La strategia israeliana degli accordi violati

Noam Chomsky

Il 26 agosto Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) hanno firmato un accordo per il cessate il fuoco dopo cinquanta giorni di bombardamenti israeliani su Gaza, che hanno provocato 2.100 vittime tra i palestinesi. L’accordo prevedeva la fine delle azioni militari da parte di Israele e Hamas e un allentamento dell’assedio con cui da anni Israele soffoca Gaza. Questo però è solo il più recente degli accordi che sono stati firmati dopo ogni periodica escalation del costante attacco israeliano a Gaza. Da quasi dieci anni si ripete lo stesso schema: Israele viola gli accordi finché i suoi abusi provocano la reazione di Hamas, a cui risponde con una brutalità ancora più feroce: la strategia israeliana degli accordi violati. Nel gergo israeliano queste escalation si chiamano “tagliare il prato”.

Questa dinamica è cominciata con l’accordo tra Israele e l’Anp del novembre del 2005, che prevedeva l’apertura dei valichi di Gaza, il ripristino dei collegamenti con la Cisgiordania e la ricostruzione dell’aeroporto di Gaza. L’accordo era stato raggiunto poco dopo il ritiro israeliano dalla Striscia. Dov Weisglass, consigliere dell’allora primo ministro Ariel Sharon, spiegò ad Ha’aretz le ragioni del ritiro israeliano: “Serve a congelare il processo di pace e a impedire l’istituzione di uno stato palestinese e qualsiasi discussione sui profughi, i confini e Gerusalemme.

L’intera questione dello ‘stato palestinese’ è stata rimossa a tempo indeterminato dalla nostra agenda, e tutto con l’approvazione ufficiale degli Stati Uniti”. Per più di vent’anni Israele ha avuto come obiettivo la separazione di Gaza dalla Cisgiordania, in aperta violazione degli accordi di Oslo del 1993. Per capire perché basta guardare una carta geografica. Separate da Gaza, le enclave palestinesi in Cisgiordania non hanno alcun accesso al mondo esterno. Sono circondate da due potenze ostili, Israele e Giordania, entrambe fedeli alleate degli Stati Uniti. Inoltre Israele ha assunto il controllo della valle del Giordano costruendo insediamenti, scavando pozzi e assicurandosi che la regione, comprendente gran parte delle terre coltivabili della Cisgiordania, sia assorbita nel suo territorio assieme alle altre aree occupate.

Israele potrebbe ritenere che la sua occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania sia ormai a uno stadio così avanzato che concedere una limitata forma di autonomia alle enclave rimaste in mano ai palestinesi non creerebbe troppi problemi. C’è un fondo di verità nell’osservazione del primo ministro Benjamin Netanyahu: “Molti elementi nella regione sono oggi convinti che Israele non è un nemico ma un alleato”. Con ogni probabilità il riferimento era all’Arabia Saudita e agli altri stati del golfo Persico.

Secondo il giornalista Akiva Eldar, però, “tutti questi ‘elementi nella regione’ sono anche convinti che non sia possibile alcuna svolta diplomatica senza un accordo per uno stato palestinese”. Questo punto non compare nei piani di Israele ed è in aperto conflitto con il programma elettorale del 1999 del Likud, mai smentito, che “rifiuta nel modo più categorico l’istituzione di uno stato arabo palestinese a ovest del Giordano”.

È opinione comune che, se l’accordo sui due stati è ormai impossibile, il risultato sarà un unico stato a ovest del Giordano. Alcuni palestinesi sono favorevoli a questa ipotesi e pensano di poter lanciare una campagna per la parità dei diritti, secondo il modello della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Molti commentatori israeliani avvertono che il conseguente “problema demografico”, determinato dal fatto che il tasso di natalità tra gli arabi è più alto di quello tra gli ebrei e dal calo dell’immigrazione ebraica, minerà la sopravvivenza di uno “stato ebraico democratico”.

Ma l’alternativa più realistica alla soluzione dei due stati è che Israele insista con la strategia degli ultimi anni: appropriarsi di qualsiasi cosa abbia valore in Cisgiordania, impedendo le concentrazioni di popolazione palestinese. Questo dovrebbe scongiurare il temuto “problema demograico”. Le aree occupate includono Gerusalemme e i suoi dintorni, l’area compresa all’interno del muro di separazione illegale e probabilmente la valle del Giordano.

Con ogni probabilità Gaza rimarrà sottoposta a un duro assedio e separata dalla Cisgiordania. E le alture del Golan, annesse come Gerusalemme in aperta violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, entreranno tranquillamente a far parte del Grande Israele. Nel frattempo i palestinesi della Cisgiordania resteranno rinchiusi in ghetti invivibili.

Da un secolo la colonizzazione della Palestina si basa soprattutto sul principio pragmatico di affermare senza clamore il fatto compiuto, che il mondo alla fine sarà costretto ad accettare. Questa strategia ha avuto un grande successo e tutto lascia pensare che continuerà finché gli Stati Uniti garantiranno il necessario sostegno militare, economico, diplomatico e ideologico. Quanti hanno a cuore i diritti dei palestinesi oppressi dovrebbero cercare di cambiare le politiche statunitensi, che non è affatto impossibile.


Fonte: Internazionale 1073 | 17 ottobre 2014

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