Nasci, consuma, crepa

Abito (co-abito in verità) a 600 metri di altitudine, su una collina, la “Collina dei conigli” come l’ho battezzata perché insieme a noi abitano 8 conigli, che stanno liberi sul prato davanti casa (e non si mangiano, mai!). Allora mio figlio mi dice: “Vedrai mamma che stando qui scoprirari la comodità dell’acquito on-line, non dovrai prendere l’auto e scendere a valle per comperare!”.

 Nell’articolo che vi propongo (dopo averlo un po’ accorciato, e se non l’avete letto quando è uscito approfittatene), a un certo punto chi scrive fa una domanda retorica: “Alzi la mano chi non ha mai fatto un ordine su Amazon…”, bene, io potrei alzare la mano. Non compro on-line (così come cerco di non andare nei centri commerciali o nei supermercati, perché sono costruiti per costringerci a comprare); non mi piace l’idea di comprare qualcosa senza prima toccarla e vederla bene, leggerne l’etichetta per verificarne i componenti e l’origine (che sia cibo, che sia un indumento). E poi, naturalmente, seguo le indicazioni della semplicità volontaria: “Mi serve davvero?” e “Comprare è l’ultima risposta”. Capite bene che la vendita online si basa e funziona proprio sul concetto contrario, sull’acquisto compulsivo (o d’impulso, se il termine “compulsivo” vi fa pensare a una malattia, quale è, in effetti). Il meccanismo è: penso che vorrei qualcosa, ne digito il nome sul mio pc, vedo l’oggetto del desiderio, lo metto nel carrello (hanno perfino disegnato un piccolo carrellino, fatto proprio come quello di un supermercato!), fornisco i miei dati affinché mi succhino il denaro senza che io me ne accorga et voilà! Magari sono in ufficio… frustrata da un lavoro che non mi piace… con colleghi che detesto… mi consolo così (come quasi sempre, quando si compra qualcosa…).

A parte tutto questo discorso, che potrete approfondire leggendo il mio ultimo libro (che s’intitola Consigli contro gli acquisti, ovviamente!), ora ho motivazioni forse più forti, che interessano chi non recepisce il messaggio “ho davvero bisogno di…?”, chi non vuole sentir parlare di decrescita perché sennò “l’economia va a pallino” eccetera. Ciò che ho letto con orrore – e immaginavo già qualcosa, ma non così! – e che vi propongo è un articolo sulla multinazionale Amazon. Vi sono testimonianze autentiche, perché una giornalista si è fatta assumere (temporaneamente) in una filiale gallese. Si legge di diritti – negati – dei lavoratori, di turni di lavoro massacranti, di licenziamenti ingiusti…  Non dico altro, limitandomi a proporre un boicottaggio, se non degli acquisti tout court  (magari nella giornata del 2 dicembre, quella in cui si vende di più online, lo scopro dall’articolo), almeno di quelli tramite Amazon. Perché? Leggete qui:

Fonte: “Gli schiavi di Babbo Natale”, “Internazionale”, 20 dicembre 2013

Contratti precari, turni di lavoro massacranti, licenziamenti facili. Una giornalista dell’“Observer” racconta quello che ha visto lavorando per una settimana in un magazzino di Amazon

La prima cosa che vedo nel magazzino di Amazon a Swansea, in Galles, è un pacco di pannolini per cani. La seconda cosa che vedo è un enorme vibratore di plastica rosa. La superficie del magazzino è di 74mila metri quadrati o, secondo l’unità di misura standard di Amazon, l’equivalente di undici campi da calcio […]. Insomma, c’è posto per un sacco di roba inutile. Sul sito britannico di Amazon sono in vendita cento milioni di articoli. Qualsiasi cosa possiate immaginare, Amazon la vende. E se c’è qualcosa che non riuscite a immaginare, Amazon vende anche quella. Quando si passano dieci ore e mezza al giorno a prelevare articoli dagli scaffali ci si ritrova davanti ai recessi più oscuri del consumismo, agli oggetti più stravaganti, a tutto ciò che si può comprare con il denaro: braccialetti della fortuna degli One Direction, tutine per cani, grattiere per gatti a forma di console per dj, affetta-banane […] cibi biologici per cani vegetariani, per cani diabetici e per cani obesi, televisori da 52 pollici, confezioni di acqua da 6 bottiglie importate dalle Fiji […]. Amazon è il futuro dello shopping: […] e pagare meno tasse possibili è il futuro del business globale. Un futuro in cui le multinazionali avranno più potere dei governi.

Le ragioni del successo

Alzi la mano chi non ha mai fatto un ordine su Amazon durante una pausa al lavoro, o magari guardando la tv in pigiama, per poi vedersi recapitare a distanza di due giorni – piccolo miracolo della vita moderna – il caratteristico pacchetto di cartoncino marrone. C’è un motivo se Amazon ha successo: è bravissima in quello che fa. “[…] Ha risolto il problema di come immagazzinare decine di migliaia di prodotti e di come farli arrivare alle persone in tempo, […] nelle ultime 24 ore abbiamo prelevato e imballato 155mila articoli. Domani, 2 dicembre (il giorno dell’anno in cui si fanno più acquisti on-line), arriveremo a 450mila. […] Per l’azienda il Natale è come il Vietnam: una prova di carattere, una sfida capace di mettere in ginocchio e gettare nella disperazione anche il manager della distribuzione più esperto. Nelle ultime due settimane Amazon si è affidata a più di 15mila collaboratori esterni solo nel Regno Unito. Nei prossimi tre anni raddoppierà il numero dei magazzini nel paese. […] L’obiettivo è confermare la crescita che ha fatto diventare l’azienda una delle più importanti multinazionali del pianeta.

In questo momento a Swansea si fanno quattro turni di almeno cinquanta ore a settimana. Gli operai prelevano gli articoli dagli scaffali e li imballano uno a uno. O, come ha scritto qualche settimana fa il “Daily Mail”, fanno “gli elfi di Amazon” nella “grotta di Babbo Natale del ventunesimo secolo”. Se Babbo Natale pagasse i suoi elfi temporanei il minimo salariale, li spremesse ai limiti della direttiva europea sull’orario di lavoro e li licenziasse se prendono tre permessi per malattia in tre mesi, sarebbe un paragone calzante. [Ma] Babbo Natale non è stato mai convocato dalla commissione dei conti pubblici della camera dei comuni né definito “immorale” dai parlamentari del Regno Unito.

Per una settimana sono stata anch’io un elfo di Amazon. […] Il primo giorno di lavoro non ci siamo limitati a spedire 155mila articoli. Abbiamo prelevato e imballato i prodotti giusti e li abbiamo mandati ai clienti giusti. “Non abbiamo bucato un solo ordine”, ci dice con comprensibile orgoglio il caporeparto. […] Alle spalle c’è un lavoro incredibile. Lavorare in un “centro logistico” è come essere un minuscolo ingranaggio in una gigantesca macchina globale. È un processo industrializzato, su vastissima scala, reso possibile dalle nuove tecnologie. […] Questo rende ancora più incredibile il fatto che l’elemento centrale del sistema, quello che sposta, accantona, preleva, imballa e spedisce ogni singolo articolo, sia una persona in carne e ossa. […] Quello di Amazon è un sistema che comprende aspetti non sistematizzabili come speranze, paure, progetti per il futuro, figli. E nelle regioni con un alto livello di disoccupazione e poche opportunità economiche – dove Amazon strategicamente costruisce i suoi centri di distribuzione (il governo gallese ha concesso all’azienda un finanziamento di 8,8 milioni di sterline per convincerla a portare il suo magazzino a Swansea) – la disperazione è dappertutto.

Corsa al badge azzurro

Durante il colloquio all’agenzia del lavoro ci fanno compilare dei moduli, ci sottopongono a un test per l’alcol e le droghe e si accertano che sappiamo leggere. Poi ci mostrano un video dove è spiegato il processo di lavorazione e sono intervistati alcuni dipendenti. “Come voi, ho cominciato a lavorare per Amazon attraverso un’agenzia nel periodo natalizio”, dice uno degli intervistati. “Ma subito dopo sono stato assunto, ho avuto una promozione e oggi, dopo due anni, sono responsabile d’area”. Dopo Natale, ci dicono, Amazon assumerà delle persone a tempo indeterminato, e se lavoriamo sodo possiamo essere tra i fortunati. Nella zona di Swansea-Neath-Port Talbot, che ancora stenta a riprendersi dal declino postindustriale che ha colpito il paese, sono parole che pesano. Ma l’inganno è presto svelato. […]. Tra una sessione di formazione e l’altra chiedo […] quanti dipendenti a tempo indeterminato lavorano lì […]: “Be’, è chiaro che non tutti saranno assunti. Sarebbero troppi. È una cosa che le agenzie devono dire per convincere la gente”. […] È proprio così. La maggior parte delle persone del mio reparto spera in un posto fisso.

Uno di loro è Pete (non è il suo vero nome), disoccupato da tre anni. Prima faceva l’assistente sociale. Vive nella Rhonddavalley con la sua compagna, Susan (è un nome falso), riparatrice di computer disoccupata. Anche lei lavora lì da poco. Impiegano più di un’ora per arrivare al lavoro. “Abbiamo dovuto svegliare i bambini alle cinque”, dice. Dopo un turno di dieci ore e mezza e un’altra ora di viaggio sono andati a prendere i bambini dai nonni e sono tornati a casa alle nove di sera. Il giorno dopo hanno fatto lo stesso, ma Susan si è slogata una caviglia all’inizio del turno. Ha chiesto un permesso per malattia e le hanno dato un “punto”. Al terzo punto sarà “dispensata”, che nel linguaggio dell’azienda significa licenziata. […].

Al colloquio ci hanno detto che in un turno si arrivano a percorrere ino a 24 chilometri a piedi. […] I dipendenti a tempo indeterminato hanno il badge azzurro, un salario orario migliore e stock option dopo due anni. Nel magazzino c’è una specie di apartheid occulto.

“Ti sventolano davanti i loro badge azzurri”, dice Bill Woolcok, un ex-dipendente del “centro logistico” di Amazon a Rugeley, nello Stafordshire. “Chi ha il badge azzurro ha un salario migliore e dei veri diritti. Magari fanno il tuo stesso lavoro, ma loro hanno un posto fisso mentre tu sei solo carne da macello. Ho lavorato a Rugeley da settembre 2011 a febbraio 2012. La vigilia di Natale c’era un rappresentante dell’agenzia con una lista davanti all’uscita che diceva: ‘Tu torni dopo Natale. Anche tu. Tu no. Tu no’. Una cosa brutale. Mi ha fatto tornare in mente le storie della grande depressione, quando gli operai si mettevano in fila davanti ai cancelli delle fabbriche sperando di essere presi per poche giornate di lavoro. Ti rendi conto che non vali niente”. […] Qualcuno dice che vengono assunti solo gli amici dei responsabili. Altri dicono che le risorse umane scelgono i nomi a caso. È una specie di magia nera che nessuno capisce. […]

Ho chiesto informazioni ad Amazon. Ecco la loro risposta: “Un certo numero di collaboratori rimane con noi per un periodo prolungato. Quando è possibile, siamo felici di confermarli garantendogli un incarico a tempo indeterminato. Nel 2013 siamo riusciti a creare 2.300 posti di lavoro a tempo pieno e indeterminato per i collaboratori stagionali. Abbiamo sfruttato la stagionalità del Natale per assumere ottimi lavoratori. Purtroppo non siamo in grado di confermare 15mila dipendenti stagionali”. E questo è quello che Amazon dichiara a proposito dei permessi per malattia: “Amazon è un’azienda in crescita e garantisce un elevato livello di sicurezza a tutti i suoi collaboratori. Come molte aziende usiamo un sistema per monitorare le presenze dei dipendenti. Prendiamo in considerazione e analizziamo tutte le situazioni di carattere personale riguardo alle presenze e nessuno viene mandato via perché si ammala. Il sistema attualmente in uso per monitorare le presenze è equo e trasparente. Nel 2013 ci sono stati undici licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato su una forza lavoro di oltre cinquemila dipendenti con quel tipo di contratto”. Vale la pena di ricordare che i lavoratori che arrivano attraverso le agenzie interinali non sono dipendenti di Amazon. Si tratta senza dubbio di un lavoro fisicamente molto faticoso. [Un servizio della Bbc] si è concentrato soprattutto sui chilometri macinati […], sulle vesciche ai piedi, sugli assurdi obiettivi di produttività e sul braccialetto orwelliano che sorveglia gli operai in ogni momento della giornata. Chi viene assunto tramite un’agenzia è pagato 19 centesimi all’ora più del salario minimo (che è di 6,50 sterline, equivalenti a 7,6 euro) e i turni durano dieci ore e mezza. […]

Pausa senza riposo

“Ho fatto tutti i lavori”, mi dice un dipendente che guida il muletto. “E questo è il peggiore di tutti. Ti pagano di merda perché se lo possono permettere. Perché in giro non c’è lavoro. Fidati, lo so per esperienza. L’ultima volta che ho lavorato prendevo dodici sterline all’ora. Qui me ne danno otto. In passato ho lavorato alla Sony: Sono severi ma corretti. Qui ad Amazon quello che ti colpisce è l’ingiustizia”. 

Un’ingiustizia da cui non c’è via d’uscita. Dopo il servizio della Bbc, Hywel Francis, il rappresentante del collegio di Aberavon alla camera dei comuni, è riuscito finalmente a farsi ricevere dal direttore dell’ufficio relazioni esterne di Amazon. Il deputato non parla direttamente delle lamentele dei suoi elettori, ma dice che “l’impianto costituisce un’eccezione nella zona perché non c’è rappresentanza sindacale. È stato diicilissimo anche solo entrare e scoprire cosa succede lì dentro”. È una specie di buco nero in cui la totale mancanza di controlli dà la sensazione che tutto sia ridotto all’osso: dagli scarponi di sicurezza fatti con la plastica più scadente, che quasi tutti i dipendenti a tempo indeterminato sostituiscono a loro spese perché non riescono a camminarci, alla politica del “se ti ammali ti licenzio” fino alla pausa di 15 minuti che non tiene conto di dove si trova il dipendente all’interno del magazzino.

La mattina del terzo giorno, nel mio momento più nero, completamente provata nel corpo e nello spirito, impiego sei minuti per arrivare a piedi agli scanner, simili a quelli che ci sono negli aeroporti. La perquisizione dura un minuto. Un altro minuto lo passo in fila al gabinetto, poi prendo una banana dal mio armadietto, mi siedo per trenta secondi, mi rialzo e impiego altri sei minuti per tornare alla mia postazione. Lavorare in un magazzino di Amazon vuol dire trascorrere le giornate a guardare negli occhi il consumismo e la nostra smania collettiva di oggetti materiali. Quest’anno è il turno delle Xbox, dei Kindle, di Savewith Jamie, l’ultimo libro di cucina di Jamie Oliver (volete davvero “risparmiare con Jamie”? Allora non comprate il suo libro), […]. I libri di cucina degli chef famosi mi fanno imbestialire. Non vengono neanche tirati fuori dalle scatole. Se ne stanno impilati in enormi cataste ai due estremi della corsia. Basta friggere un uovo in tv ed è come se ti avessero dato il permesso di stampare soldi per l’eternità. […] Il calendario di Natale di Barbie rischia di farmi impazzire. Faccio avanti e indietro dal settore F, apro la scatola con il taglierino, estraggo l’ennesima copia, tolgo la scatola e la aggiungo alla catasta del riciclaggio, metto sul carrello il calendario (che è arrivato dalla Cina, poi inviato a un distributore esterno dal terminal container e quindi consegnato al magazzino di Amazon) e lo passo agli imballatori, dove sarà riconfezionato in una scatola diversa per poi raggiungere finalmente la sua destinazione finale: la gioia nel cuore di una bambina. […] (9,23 sterline su Amazon con consegna gratuita). Vogliamo pagare poco. E vogliamo ordinare standocene seduti in poltrona. E vogliamoanche la consegna a domicilio. Amazon ha capito come si fa. […].

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