I sintomi di fascismo in Israele hanno raggiunto un nuovo picco durante l’operazione a Gaza – Gidi Weitz intervista Zeev Sternhell

Zeev Sternhell,vincitore del Premio Israele, teme il collasso della democrazia in Israele, e fa un confronto tra l’attuale clima politico e quella del 1940 in Francia. Egli teme che il tempo che ci è rimasto per invertire questa preoccupante tendenza stia finendo.

All’una del pomeriggio di un giorno del settembre 2008 il professor Zeev Sternhell ha aperto la porta della sua casa in via Agnon a Gerusalemme per entrare in un cortile interno. Appena ha girato la maniglia un’assordante esplosione ha scosso l’edificio. Sternhell, che qualche mese prima aveva ricevuto il premio Israel in scienze politiche, è stato leggermente ferito da una bomba nascosta in un vaso di fiori.

Un anno dopo, la polizia ha arrestato il responsabile dell’attentato: Yaakov (Jack) Teitel, residente in una colonia della Cisgiordania. Teitel era stato in precedenza un informatore del dipartimento ebraico del servizio di sicurezza dello Shin Bet. Durante l’interrogatorio è emerso che tra i suoi crimini c’era anche l’uccisione di due palestinesi.

“Ho scelto Sternhell come obiettivo perché è una persona importante, è un professore di sinistra”, ha spiegato Teitel a chi lo stava interrogando. “Non volevo ucciderlo, perché lo avrebbe trasformato in un martire. Io volevo esprimere un’opinione.” Teitel è stato condannato a due ergastoli. Dopo l’attentato, Sternhell in ospedale ha dichiarato che “l’atto in sé rivela la fragilità della democrazia in Israele.”

Gli ho chiesto ora se pensa che molto presto non potremo più dichiarare che siamo l’unica democrazia del Medio oriente.

“Certo, non lo potremo più dire” ha risposto, aggiungendo ” Non ci sono dubbi che le principali autorità statali non agiscono con la stessa decisione contro la destra che contro la sinistra, o a oriente della linea verde [la Cisgiordania occupata. N.d.Tr.] che a occidente [nello Stato di Israele. N.d.Tr.]. Nel complesso, queste istituzioni si percepiscono come molto più vicine agli obiettivi del progetto dei coloni che allo scopo di avere in Israele una maggioranza ebraica e una democrazia che garantisca ad ognuno l’uguaglianza. Il pericolo è che nei tempi buoni, quando tutto è evidentemente normale, si può sorvolare sulla situazione. Ma durante una crisi, come quella attuale, chiunque manifesti una critica all’ordine “normale” ha paura di manifestarla in pubblico.

Zeev Sternhell è nato in Polonia nel 1935. Suo padre è morto durante la Seconda Guerra Mondiale; sua madre e sua sorella sono state uccise dai nazisti. Sternhell venne nascosto nel ghetto in casa di parenti che, per proteggersi, adottarono una nuova identità come cattolici grazie a documenti falsi. Egli conservò questa nuova identità anche dopo la guerra, e fu battezzato. Nel 1946 arrivò in Francia dalla Polonia con un treno della Croce rossa. Imparò rapidamente il francese e si immerse nello studio della cultura della repubblica e della storia, ma continuava a sentirsi come un escluso. Nel 1951, a sedici anni, decise di emigrare da solo nel nascente Stato ebraico.

Sternhell fece il servizio militare nella brigata di fanteria Golani e combatté come ufficiale nella guerra del Sinai nel 1956. Come ufficiale riservista dei carristi, partecipò alla guerra dei Sei Giorni nel 1967, a quella dello Yom Kippur nel 1973 e alla prima guerra del Libano, nel 1982. Nel frattempo, la sua carriera accademica a livello internazionale decollò. Sternhell studiò il collasso del moderno ordine liberaldemocratico nel XX secolo, ed ha anche ricontestualizzato il fascismo, vedendo questo fenomeno non come un accidente casuale avvenuto dopo la Prima Guerra Mondiale, ma come un approccio ideologico originato nel XIX secolo.

Nel 1983 il suo libro “Né destra né sinistra: l’ideologia fascista in Francia” (pubblicato originariamente in francese) fece molto clamore in Francia. La tesi di Sternhell era che il regime di Vichy, che aiutò a perseguitare gli ebrei, non fu imposto ai francesi, ma sorse da una corrente ideologica che rifletteva i desideri nascosti delle masse. Egli sostenne che il fascismo era nato proprio in Francia, non in Italia. Il suo libro, poi rivisto ed ampliato, continua ad essere discusso in Francia e altrove.

Nel 1977, con l’ascesa al potere in Israele di Menachem Begin e del Likud, Sternhell si unì a un circolo di intellettuali che cercava di convincere il Partito Laburista, all’opposizione, ad adottare un atteggiamento pacifista. Per anni è stato esplicitamente critico riguardo al progetto di colonizzazione e un sostenitore dell’urgente necessità della creazione di uno Stato palestinese. Queste posizioni, sostenute da una figura pubblica della sua importanza, spinse Teitel a scegliere lui per un’azione che voleva “esprimere un’opinione”.

Democrazia erosa

Lei ha visto segni di un nascente fascismo in Israele negli scorsi mesi?

“In primo luogo, mi lasci dire che ci sono cose peggiori del fascismo, e che non tutto quello che è cattivo è fascismo. Nell’Italia sotto Mussolini, che è il prototipo del fascismo, probabilmente furono uccise dal regime non più di qualche dozzina di persone. Non c’erano campi di concentramento. L’arte e la cultura fiorivano. Prima della guerra, la vita era assolutamente accettabile, compresa la vita degli ebrei, fino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938. La percentuale degli ebrei nel partito fascista era più alta di quella sul totale della popolazione. E gli italiani non sono stati veramente responsabili del peggioramento successivo delle condizioni di vita degli ebrei – non come in Francia, dove la sorte degli ebrei è una responsabilità storica totalmente dei francesi, anche se loro rifiutano di riconoscerlo.

“Come ho detto, ci sono cose peggiori del fascismo. Non c’è bisogno di questa esatta definizione. Per esempio, la gente dice che se non c’è un partito unico, non si tratta di fascismo. Questo è un controsenso. Un partito è un mezzo per arrivare al potere, non un mezzo in sé per comandare. Quello che bisogna analizzare in questo contesto è la resilienza della democrazia – e la democrazia israeliana ha cominciato ad essere progressivamente erosa, fino ad arrivare al suo punto più alto durante l’attuale guerra. Gli indicatori [del fascismo] di cui mi ha chiesto ci sono sicuramente.”

Di tutti i fenomeni che lei ha riscontrato, qual è secondo lei il peggiore?

“Quello a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane è stato l’assoluto conformismo da parte della maggior parte degli intellettuali israeliani. Hanno semplicemente seguito il gregge. Per intellettuali intendo docenti e giornalisti. Il fallimento intellettuale dei mass media in questa guerra è totale. Non è facile andare contro il gregge, puoi facilmente essere travolto. Ma il ruolo degli intellettuali e dei giornalisti non è quello di applaudire il governo. La democrazia crolla quando gli intellettuali, la classe colta, si allinea con i violenti, o li guarda con simpatia. Qui la gente dice “Non è così terribile, non c’è niente di simile al fascismo – abbiamo libere elezioni, e partiti, e un parlamento.” Eppure, noi abbiamo raggiunto un punto critico in questa guerra, nella quale, senza che nessuno glielo chiedesse, ogni tipo di istituzione universitaria ha improvvisamente chiesto che l’intera classe accademica annullasse il proprio senso critico.”

Pensa che ciò sia dovuto alla paura?

“Paura delle autorità, paura di subire eventuali penalizzazioni di bilancio e paura di pressioni dalla piazza. La personificazione della vergogna e del disonore si è materializzata quando il preside della facoltà di Diritto del’università di Bar-Ilan ha minacciato di sanzionare uno dei suoi colleghi perché quest’ultimo ha aggiunto a un annuncio in merito alle date degli esami alcune frasi nelle quali esprimeva pena per l’uccisione e la perdita di vite umane da entrambe le parti. Essere afflitti per la perdita di vite umane da entrambe le parti è ormai un atto sovversivo, un tradimento. Stiamo arrivando ad una situazione di democrazia puramente formale, che continua a sprofondare a livelli sempre più bassi.”

Quando supereremo la linea oltre la quale la democrazia implode?

“La democrazia raramente cade per una rivoluzione. Non in Italia, non in Germania e neppure in Francia con il regime di Vichy – che è una questione cruciale, perché la Francia era una nazione democratica che è caduta nelle mani della destra con l’appoggio della grande maggioranza della popolazione. Non è stata la sconfitta della Francia ad aver generato questa ideologia. E’ stato il risultato di un processo graduale nel quale un’ideologia nazionalista estremista ha preso forma, un approccio radicale che percepisce la nazione come un corpo organico. Come un albero in cui gli individui sono come le foglie e i rami – in altre parole, le persone esistono solo grazie al tronco. La nazione è un corpo vivente.

“In Israele, il fattore religioso rafforza la particolarità nazionale. Non è una questione di fede, ma di identità; la religione sostiene la tua identità originale. E’ essenziale capire che senza questo nazionalismo radicale non c’è fascismo. Io faccio anche una distinzione tra Fascismo e Nazismo, perché il fascismo non implica necessariamente una dottrina della razza. Mi lasci spiegarlo in termini chiari: il Fascismo è una guerra contro l’Illuminismo e i valori universali; il Nazismo è stato una guerra contro la razza umana.”

Lei vede una negazione dei valori universali e una guerra contro l’Illuminismo negli ultimi anni in Israele?

“Questo fatto grida vendetta. Israele è uno straordinario laboratorio nel quale si vede la graduale erosione dei valori illuministici, vale a dire i valori universali che ho citato. Lei vede la negazione [di questi valori.N.d.Tr.], che è sempre esistita ai margini, che sta lentamente prendendo piede, finché un giorno domina il centro.”

Il caso della Francia

“Prenda in considerazione la legge sulla nazione proposta da Zeev Elkin [membro della Knesset per il Likud. La proposta di legge intende definire Israele come Stato esclusivamente del popolo ebraico]; la campagna contro la Corte suprema, un organo che si basa sull’idea che ci sono norme che trascendono il potere esecutivo; la [proposta di] legge contro le ONG di sinistra, che è una brutale e violenta erosione della libertà di parola; e le varie manifestazioni di una caccia alle streghe, quando un giornalista [del giornale Haaretz] come Gideon Levy ha bisogno di una guardia del corpo.

“Prenda in considerazione la richiesta del primo ministro Benjamin Netanyahu che il presidente palestinese Mahmoud Abbas riconosca Israele come uno Stato ebraico. Che vuol dire obbligare i palestinesi ad accettare che sono storicamente inferiori, che sarebbe come dire:”Voi avete perso il vostro paese nel 1948-49, non è vostro. Voi vivete qui perché non vi stiamo espellendo, ma questo è uno Stato ebraico.” Gli arabi sono cittadini, ma non è il loro paese. In altre parole, si crea una distinzione tra appartenenza nazionale e cittadinanza. Chiunque può essere un cittadino, ma noi siamo i padroni.

Perché il caso della Francia è così interessante? Perché questo è ciò che è stato fatto agli ebrei nel 1940, benché alcuni vivessero là da centinaia di anni. Gli venne detto:” Voi avete ricevuto una carta d’identità e un passaporto; adesso ve li tolgo. Non posso annullare la francesità di un francese, ma voi non siete francesi, e la categoria di cittadinanza è artificiosa.” Questo è stato fatto a un mio zio che era immigrato in Francia nel 1929, insieme a mia zia, per studiare medicina. E’ successa la stessa cosa in Germania.

“E’ esattamente la stessa cosa che noi stiamo dicendo adesso agli arabi. La possibilità di annullamento della cittadinanza esiste anche qui. Perché gettare in faccia come fango a questi cittadini israeliani lo Stato ebraico? In effetti, il loro comportamento è stato assolutamente corretto, considerando i problemi che devono affrontare, con familiari in Cisgiordania e Gaza, e la pressione alla quale sono sottoposti. Per parte mia, non sono a conoscenza dell’esistenza di una rete di spionaggio degli arabi israeliani. E’ vero che non cantano l’inno nazionale e non sventolano la bandiera e non sono membri dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ma in quanto cittadini essi adempiono ai loro obblighi.”

Qual è secondo lei il peggiore scenario per la fine della democrazia israeliana?

“La democrazia non si definisce in base al diritto di votare ogni tanto. Si verifica ogni giorno in base ai diritti umani. Tutto il resto è secondario, perché tu puoi facilmente istituire un regime dittatoriale, mettendo la tua scheda nell’urna, o votare per buttare fuori gli arabi dal parlamento. Bisogna ricordare che la democrazia non esiste più da molto tempo nei Territori [occupati. N.d.Tr.]. Lì i palestinesi non hanno diritti umani, noi li governiamo con la forza, e dopo che tre ragazzi [ebrei] sono stati assassinati si può trasformare la vita della gente in un inferno, perché puoi fare quello che vuoi. Questo è durato per decenni, e ciò corrompe.

“Queste regole sono anche qui, all’interno della Linea Verde, perché i nostri figli e nipoti passano la maggior parte del loro servizio militare nei Territori [occupati. N.d.Tr.]. Là c’è una forza di polizia coloniale, rappresentata dalla brigata Kfir [brigata dell’esercito israeliano utilizzata nei Territori occupati e a Gaza. N.d.Tr.] e dalla polizia di frontiera, ma non è abbastanza. La brigata Kfir e la polizia di frontiera non sono state mandate a Gaza, perché non sanno più come combattere. Non sono più soldati. I parà sono stati spostati dal campo d’addestramento sulle Alture del Golan per cercare i tre ragazzi rapiti – non per cercarli, in realtà, perché si sapeva già che non erano più vivi, ma per rendere insopportabile la vita della popolazione locale e mostrarle chi è che comanda. Quello che succede là si infiltra costantemente in Israele. Le democrazie non collassano improvvisamente, affrontano serie crisi. Ci potremmo ritrovare in una seria crisi nella quale tutta la baracca andrà in fumo.

Che sarebbe seguita dalla nascita di una dittatura?

Non necessariamente, o affatto. Il governo continuerà a comandare, conservando la maggioranza in parlamento a forza di decreti legge e con la creazione di una netta segregazione tra ebrei e non ebrei, con l’imposizione della censura, l’intimidazione dei dissidenti, dei media, delle università – tutte entità che si suppongono autonome.”

Ma lei dice che sta succedendo proprio adesso.

“Certo che sta avvenendo adesso, ma può raggiungere il punto di ebollizione. L’acqua è davvero molto calda. Non è ancora bollente, ma potrebbe esserlo già domani mattina. E’ sul punto di diventarlo.

E’ d’accordo che l’Operazione “Margine di protezione” [l’ultimo attacco contro Gaza. N.d.Tr.] era una guerra inevitabile?

“E’ stata una guerra assolutamente voluta, caotica e approssimativa, e anche questo dovrebbe essere indagato. Qualcosa si sarebbe dovuto fare appena loro [Hamas] hanno iniziato a lanciare i razzi. Innanzitutto, non c ‘era nessun bisogno di umiliare la popolazione ed arrestare 500 persone che erano state liberate nello scambio per Shalit…Hamas ha anche colto l’occasione per dimostrare che è l’unica forza che lotta e che Abbas è un “collaborazionista”. Bisognava anche rispondere ai razzi. Si poteva fare senza il massiccio uso dell’aviazione? Non lo so, non ho abbastanza informazioni. Ma questa guerra, l’entrata delle forze di terra, è stata una scelta.”

Cosa ne pensa della minaccia dei tunnel di attacco?

“Nessuno ne aveva parlato prima, non era quello lo scopo della guerra. Lo scopo era di avere la pace in cambio di pace. Il governo non voleva l’invasione di terra. E’ stata proprio un’operazione improvvisata. C’era la pressione della destra sul governo. Forse se Bibi [il primo ministro Netanyahu. N.d.Tr.] non fosse entrato [nella Striscia di Gaza. N.d.Tr.] la sua situazione come primo ministro sarebbe stata terribilmente indebolita. Ogni persona ragionevole dovrebbe adesso sfruttare la differenza tra la nostra capacità e la loro di iniziare un processo per una ragionevole soluzione del conflitto.”

“Il bastone e la carota”

Ma come arrivare ad una situazione negoziale con un’organizzazione fondamentalista, estremista religiosa?

“In linea di principio, penso che noi dovremmo parlare con chiunque, se ciò può portare a risultati. Credo che Israele avrebbe potuto trarre profitto dalla formazione del governo di unità nazionale Fatah- Hamas e dargli un aiuto, qualcosa con cui potesse lavorare. Non gli abbiamo dato niente, solo la richiesta di riconoscere Israele come Stato ebraico.

“Hamas è Gaza; Hamas non è più solo un’organizzazione terroristica. Ha messo in piedi una provincia, una regione sotto il suo controllo. Ha investito tutti i suoi sforzi nella guerra contro Israele, ma bisognerebbe essere onesti su tutta questa storia. Cerco di essere il più possibile obiettivo. E’ vero che Hamas è un’organizzazione estremamente fondamentalista, un’organizzazione omicida di shahid [martiri] – ma noi dobbiamo vivere con quella gente. Abbiamo bisogno del metodo del bastone e della carota. Abbiamo usato abbondantemente il bastone, ma io non ho ancora visto la carota. Abbas sta morendo per noi perché gli concediamo qualcosa. Forse possiamo arrivare ad un accordo, come parte della ricostruzione di Gaza. Non c’è nessun bisogno di chiedere ad Hamas di alzare bandiera bianca. Abbiamo bisogno di una prospettiva a lungo termine che comprenda una certa generosità nei confronti dei palestinesi. Potrebbe esserlo la politica del blocco e la creazione di intollerabili condizioni che alimenta Hamas? Dobbiamo fare qualcosa di concreto nei nostri rapporti con i palestinesi e con gli arabi in generale.”

Come cosa?

” La prima cosa è smettere di aumentare la presenza ebraica nei Territori [occupati. N.d.Tr.]. Questo per mostrare loro che vogliamo veramente i due Stati. E per dimostrare che facciamo sul serio, allentare il blocco di Gaza con la supervisione degli uomini di Abbas ai valichi, e lasciar respirare la popolazione. Ed anche avere rapporti nei quali là le persone siano trattate come esseri umani al nostro stesso livello.

Potrebbe un governo che non è in grado di spostare tre roulotte in Cisgiordania essere capace di eliminare tutte le colonie?

“Le colonie sono un cancro. Se la nostra società è incapace di mettere insieme forza, potere politico e fermezza mentale necessari per spostare qualche colonia, ciò starà ad indicare che la storia di Israele è finita, che la storia del Sionismo come noi lo intendiamo, come io la intendo, è finita.”

Quanto ci rimane prima della fine della storia?

Pochi anni. Israele è l’ultimo paese coloniale dell’Occidente. Per quanto tempo ciò potrà durare? Se non fosse per la memoria dell’Olocausto e la paura di essere accusata di anti-semitismo, l’Europa avrebbe già da tempo boicottato le colonie. Io vorrei iniziare facendo evacuare l’università di Ariel [colonia israeliana in Cisgiordania. N.d.Tr.], perché è facile da fare. E’ più facile eliminare un’università che tre roulotte. E’ un atto simbolico. Quello sciagurato college è stato trasformato in università per dimostrare qualcosa.

“Perchè io voglio così tanto una frontiera tra i due paesi? Per prevenire l’emergenza di uno Stato unico qui, perché con uno Stato unico ci sarà un regime di apartheid. In fin dei conti, nessuno sta giocando con l’idea che ci sarà un’eguaglianza di diritti tra Nablus e Tel Aviv. Qui ci sarà una guerra civile, nel migliore dei casi, e nel peggiore ci sarà uno Stato di apartheid nel quale noi domineremo gli arabi senza la dimensione di transitorietà che è ancora legata ai Territori [occupati. N.d.Tr.] – benché sia ovvio per chiunque con gli occhi sulla testa che la transitorietà è da tempo svanita e che c’è una situazione di apartheid in Cisgiordania.”

“La loro tragedia e la nostra”

“Lei ha sviluppato [un discorso sulle] nostre colpe. Quali responsabilità attribuisce ai palestinesi?

“I commentatori di un giornale arabo recentemente mi hanno chiesto del diritto al ritorno. Gli ho risposto che è morto, un’illusione distruttiva. “Perché non lasciare ai profughi una speranza?” mi hanno chiesto. Ho risposto:”Quella speranza bloccherà ogni accordo.” Qualche anno fa, in un incontro con intellettuali arabi ad Haifa, ci siamo trovati d’accordo su praticamente tutto finché siamo arrivati al diritto al ritorno. Uno di loro ha detto:”In pratica lei mi sta chiedendo di dire a un mio parente, che una volta viveva in questa strada e che ora è un rifugiato a Sidone che non potrà mai più tornare qui?” E’ proprio compito suo, ho risposto, dire loro che non potranno mai più tornare ad Haifa, o a Ramle, o a Jaffa. Finchè si aggrapperanno alla nozione del diritto al ritorno impediranno alla maggioranza degli ebrei di Israele che vogliono porre fine a tutto questo di lottare per un accordo. Questo macigno, di cui non si possono disfare, è la loro tragedia e la nostra.”

Ma l’atteggiamento dei palestinesi a volte sembra di rifiuto ossessivo.

“E’ vero che i palestinesi non hanno la forza, la classe dirigente, l’elite necessaria, la forza mentale di riconoscere il fatto che il 1949 è stato la fine del processo. Non devono vederlo come un fatto giusto, ma devono capire che è la fine. Non hanno la forza di comprenderlo, e noi cospargiamo di sale le loro ferite facendo sempre nuove richieste e creando una situazione intollerabile nei Territori [occupati. N.d.Tr.]. Noi stiamo coltivando la loro ostilità.”

Dopo il breve episodio che ha coinvolto gli intellettuali del Partito Laburista, Sternhell e altri hanno tentato di formare un partito social-democratico su modello del Meretz. Quando i loro tentativi sono falliti, egli ha terminato la sua breve relazione con i politici israeliani per sempre.

C’è qualcuno tra i politici israeliani che lei teme?

“Il gruppo guidato da [Naftali] Bennet e da [Uri] Ariel [i leader di un partito religioso ultranazionalista che fa parte del governo Netanyahu, in cui Bennett è ministro dell’Economia e delgi Affari religiosi. N.d.Tr.] mi fa paura – penso che siano estremamente pericolosi. Penso che [Avigdor] Lieberman sia un po’ meno pericoloso, perché gli manca il fervore religioso. Ma loro e la destra del Likud sono veramente gente pericolosa e odiano profondamente gli arabi, in un modo che non consente la coesistenza. Lei mi chiede se ci sono somiglianze tra Marine Le Pen in Francia e Bennett – ovviamente ci sono. In un certo senso lei è una pericolosa gauchiste rispetto a lui. Se Netanyahu vuole davvero entrare nei libri di storia, deve smantellare l’alleanza con la destra, fare una scissione nel Likud e mettere in piedi un governo con l’appoggio della sinistra, e non vergognarsi di contare sul voto arabo.”

Netanyahu è capace di imitare de Gaulle e restituire i Territori [occupati.N.d.Tr.]?

“Quando de Gaulle ha restituito l’Algeria [agli algerini. N.d.Tr.], era ancora fuori dai libri di storia. Netanyahu non è ancora uscito dai libri di fumetti. E’ un paragone molto problematico. Ma se Netanyahu non fa qualcosa di importante, cosa si lascerà dietro?”

Lei si definisce un sionista?

“Certo, sono rimasto sionista. Forse scioccamente. L’obiettivo del Sionismo era creare una casa sicura per gli ebrei, ma per molti anni abbiamo vissuto nel posto più insicuro al mondo per gli ebrei. Il Sionismo voleva costruire una casa sicura per gli ebrei. Ma anche una casa degna di questo nome, una casa decente di cui si potesse essere fieri, una casa in cui non calpestare qualcun altro o eliminarlo. Già negli anni Venti era chiaro che gli arabi non ci volevano e che la realizzazione del Sionismo non poteva dipendere dal loro beneplacito. Siamo arrivati alla guerra, l’abbiamo vinta ed è stata la fine di quel capitolo e l’inizio di un altro, nuovo.

“Continuare con questo per decenni dopo la costituzione dello Stato è la rovina del Sionismo. Quello che sta succedendo adesso nei Territori [occupati.N.d.Tr.] non è Sionismo, è l’incubo del Sionismo. Se il risultato è uno Stato unico qui, tra il mare e il fiume Giordano, ci sarà una guerra civile o uno Stato di apartheid. In entrambi i casi, lo Stato sionista come lo intendo e come lo vorrei, non esisterà. Qui ci sarà qualcos’altro. La mia consolazione e che io non ci sarò più per vederlo.”

Data l’attuale clima prevalente nell’opinione pubblica e la sua personale esperienza, non ha paura di parlare in questo modo?

“Se devo aver paura di dire quello che ho appena detto, e di dirlo in pubblico in faccia alla gente, allora la nostra storia qui è finita.”

Traduzione di Amedeo Rossi

13/08/2014, Haaretz

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