in cui ci capita di osser­varle. In alcuni casi, le foto che rac­con­tano una guerra pos­sono avere un’influenza deter­mi­nante sulle per­sone e sul loro modo di misu­rarsi con quel deter­mi­nato con­flitto. Posso fare un esem­pio attuale con il caso di Gaza: senza alcune imma­gini che ci sono arri­vate dalla Stri­scia, anche nell’ultimo anno, non ci saremmo resi conto di ciò che stava avve­nendo. Più in gene­rale, con ciò che ho scritto dopo il Viet­nam, inten­devo riflet­tere sul fatto che le foto­gra­fie di guerra illu­strano molto bene «i risul­tati» dei con­flitti, ma non ci dicono nulla delle cause che li hanno sca­te­nati e non neces­sa­ria­mente l’indignazione che pro­vo­cano ci con­duce ad agire. A volte, la causa prima che ha pro­dotto il momento ter­ri­bile che ci è mostrato, perde la sua valenza poli­tica e la foto diventa una testi­mo­nianza della con­di­zione umana in gene­rale. Un’accusa con­tro tutti e, quindi, quasi auto­ma­ti­ca­mente con­tro nessuno.

il manifesto, 30 ottobre 2014

http://ilmanifesto.info/un-irriducibile-storyteller/

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