Eravamo prossimi a evitare il genocidio – John Feffer

Nel 1990, quand’ero in Romania, scoppiarono conflitti interetnici in Transilvania. Benché la causa del conflitto nel marzo 1990 a Targu Mures sia dibattuta, la storia più verosimile riguarda un segnale bilingue – in ungherese come pure in romeno – che un farmacista affisse su un negozio in città. Ci fu una protesta. Si diffusero varie voci incontrollate. Le tensioni montarono, e scoppiò un tumulto di vaste dimensioni. Morirono parecchie persone, e centinaia furono ferite.

Oggi, ci sono segnali bilingui ovunque a Targu Mures. I rapporti fra ungheresi etnici e romeni etnici sono del tutto pacifici. Certo, c’è un mucchio di cose di cui lamentarsi in Romania oggi. Ma il paese non ha fatto la fine della Jugoslavia.

Jugoslavia. Già la sola parola evoca immagini di guerra, fratricidio, e genocidio. Ma s’immagini se quanto successo in Romania – letteralmente lo schivare un proiettile – fosse successo in Jugoslavia, se le tensioni acuitesi fra serbi e croati nel 1990 fossero in qualche modo gestite e la guerra evitata. Marko Hren ha passato molto tempo a pensare a questo “che cosa se.” Egli crede che i gli attivisti per la pace fossero “così prossimi” a evitare il massacro che infuriò per la regione negli anni 1990.

“Abbiamo ancora bisogno di ricerche su quel periodo fra il novembre 1990 e il giugno 1991” mi disse Hren prendendo un caffè nella capitale slovena di Lubiana l’ottobre scorso. “Si è mancata un’opportunità? Quel che posso provare è che varie cose stavano convergendo: avevamo una buona collocazione, un Istituto per la Pace locale, un forte gruppo intellettuale a Lubiana con collegamenti a persone al potere in Slovenia, e con connessioni con la piattaforma europea che comprendeva la HCA – Assemblea dei Cittadini di Helsinki – e la CSCE – Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Il procedimento CSCE al tempo era promettente: vennero progettati sistemi di preavviso precoce, concordati meccanismi di prevenzione del conflitto. Eravamo così prossimi a evitare il genocidio. È la mia ossessione da 20 anni. Eravamo così vicini. Possiamo imparare da lì. Dovremmo imparare”.

Incontrai Marko Hren nel lontano 1990 quand’era un programmatore di computer diventato attivista per la pace. In seguito divenne una forza guida dietro la sede occupata più di successo nella regione – Metelkova a Lubiana. Ha anche lavorato nel mondo degli affari e nel governo.

Riflette parecchio sulle lezioni desunte – e non solo riguardanti la guerra in Jugoslavia. È insoddisfatto di come si è risolta Metelkova. È critico del fallimento delle ONG nel fare valutazioni dei bisogni. È deluso della conoscenza generale della democrazia in Slovenia oggi. Quella è una delle preoccupazioni di principio: imparare dal fiasco.

Ma mantiene anche la stessa curiosità e impeto che gli conobbi oltre due decenni fa. Che parli della produzione di alimenti biologici o della natura trasformativa di Internet, Marko Hren resta un attivista appassionato.

L’intervista

Voglio cominciare con il 1975. Era il tuo primo incontro con gli attivisti della War Resister’s International (Internazionale dei resisteniti alla guerra). Quanti anni avevi?

Sono del 1959. Suonavo in un gruppo etnico che sviluppava tradizioni musicali di tutte la repubbliche jugoslave. Eravamo sempre in tour. Ero alla scuola superiore al tempo. Avevo 16 anni. Entrai in contatto con War Resister’s International in Svizzera nel 1975. Gli attivisti WRI si erano mescolati alla folla di un festival internazionale, distribuendo volantini e vendendo distintivi su banchetti. Lì è dove ho preso il mio primo distintivo col fucile spezzato e il mio primo volantino “La guerra è un crimine contro l’umanità”.

Hai detto che allora non pensavi ai movimenti per la pace.

I miei pensieri e sogni erano già assorbiti dai concetti di ahimsa e di nonviolenza. Sviluppai la mia filosofia di pace da adolescente.

Come lo hai fatto?

Hanno avuto un ruolo importante i sogni, con un procedere non razionale, intuitivo.

Sei tornato in Slovenia e hai allora incontrato persone che condividevano la stessa filosofia.

Nella mia scuola formammo un gruppo di studenti d’opinioni affini. Uno di loro è tuttora un bohemien, un artista che risiede nella ex-sede occupata qui a Metelkova.

Quel che mi affascina nella storia del movimento per la pace sloveno è quanto sia diventato forte in un periodo relativamente breve. Verso la fine degli anni 1980, primi 1990, è diventato così influente che la possibilità di mutare la Slovenia in una zona smilitarizzata e l’educazione alla pace diffusa lungo tutto il corso di studi era un programma politicamente fattibile.

Io penso che il potere di quel gruppo stava nell’essere transgenerazionale e transprofessionale. Comprendeva persone come il sociologo Pavel Gantar e il filosofo Tomaž Mastnak, un poeta rinomato come Neža Maurer, dei veterani di guerra, e vari studenti. Era entusiasmante lavorare in un gruppo di esperti (think tank) così ad hoc. A qel tempo, ero un matematico impiegato in un’azienda di R&D nella programmazione dei computer, e imparai che avevo bisogno di acquisire le competenze di un sociologo. Tomaž Mastnak mi stava a finaco correggendo tutto ciò che scrivevo. Era un piacere lavorare con questa gente. Ecco dov’era il potere. Era un insieme di persone diversissime di svariata formazione mentale. Il che era catalitico per le idee che avevamo.

Sembrava molto più forte dei movimenti per la pace di altri paesi a quel tempo.

Era decisamente comparabile con tutti i nuclei più vigorosi per la pace e i diritti umani in Europa dell’Est. Partecipammo a tutti i principali avvenimenti come le conferenze END (per il Disarmo Nucleare Europeo). Ci inserimmo rapidamente nel dialogo Est-Ovest. Il comune denominatore di tutte le nostre azioni era il nostro àmbito internazionale. Eravamo connessi con le reti esistenti sul pianeta a ogni livello: europeo, regionale (Alpino-Adriatico), internazionale/globale. Ogni campagna che facevamo veniva immediatamente inserita in contesti regionali, europei, e globali. Spontaneamente pensavamo globalmente e agivamo localmente; investendo però molto nell’attività internazionale. Viaggiavamo in lungo e in largo. Ecco perché, piuttosto naturalmente nel 1988 allorché la transizione era all’apice, il movimento per la pace assunse il coordinamento della diplomazia estera informale dell’opposizione qui per un periodo iniziale.

Ma eravate ambiziosi pure in quanto al vostro programma per la Slovenia. Molti movimenti per la pace sono marginali e pensano in termini marginali.

Sì, dove siamo seduti è prova della nostra ambizione. Siamo all’attuale centro culturale in via Metelkova, ex-quartier generale dell’esercito jugoslavo trasformato in un’agorà aperta mediante un’azione dal basso. È un monumento vivente alla primavera slovena. Il progetto fu condotto da centinaia di gruppi e singoli attivi negli anni 1980 localmente in Slovenia. È il risultato di un progetto iniziato prima della guerra e che simbolicamente è volto a tale periodo. Ne fui un iniziatore e capo-progetto qui.

Ma con quel progetto non combattevamo contro i comunisti come hai scritto altrove. Al contrario, l’occupazione abusiva delle caserme avvenne perché dopo la transizione la destra prese il potere in città e noi combattemmo quell’élite di destra che aveva piani ben diversi da quelli che il nostro movimento aveva concordato con il governo di sinistra del momento – il 1993. Prima della transizione, prima della guerra, concordammo che quest’impianto militare sarebbe stato affidato ai movimenti artistici e sociali. Combattei contro tutti quanti nel caso della campagna per il centro culturale Metelkova. In certo modo, la campagna fu un epilogo alla nostra lotta contro l’esercito jugoslavo. Nostra ambizione era rivitalizzare le strutture urbane. E adesso qui a Metelkova abbiamo il più grosso insieme di ONG in Europa, la più grande infrastruttura urbana per ONG e artisti in Europa.

Ma devo sottolineare che questo ed altri progetti non erano una nostra innovazione. Tutto ciò è stato implementato altrove. Per esempio, la Rote Fabrik, la Fabbrica Rossa a Zurigo, era una specie di miglior pratica cui guardavo mentre stavo progetando la “campagna di riconversione delle caserme di Metelkova”. Perfino il nostro progetto di demilitarizzazione fu copiato dalla campagna Svizzera senza un esercito. Stavamo facendo campagna nel 1989 contemporaneamente al referendum in Svizzera per abolire l’esercito. Andreas Gross, del gruppo Democrazia Diretta a Zurigo, era un mio buon amico e fu molto influente nella mia formazione politica. Passai parecchio tempo a Zurigo. Imparammo buone idee e progetti e li attuammo immediatamente a livello locale. Scriviamo ovunque nei nostri documenti che questi progetti svizzeri e altri influirono sulla nostra realtà.

E altri gruppi hanno a loro volta seguito l’esempio della Metelkova? Viene qui parecchia gente dicendo che è una gran cosa, ma qualcuno se n’è tornato riproducendola nella propria società?

Il gruppo di Zagabria esaminò eccome con attenzione i nostri progetti e adottò una rivista amatoriale come la nostra che chiamarono M-zine. Molti nella regione furono incoraggiati dalla Metelkova a occupare aree urbane degradate. Quel che ci diede il gruppo svizzero fu incoraggiamento. Non mi sarebbe mai passato per la mente di avere un voto sull’esercito. Ma essi lo fecero. Quel che facemmo noi fu adottarlo e adattarlo alla svelta con tutto il nostro entusiasmo intellettuale.

Otteneste sostegno da forze progressive di sinistra per la proposta di una Slovenia smilitarizzata. Ma hai scritto che non otteneste abbastanza sostegno dai conservatori.

Ci tenevo che il nostro approccio fosse aperto. Effettivamente nel 1989 ottenemmo ampio sostegno da circoli di destra quando ci stavamo preparando per le elezioni. Io fui il coordinatore temporaneo ad hoc della politica estera dei gruppi democratici emergenti (non ancora veri partiti politici), indicendo incontri degli incaricati di politica estera, ed è lì che trattammo della smilitarizzazione come un approccio interessante per liberarci dell’esercito jugoslavo aprendo contemporaneamente spazio ad approcci di risoluzione nonviolenta dei conflitti. La nostra proposta fu: promuoviamo la risoluzione nonviolenta dei conflitti, una conferenza di pace per i Balcani, liberandoci in tal modo dell’esercito jugoslavo che tutti identificavamo come il principale problema. Il movimento per la pace contattò ognuno, tutti gli attori politici.

Il mio ambiente di lavoro a quel tempo era Mikro Ada, l’azienda di piccole/medie dimensioni dove lavorava anche Janez Jansa, l’attuale primo ministro. Eravamo in quattro. Egli gravitava verso il centro-destra. Inoltre l’attuale vescovo Anton Stres era allora mio stretto collaboratore nel campo della pace. Presiedeva la Commissione cattolica per la pace Justitia et Pax. Firmò il nostro documento più noto, la Dichiarazione per la Pace, che era un documento politico essenziale a sostegno della smilitarizzazione della Slovenia. Quando i partiti di sinistra iniziarono un’intensa operazione di pubbliche relazioni per il procedimento di smilitarizzazione, non fui abbastanza cauto. Istantaneamente allora i capi della destra percepirono la campagna di smilitarizzazione come un programma della sinistra. Alcuni capi con tendenza a sinistra s’opposero all’indipendenza. Alcuni capi di destra allora al governo interpretarono la dichiarazione di pace come contro l’indipendenza, come programma per smilitarizzare l’esercito sloveno. Avevo sbagliato: pensavo che i personaggi di destra fossero già imbarcati, dato che avevo davvero facile accesso a loro e buoni rapporti di lavoro. Ma poi quando videro i politici dell’ opposizione di sinistra fare una campagna entusiastica per tale progetto nei media, essi pensarono che c’era qualcosa di sbagliato. Ma è interessante che nessuno discutesse il contenuto della dichiarazione per la pace; il discorso riguardava solo il confronto politico. La lettera dell’attuale vescovo, datata 16 febbraio 1991, quando si ritirò dalle campagne del movimento per la pace, è indicativa.

La proposta di usare tecniche di risoluzione del conflitto per trattare i conflitti emergenti fu avallata ad altissimo livello, perfino dal governo di destra.

Hai detto all’inizio che eravamo un giocatore potente, ed è vero. In qualche modo riuscimmo ad attuare degli strumenti istituzionali, come la Commissione per una Politica di Pace al parlamento, guidata dalla liberal-democratica Viktoria Potocnik. Era una sistemazione istituzionale per promuovere un’attività politica di pace. Io ne ero membro come esperto esterno. Ero anche nel gabinetto consultivo del presidente della repubblica, allora Milan Kucan, di sinistra. Queste erano le due istituzioni “di sinistra” al parlamento e alla presidenza, ma la destra controllava il governo. Avevo anche accesso al ministro della difesa Jansa, precedente collaboratore e amico, e a Lojze Peterle, il primo ministro del partito cattolico, che era mio collega nel Comitato per la Protezione dei diritti Umani. Avevamo accesso relativamente buono a questi politici. Tenemmo consultazioni preliminari riguardo l’istituzione dell’Istituto per la Pace nell’ambito delle proposte di risoluzione dei conflitti. L’istituto era un progetto inteso a facilitare le conferenze di pace sui Balcani. Tutto ciò è documentato in dettaglio nel mio volume digitale Slovenian peace movement in the context of Yugoslav  anti-war contention, Re-discovered history of war-prevention (1984-1992) [Movimento per la pace sloveno nel contesto del contenzioso anti-bellico jugoslavo. Storia riscoperta della prevenzione della guerra] pubblicato presso www.dlib.si e scaricabile gratuitamente.

Nel 1990 dopo le elezioni, ora lo so, il governo riceveva informazioni quotidiane sui preparativi d’intervento dell’esercito jugoslavo. Non lo sapevamo allora. In sostanza il governo sloveno clandestinamente preparava truppe indipendenti sotto la piena autorità della Slovenia. Il generale Krkovi? era coordinatore capo per l’istituzione di truppe slovene entro il concetto di difesa territoriale. S’introdussero segretamente armi coi preparativi sloveni all’ intervento. Ecco perché Janez Janša e i ministri del suo gabinetto probabilmente pensarono che non ci fosse più spazio per negoziati. Noi pensavamo che sia i negoziati sia l’Istituto per la Pace e l’opzione stessa della pace fossero fattibili. Avevamo tutti gli elementi principali entro il consiglio internazionale dell’Istituto per la Pace, come ad esempio Jan Oberg, Gene Sharp, Julio Quan dell’Università di pace ONU del CostaRica. Ma il governo sloveno stava segretamente programmando la difesa armata, e nella fase conclusiva non volle finanziare le nostre proposte per un processo di pace.

Abbiamo ancora bisogno di ricerche su quel periodo fra novembre 1990 e giugno 1991. Si è persa un’occasione? Quel che posso provare è che varie cose erano convergenti: avevamo una buona collocazione, un Istituto per la Pace locale, un forte gruppo intellettuale a Lubiana con collegamenti a persone al potere in Slovenia, e con connessioni con la piattaforma europea che comprendeva la HCA – Assemblea dei Cittadini di Helsinki – e la CSCE – Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Il procedimento CSCE al tempo era promettente: vennero progettati sistemi di preavviso precoce, concordati meccanismi di prevenzione del conflitto. Eravamo così prossimi a evitare il genocidio. È la mia ossessione da 20 anni. Eravamo così vicini. Possiamo imparare da lì. Dovremmo imparare”. Questa è l’argomentazione chiave trattata nel documento citato prima, disponibile su www.dlib.si. E aspetto ancora risposte. Dico sovente che quel che registriamo nella storia sono guerre e vittorie. Le guerre evitate non si registrano.

Sono i cani che non abbaiano.

Immagina se ti spiegassi oggi nel 2013 che abbiamo evitato una guerra e un genocidio nel passato, nel 1990. Immagina che non ci fossero state guerre fra il 1991 e il 1996 e che oggi fossimo seduti qui all’ex-caserma Metelkova e che ti stessi spiegando che abbiamo evitato una guerra e un genocidio con il nostro ambizioso complesso progetto ben premeditato. Puoi immaginarti una tale situazione?

Direi, “Marko, come puoi provarlo? Stai reagendo esageratamente!”

Proprio così. Allora, come possiamo indagare questo fenomeno? Sostengo che l’opportunità di evitare guerre e genocidi in Jugoslavia nel periodo fra il 1991 e il 1995 era realistica. Abbiamo mai indagato quest’ipotesi?

Secondo la narrazione convenzionale, la guerra era inevitabile perché Milosevic aveva calcolato che la Jugoslavia fosse finita. Avrebbe fatto un tentativo poco convinto d’intervenire in Slovenia ma non uno sforzo importante e la sua preoccupazione erano principalmente le popolazioni serbe in Croazia e Bosnia. Tudjman aveva fatto un calcolo analogo e i due s’incontrarono a Karadjordjevo per dividere la Bosnia. Non si poteva far nulla a causa delle ambizioni politiche e militari di Milosevic e Tudjman. Ma tu sostieni che fra il novembre 1990 e la dichiarazione formale d’indipendenza, a quelle due figure principali si sarebbero potute mettere le briglie.

Assolutamente. Quando leggemmo la decisione che prese il CongressoUSA nell’ottobre 1990, l’enfasi era sulle repubbliche. Il messaggio era chiaro: lavoriamo sulle repubbliche. La sola cosa mancante era sostenere il dialogo fra quelle repubbliche. Che è quello che facemmo all’Istituto per la Pace di Lubiana: creammo una proposta di struttura per questo procedimento dialogico. Per prima cosa avremmo dovuto analizzare le diverse situazioni che si presentavano in tutte le repubbliche dopo le elezioni nel 1990 – e ciò è quanto il dipartimento di Stato USA sostenne. Gli Stati Uniti, la CSCE, e gli attori locali qui in Slovenia erano abbastanza maturi per un procedimento di pace, ma noi agimmo troppo lentamente, e senza accordo fra le ONG, gli esperti e i mediatori regionali e internazionali.

Quando ci parlammo, a fine agosto 1990, ci focalizzammo quasi del tutto sulla questione della confederazione. Al tempo, a livello jugoslavo, c’erano le più svariate proposte, come la 4 più 2, su come potesse configurarsi una maggiore autonomia, quali sarebbero state le responsabilità a livello jugoslavo e delle repubbliche, e così via. Ti ricordi la tua reazione alla trattazione della struttura statuale allora?

Non so che dissi, ma quello che mettemmo continuamente nei documenti era che il tema importante era l’uguaglianza del procedimento, non le soluzioni. Il mio approccio allora era sostanzialmente incastonato nella raccomandazione: “non prendere posizione, esprimere gli interessi, definire il procedimento”.

L’approccio classico della risoluzione del conflitto.

Sì, esattamente. Proponemmo di analizzare la situazione e vedere dove dirigerci. La presidenza slovena in parte seguì le nostre proposte e iniziammo cosiddette “missioni di buona volontà” nelle altre repubbliche – attività guidata dal membro di presidenza Dušan Plut dei Verdi sloveni. Io difendevo sempre il diritto costituzionale delle nazioni all’autodeterminazione. Cosa inserita altresì nella costituzione slovena. La lotta qui localmente era basata su quel diritto umano collettivo. Continuavamo a spiegare agli stranieri che già a quel tempo la Jugoslavia era una confederazione con forti autonomie assicurate a tutte le repubbliche, addirittura a livello militare. Il concetto di difesa della Jugoslavia coinvolgeva una triplice struttura: l’esercito permanente dei coscritti (il cosiddetto Esercito Nazionale Jugoslavo) era federale e centralizzato, ma le strutture di difesa territoriale come pure quelle di cosiddetta difesa civile erano sotto l’autorità delle repubbliche, cioè la presidenza slovena e il consiglio esecutivo sloveno. Questa triplice organizzazione dei sistemi di difesa fu sovvertita verso fine 1990 dall’esercito jugoslavo, che entrò nei depositi d’armi di difesa territoriale. Fu uno dei primi conflitti in cui il governo sloveno considerava che l’esercito jugoslavo sovvertisse la costituzione.

Probabilmente al tempo – nell’agosto 1990 — ti dissi di essere sorpreso per la poca conoscenza nella comunità internazionale sulla vera natura della federazione jugoslava. Ti faccio un esempio. Nel 1988, quand’ero con Petra Kelly dei Verdi tedeschi nell’ufficio di Bonn del principale consulente di Helmut Kohl sulla regione jugoslava, gli dissi “Guardi, i miei amici sono in prigione a Lubiana, il processo si terrà al tribunale militare. Sono dei civili, e il processo si svolge in lingua serba nel bel mezzo di Lubiana. Non hanno diritto a un avvocato civile”.

Lui disse “Non è bello che dei civili siano sotto processo in un tribunale militare e che siano privati del diritto a un avvocato civile, ma che cosa non va nel processo militare tenuto in serbo? È la lingua ufficiale lì!”

Io dissi “Signore, costituzionalmente le lingue ufficiali in Slovenia sono lo sloveno, l’italiano e l’ungherese. Il serbo non è nell’elenco delle lingue ufficiali in Slovenia. L’italiano c’è per via della minoranza nella parte Ovest, l’ungherese per via della minoranza nella parte Est. La lingua serba non si usa in Slovenia.”

Partecipai alle discussioni sulla federazione in Europa. Ovviamente come anarchici sognavamo l’idea di Bakunin di un mondo di piccole federazioni regionali di comunità autonome, almeno in termini concettuali. Riguardo al “federalismo” della Jugoslavia non si dovrebbe confondere il federalismo anarchico con il federalismo statale di tipo jugoslavo. Noi richiedevamo una completa sovranità, che era un diritto costituzionale. Se non ci vanno certe decisioni della federazione, aboliamo semplicemente la federazione: per noi era del tutto logico. Se non possiamo – per esempio – raggiungere i nostri obiettivi di legalizzazione dell’obiezione di coscienza in Jugoslavia, allora liberiamoci della Jugoslavia e istituiamo l’obiezione di coscienza in Slovenia.

Il movimento per la pace in Europa e quello su scala globale avevano una varietà di prospettive differenti. Alcuni membri del movimento per la pace lavoravono molto vicini a te e sostenevano quel che avveniva nel movimento per la pace sloveno. Tu non eri contento di altri membri del movimento. Ci fu un dibattito con l’Assemblea dei Cittadini di Helsinki (HCA). Raccontami di quella sfida di impegnare il movimento per la pace e della delusione provocata dalla risposta di qualche suo componente.

Ne scrissi ampiamente. Lo propongo come futuro argomento di ricerca: le posizioni HCA prese da personaggi chiave HCA durante la crisi jugoslava in particolare dovrebbe essere ben vagliata. La crisi jugoslava uccise effettivamente l’HCA politicamente. Questo forum internazionale non era in grado di trattare la tematica, né di cercare un consenso, figuriamoci trovarlo, ed era manipolato da Sonja Licht in cerca di potere. I ricercatori dovrebbero studiare documenti primari, non testimoni. Perchè non fummo in grado di presentare un’opinione congiunta della società civile paneuropea alla troika europea nel maggio 1991? La risposta dalla mia prospettiva è solo una: perché alcuni volevano promuovere le loro opinioni personali. Sostengo che taluni manipolarono il momento paneuropeo. Johan Galtung fu ricattato, o forse favorì intenzionalmente le posizioni di Sonja Licht, ma il fatto è che il movimento paneuropeo non se ne uscì con una dichiarazione consensuale costruttiva sulla Jugoslavia. La mia ipotesi è che avevamo abbastanza tempo e conoscenza per avere un ruolo costruttivo nel periodo preconflittuale. Eravamo connessi. Comunicavamo. Ci sostenevamo l’un l’altro e poi fummo ricattati. Penso che sia una grave debolezza di quel tempo che merita ricerca. Mi piacerebbe molto vedere le lettere originali che, faccio un solo esempio, Mient Jan Faber, un co-presidente HCA di allora, scrisse al ministro degli affari esteri dei Paesi Bassi, Hans van den Broe. Ci devono essere negli archivi olandesi. Faber è disposto a mostrare la sua intera corrispondenza dell’epoca? E perché non chiese mai a me o Tomaz Mastnak o Pavel Gantar di leggere le bozze prima di farle uscire? O qualcuno studiò le dichiarazioni di Galtung d’allora?

La conferenza END a Mosca nel 1991 fu importante. Scrivemmo un’analisi della situazione jugoslava e delle proposte, tutto quanto, ma l’incontro fu completamente oscurato dalla delegazione di Belgrado. Allora non potemmo andare a Mosca.

I dibattiti entro il movimento per la pace rispecchiavano quelli in ambito europeo più generale.

Il dibattito fu intenso. Per esempio, Tomaz Mastnak e io fummo a New York per l’incontro della War Resister’s International nel 1993. Discutemmo di sanzioni internazionali. Me ne ricordo molto bene. Passammo le nottate a parlare con la gente. Ovviamente le posizioni del movimento per la pace riguardavano un rigido embargo sulle armi e nessun intervento militare. Noi stavamo brigando per un intervento militare — Sarajevo era sotto assedio — o per levare l’embargo sulle armi lasciando che la gente si difendesse. Le discussioni furono aspre. Da questo dovremmo imparare a non abbarbicarci alle nostre ideologie. L’ideologia della sinistra in Europa allora era racchiusa in uno slogan “nessun cambiamento nei confini”, assumendo che ogni mutamento ai confini avrebbe portato a conflitti. Il confine fra Slovenia e Croazia era già sulla carta geografica, una bella linea rossa. Divenne semplicemente più spessa. Il confine non mutò geograficamente; mutò di qualità. E fra pochi mesi diverrà di nuovo più sottile allorché la Croazia entrerà nell’area Schengen.

Alla fine divenne chiaro che le proposte di smilitarizzare la Slovenia e usare meccanismi di risoluzione dei conflitti non sarebbero passati in Slovenia. Con l’incombente intervento dell’esercito jugoslavo, la Slovenia decise che fosse necessario avere il proprio esercito. Il punto focale del tuo movimento per la pace si spostò all’educazione alla pace nel sistema scolastico, verso la lotta della Metelkova, verso la fondazione dell’Istituto per la Pace come istituzione di ricerca autonoma. Come ti sentivi personalmente a quel punto? Come hai detto, eri molto prossimo al raggiungimento degli obiettivi più ampi. E poi non raggiungendoli, come reagisti?

C’era un enorme campo d’azione che aveva bisogno che tutti noi vi investissimo il nostro tempo e le nostre energie: il tema dei profughi, la guerra in Bosnia, lo sforzo di evitare guerre in Kosovo e in Macedonia. Nel 1992-93, mi adoprai ampiamente per ottenere sanzioni e intervento militare. Le argomentazioni erano le stesse che nel 1989 e 1990. Con l’Istituto per la Pace, viaggiai molto in quei primi anni. Ero conscio che una forte società civile è un imperativo per la coesistenza pacifica. La prova era data dall’esistenza di un conflitto sanguinoso in luoghi senza forti strutture di società civile. Le sole istituzioni esistenti in Bosnia erano religiose o Komsomol [comuniste giovanili, ndt] o comuniste. Dopo la transizione, la gente gravitava verso la sola istituzione esistente d’identità condivisa: la religione. Il mio punto è che i conflitti sono più facilmente gestibili in società dove il pluralismo è strutturato piuttosto che dove la società civile manca di strutture pluralistiche ed è dominata da monopoli ideologici e/o religiosi. In altre parole, è facile manipolare (alimentandovi conflitti) le popolazioni dove c’è carenza di diversità d’interessi.

La nostra ipotesi con il progetto Metelkova era la seguente: creiamo un’infrastruttura per il pluralismo, per l’ espressione d’identità e stili di vita della società civile. La conversione della caserma Metelkova fu molto difficile. Fronteggiavamo i lobbisti della città e del settore edile. Rimanemmo nella sede occupata per anni senza elettricità – dal 1993 al ‘95 — e fu un periodo molto difficile. Da un lato ci fu l’apocalisse nei Balcani e la nostra sensazione di aver fallito, che il genocidio fosse il nostro fallimento, quello dell’Europa. E dall’altro lato c’era la sede occupata e un mucchio di drogati perché l’unico dispensario di metadone era in questa via. Eravamo situati in un centro di patologia urbana. Fu un periodo deprimente.

Tu eri nella sede stessa?

Ero il capo-progetto e presidente della Rete Metelkova (Metelkova Network), scelto dai partecipanti.

Per tutto quel periodo?

La Rete Metelkova fu costituita formalmente nel dicembre 1990. Occupammo la caserma Metelkova nel settembre 1993 e rimasi con il progetto fino al 2002. I miei progetti son molto ben documentati su www.dlib.si . C’era una gamma di progetti: rinnovamento, architettura urbana, cooperative sociali, creazione di una rete di unità produttive, programmazione e la semplice sopravvivenza di anno in anno.

È essenzialmente la costruzione di una società in miniatura, nevvero? È molto ambizioso. Il progetto iniziale era di trasformare completamente la Slovenia, farne una Svizzera. Ma hai sbattuto contro la realtà della guerra nella regione, la realtà della politica. Però sei stato capace di assumere quella visione e realizzarla al livello della Metelkova.

Osservazione lucida: è esattamente la valutazione che scrissi nel mio corposo libro sulla Metelkova, un libro digitale pubblicato online (http://www.dlib.si/details/URN:NBN:SI:doc-YIZYIFB6/) come antologia sulla Metelkova con fonti primarie. Non fummo in grado di fermare la guerra né di concretizzare la nostra ambizione di smilitarizzare il paese. Per me personalmente, la Metelkova fu una specie di compensazione. Volevo che attuassimo almeno questo. Ecco perché restai col progetto per 10 anni o più.

Ci sono ambizioni originarie relative alla Metelkova che non siano state realizzate?

Ovviamente! Fammi chiarire: la Metelkova com’è adesso è lungi da quanto avevo immaginato. L’intero concetto di cooperative di base con guadagni sufficienti per gestire autonomamente lo spazio fallì del tutto.

Come mai?

È tutto nei miei documenti, ma riassumiamo. Feci un errore. Mi fidai della retorica di artisti e attivisti del ceto medio. È un problema che può essere rintracciato in vari paesi in transizione. Artisti, progressisti, e capi di ONG appartengono in gran parte a un’élite sociale: a un’élite ben ammanicata e – direi – da “zona comoda, indolente”. Io ero uno dei pochi proletari, figlio di proletari, alla Metelkova. Non capii il problema della divisione in caste fin dopo essermi rotto i denti con i partecipanti alla Metelkova. Perché sono così pigri? Perché non vogliono creare imprese per sopravvivere? Come mai non sappiamo fare cooperative e guadagnarci il denaro per la nostra sopravvivenza e auto-sostenibilità? Queste erano le domande che mi feci, e la risposta è: “Perché non ne hanno bisogno”. Vanno a casa a mangiare dal frigorifero dei genitori e poi se ne tornano al gruppo.

Le ONG slovene sono per lo più guidate da un’élite di ceto medio o alto; motivo per cui non abbiamo quasi organizzazioni guidate dagli appartenenti. Sono brave nel reperire fondi, hanno rappresentanti d’élite, ottengono denaro – da Soros, per esempio, che finanzia élite, non dei marginali. Il problema non è che i capi delle ONG siano rappresentanti delle élite, né che questi svolgano opere umanitarie, anzi va bene, ma il problema è il dumping (modificare artificiosamente le proprie condizioni, ndt) e che tali capi fingano e, in fondo, mentano, vestendosi e atteggiandosi da marginali, dicendosi marginali che meritano denaro dall’autorità pubblica, dal ministero, dalla municipalità, uno spazio per un atelier e birra per la sera. Io sono stato ricattato da persone della rete Metelkova. Ho scoperto dopo anni che qui c’era gente che pretendeva il diritto di avere un atelier gratis su proprietà urbana, pur avendo una casa enorme nella parte elitaria della città, affittata a imprenditori. Ho sbagliato, Metelkova è un mio grosso errore, ma ho imparato molto.

Ho sbagliato per quanto riguarda la valutazione dei bisogni. Qual è il vero bisogno della popolazione, del corpo elettorale, dei membri? Scommetto che la maggioranza degli artisti/utenti qui alla Metelkova non sono idonei a uno spazio gratuito – si dovessero mai introdurre criteri ragionevoli. Poi, esaminando altri progetti nel settore ONG, la causa prima di fallimento era di nuovo la valutazione dei bisogni. Chi è il beneficiario? Per chi stiamo lavorando? Chi vogliamo che ne benefici e che ne sia idoneo? Un grave problema in Slovenia è la mancanza di chiarezza riguardo alle “divisioni di casta”. Gregor Tomc, primo direttore dei programmi all’Istituto per la Pace, professore di sociologia all’università, uno dei gli intellettuali punk prominenti in Slovenia, mi domandò una volta “Come valuteresti l’esperienza alla Metelkova in una frase?” Risposi istantaneamente “C’è stato un problema di caste”. Non ho mai fatto parte dell’élite, e i ragazzi qui erano figli di professori universitari, persone in posizioni dirigenti. Non si entra nel progetto con la stessa logica se si appartiene a strati sociali diversi.

Quando lasciai la Metelkova, il mio nuovo progetto con ONG era di avviare il commercio equo. Creammo il primo negozio di commercio equo a Lubiana. Ben presto sbattei nello stesso problema. Le persone con cui lavoravo erano della classe media o anche un po’ più su. Per loro era il progetto prediletto. Non dico che l’intraprendessero senza emozione sincera, ma quando non c’è bisogno di trarne profitto, non lo si fa. La loro evoluta filosofia sull’idoneità del proprio progetto a un finanziamento pubblico e tutti i propri progetti basati sui fondi distraggono gradualmente dai sostenitori e dal tema stesso. Di nuovo, non voglio dire che gli attivisti d’alto bordo non possano necessariamente essere sinceri e benintenzionati!

Questa è anche la questione di una vera sostenibilità. Se si è sostenuti solo da fondi pubblici, non si dura più che i fondi stessi.

Tornando alla domanda sul perché fallimmo: fallimmo nella sostenibilità economica. Ero solito disegnare un semplice grafico a torta sull’economia auto-sostenibile nei primi tempi della Metelkova. Nostro obiettivo per i successivi cinque anni sarebbe stato assicurare un finanziamento tripartito: un terzo da guadagnare noi stessi con nostre attività, un terzo come introito diretto dai nostri membri, e un terzo come finanziamento esterno. Pian piano la torta si sarebbe ampliata con una maggior proporzione della nostra quota di reddito. Avremmo creato profitto e investito. In tal modo, avremmo potuto anche sostenere la nostra autonomia. La mia argomentazione era che se avessimo ottenuto terreno pubblico in pieno centro città, ad appena un isolato dalla stazione ferroviaria, non sarebbe dovuto essere difficile fare profitto per il nostro ambiente artistico e sociale. E nulla di tutto ciò si concretizzò.

Neppure l’ostello della gioventùl?

L’ostello della gioventù è un’azienda pubblica. Non è autonomo. La mia idea era che lo si sarebbe gestito come cooperativa, del tutto in mano a operatori indipendenti. Ma è invece un’istituzione pubblica, e non è gestita da persone indipendenti. Anzi, artisti e gruppi sociali della Metelkova non hanno voce in capitolo. Quindi, in tal senso, è un completo fallimento. Quel che si vede è un bell’ostello con un concetto innovativo e una bella storia.

E molto ben progettato.

Ben progettato e innovativo. Grazie alla disponibilità di tempo. Sette anni di occupazione hanno dato spazio all’ immaginazione.

Quanto lavorasti al progetto di commercio equo?

Giusto alla parte iniziale. Ero solito lavorare con Oxfam e la rete L’Atelier negli anni 1980. La decisione finale fu presa quando stavo preparando un progetto in Brasile intorno al 1997. Volevo fare ricerca antropologica con la mia amica Amalia Souza e il nucleo di Cultura Indigena. Quando vidi le piantagioni di caffè e i deserti sul territorio che prima era ricoperto dalla foresta pluviale del Brasile, pensai che il consumo etico sarebbe diventato sempre più un’attività prioritaria. A quel tempo la gran parte del caffè sul mercato era brasiliano. Adesso è il Vietnam il maggior produttore di caffè. Il caffè è un valido esempio di come entrare nell’etica attraverso il consumo, pur trattandosi di consumo quotidiano di una piccola cosa.

Con un enorme margine di profitto.

E un enorme danno all’ambiente in Brasile, Vietnam, e altrove. C’è un enorme deserto delle dimensioni della Francia nella regione di São Paolo a causa della produzione insostenibile di caffè. Questa devastazione del territorio fu la mia motivazione a entrare nel commercio equo. Poi trovai dei soci. La nostra idea originaria era di aprire un punto di commercio equo qui alla Metelkova, ma questo progetto fu così lento e pigro. Sicché l’aprimmo in centro città.

È ancora lì?

Sì, è ancora lì.

Ma serve più che altro una clientela di ceto medio-alto?

È un piccolo progetto. Volevo solo illustrare che abbiamo lo stesso problema sul piano della gestione (governance). Non è basato sulla partecipazione di membri. Non è una cooperativa sociale. Non serve i beneficiari diretti sul terreno. È un bel progetto, educativo e provocatorio. Sfidiamo varia gente a Lubiana. Ma in termini di governance e d’impatto, è chiaro che non è una cooperativa sociale.

Hai potuto creare un’autentica cooperativa sociale?

No. Penso che abbiamo un grave problema nella nostra società post-transizione, cioè l’incapacità di fare vere valutazioni dei bisogni. I progetti che assorbono denaro disponibile vengono normalmente iniziati e gestiti da persone non direttamente in relazione con i sostenitori, sono intermediari. Nei vari passaggi si disperde molto denaro. Sono appena stato intervistato da una persona che sta facendo uno studio sulle cooperative sociali. Le ho detto “Quanto mi piacerebbe vedere sorgere una cooperativa in Slovenia che sia autentica, creata dalla base, fondata sull’appartenenza dei soci, che li serva direttamente, con un modello di gestione degli affari trasparente”.

In Slovenia, questo approccio non ha preso piede. Ci sono stati molti esperimenti cominciando con otto cooperative qui alla Metelkova. Ho avuto un ottimo finanziamento per tali cooperative iniziali qui. Ma è finito tutto senza successo. Furono fatti altri esperimenti, ma ci siamo imbattuti in problemi strutturali e concettuali su tutto quanto, compreso il versante dei finanziatori e del governo. Quando fui intervistato qualche settimana fa riguardo alle cooperative sociali, raccomandai che il governo istituisca scrupolosi requisiti d’idoneità per le proposte ed esamini attentamente i sostenitori prima di stanziare fondi pubblici per le proposte.

E le cooperative agricole? Ho scritto qualcosa sull’agricoltura biologica slovena qualche anno fa per Food First.

Solo 3% degli alimenti biologici venduti sul mercato sloveno è d’origine slovena. La maggior catena di alimenti bio, gestita da un mio buon amico, importa in sostanza tutti i prodotti.

Abbiamo purtroppo assistito al sorgere del complesso bio-industriale. Negli Stati Uniti, il settore bio è strutturato in modo molto simile al settore industriale. Tagliano i costi con le stesse modalità ed espellono i piccoli produttori. Non era così quando scrissi l’articolo.

Quel che non appare nelle cifre è la produzione di verdura e frutta bio per i bisogni domestici. È lì che la Slovenia è enormemente differente dalla maggioranza degli altri paesi. Gli sloveni sono proprietari d’immobili. Gran parte delle famiglie slovene dispone di giardini e orti. Io ne ho uno dove mi produco verdura, mele, prugne. Produciamo in casa tutte le marmellate che ci servono. Produco l’aceto, ecc. Inoltre, molte famiglie a Lubiana hanno parenti in campagna.

Un altro fattore disponibile in Europa e non negli Stati Uniti sono le sovvenzioni UE agli agricoltori a scopo ambientale: per preservare spartiacque, suolo, aree d’interesse speciale come gli acquitrini. Gli agricoltori possono coltivare prodotti biologici ma anche sostenersi con tali contributi.

Aumentare l’autosufficienza alimentare è una priorità. Il nostro settore alimentare è nei guai sul mercato europeo. D’altro canto, abbiamo tutte queste risorse.

Fai ancor sempre quel che facevi quattro anni fa quando lavoravi nel settore dei trasporti?

Trasporti, telecomunicazioni, ed energia. Sono ancora nella definizione delle politiche relative.

Ci provi ancor sempre gusto?

Sì, quest’incarico offre un enorme campo d’intervento. Con le tecnologie emergenti e opportunità di ridurre decisamente le impronte di carbonio, è un’enorme sfida per creare strumenti di sostegno, che si tratti di esenzioni fiscali o sussidi diretti ai cittadini, alle aziende medio-piccole (SME), o ad aziende su vasta scala. Ma c’è anche l’enorme pressione di varie lobby. Nello stabilire politiche in questo campo c’è spazio anche per l’etica e l’attivismo.

Il mio iter professionale è ora piuttosto equilibrato. Ho più di 10 anni d’esperienza negli affari comprese tecnologie incisive di R&D; oltre 10 anni in ONG; e ormai quasi 10 anni in ambito governativo. C’è spazio ovunque per l’etica e un autentico attivismo etico. Quand’ero in ambito commerciale, rifiutai di vendere/sviluppare il mio software per l’ esercito jugoslavo, mettendomi nei guai con i dirigenti della mia azienda. Allora creammo un’aziendina con Janez Jansa e colleghi. C’è quindi spazio per una resistenza in tutti i settori. D’altronde, altruisti ed egoisti, persone sincere e bugiardi, quelli che amano la verità e quelli che la manipolano, i lavativi e i gran lavoratori: la proporzione di caratteristiche positive e negative della gente è – per mia esperienza — la stessa in tutti i settori: ONG, enti governativi, e aziende. Il settore delle ONG non ne è affatto esente. E si possono trovare altruisti che lavorano sodo con alti valori etici negli enti governativi e nelle aziende tanto quanto nelle ONG.

Quando consideri la situazione qui in Slovenia, che cosa ti rende più ottimista?

La mia filosofia è che bisogna trovare internamente l’ottimismo. In sloveno abbiamo una bellissima parola tradotta in inglese con “circostanze” – okoliš?ine, che, divisa in tre, (okol iš?i ne),vuol dire “non cercare intorno”. Guarda in te stesso! Si dice che le circostanze determinano le proprie azioni, atteggiamenti, o la moralità. In sloveno, la parola lo nega: non incolpare le cose intorno a te, è tutto dentro. La mia motivazione deriva dalla capacità di valutare in permanenza quel che facciamo. Ecco che cosa mi manca in Slovenia al momento: desidero ardentemente circoli intellettuali che valutino in permanenza le nostre prestazioni. Vera motivazione e ottimismo non derivano dalle circostanze ma da una valutazione interiore dei processi. Le nostre azioni sono corrette? Dobbiamo rivedere i nostri obiettivi?

Personalmente, sono sempre più immune alle illusioni. Considero i fenomeni della società secondo la prospettiva dell’esperienza e dei fallimenti. Non mi vergogno a parlare di fiaschi.

Un fiasco è la madre della creatività in ambito artistico.

Un fiasco è come impara il bambino: cadendo, cadendo, cadendo.

Ma quando si diventa adulti non si vuole fare fiasco. C’è una gran paura di fallire.

Abbiamo esempi aggiornatissimi di concezioni erronee e fiaschi. Per esempio, 20 anni di democrazia qui non hanno prodotto una matura popolazione pro-democrazia. Talvolta sono deluso osservando il livello di comprensione della democrazia. Per esempio, c’era un candidato, Miro Zitko, che non riuscì a raccogliere 3.000 firme per presentarsi alle elezioni presidenziali. Abita in un villaggio remoto nella sua casa ecologica che si è costruita da solo con legno e pietra. Concorreva a queste elezioni per promuovere uno stile di vita ambientalista, la produzione di alimenti biologici, e concetti di autosufficienza. Investì il suo tempo per concorrere, ma con un programma che non ha a che fare con la funzione del presidente, il che ne mostra un completo fraintendimento. Un presidente non è un partito politico, è il comandante in capo dell’esercito sloveno, a parte il protocollo, che è in effetti quello di cui poi si occupa.

Sarebbe stato uno spreco di tempo.

Era inteso solo come pubbliche relazioni, d’accordo. Abbiamo diritto di partecipare alle elezioni per proporre nuove tematiche. Ma se era quella l’idea, ci sarebbe voluto un consenso dei gruppi d’interesse sulle abitazioni ecologiche e la produzione di alimenti biologici in relazione ai temi sollevati dal candidato. Non avvenne nulla del genere; né egli si mise in rete con il suo elettorato. Tali fiaschi hanno conseguenze a lungo termine sulle organizzazioni politiche di base autonome verdi. Saremo capaci di imparare dal fiasco di Miro? Gli sloveni valuteranno quella campagna conclusasi ieri? No.

Parlando di fallimenti egregi, come hai considerato l’ascesa e la caduta politica del tuo ex-collega Janez Jansa?

Era uno dei tre più forti capi politici del paese a partire dal 1991, o al governo o come più forte oppositore al parlamento. Non direi che abbia avuto alti e bassi: è tuttora il primo ministro.

Ma è attualmente sotto inchiesta.

Tutti sono sotto inchiesta attualmente. Chi non lo è?

Tu no.

Vero, io non lo sono, Benché sia stato invitato poche settimane or sono come importante fonte d’informazione dall’ equivalente sloveno del FBI, una nuova istituzione fondata sotto il precedente mandato di Jansa. Indagano sulla corruzione politica e i conflitti d’interesse. Quindi, sono ancora sotto inchiesta. Gran parte dei dirigenti politici lo sono in questo paese.

Mi hai già detto dei tuoi ripensamenti e cambiamenti di prospettiva nel corso degli ultimi 20 anni — su Metelkova, commercio equo, il movimento per la pace sloveno. Ci sono altri argomenti sui quali hai fatto seri ripensamenti?

Come la pace?

Quello è un buon argomento. Hai fatto gran dibattiti con la War Resister’s International sugli interventi militari. Allora, come si sono evolute le tue opinioni sulla pace?

Sono un convinto assertore dell’ahimsa e del concetto della nonviolenza, sempre più valido. Ci vogliono secoli per introdurlo nella società. È decisamente un campo d’intervento per progressisti, a tutti i livelli, in tutti i momenti: il concetto di risoluzione dei conflitti e di resistenza nonviolenta; ho dedicato il mio libro sulla Metelkova a nuove generazioni di resistenza. Per me questi esempi storici sono importanti. Ecco perché investo molto del mio tempo libero a valutare i fallimenti, come l’occasione mancata attorno alla data del 20 giugno 1991 di cui ho parlato prima. Tutte le generazioni future dovranno sfidare la democrazia. Useranno tecniche nonviolente e la cooperazione internazionale, ONG ed enti governativi, tutti i livelli di messa in rete e di pressione in senso globale? L’intero approccio nella ricerca del consenso a livello internazionale, per esempio nella UE, sembra essere rilevante.

Che cosa avete pensato qui del movimento Occupy?

Quello fu un’eco del movimento degli Stati Uniti. I capi di questo movimento erano di élite, non di base: professori nell’ambito sociologico ecc. Succede ovunque ci sia un movimento globale: un professore arriva da qualche parte dall’ufficio con una maschera nera in volto e urlando. Creare un movimento di base comporta un certo tempo d’ incubazione sul terreno. Per creare un orto biologico ci vogliono anni di preparazione del suolo: lo sanno tutti i giardinieri. È di nuovo un esempio di fallimento, di qualcosa rubato dagli intellettuali, che sono già al potere.

Che cosa pensi diRog?

Rog è un esempio di cooperativa fallita. Ho lavorato con loro sul tema dei lavoratori. Avendo io scritto un libro sulle cooperative, volevano che mi consultassi con loro su come gestire la cooperativa. Non riuscirono a farla decollare. Era un altro esempio di un’élite a gestire un cosiddetto progetto marginale. Hanno caterve di problemi di democrazia interna, per quel che ne so. Hanno capi carismatici. Non è un buon esempio.

Rog è una cosa complessa. Mi dà molti pensieri. Non più di 20% dela capacità della Metelkova è attualmente in uso. Lubiana non ha bisogno di tante istituzioni pubbliche. I circoli della Metelkova sono pressoché inutilizzati di giorno. Ho letto il bando per la ricostruzione di Rog, pubblicato l’anno scorso, definito un bando pubblico-privato, cosa che non è davvero così. La nozione di società a partecipazione pubblico-privata (PPP) è secondo me abusata in questo caso. La legge sulle acquisizioni pubbliche mediante PPP si usa qui per compensare imposte immobiliari anziché avviare un’azienda e un modello di governance pubblico-privati ben studiati. Non c’è un concetto su come si gestirà la parte pubblica una volta ricostruita la fabbrica Rog. Hanno in mente che la municipalità paghi il programma. Non c’è alcuna idea di autosufficienza.

Che ne è del movimento dei “Cancellati”? (“Erased, circa 18.000 cittadini serbi privati dei loro diritti, ovvero “cancellati” dai registri di residenza e diventati apolidi, ndt)

Ci sono organizzazioni gestite dai “Cancellati”?

Ce ne sono due gestite dai “Cancellati” stessi.

È cosa d’altra natura. È chiaramente una campagna temporanea anziché qualcosa che costruisca una struttura a lungo termine.

Fosti sorpreso quando venne alla luce la questione dei Cancellati?

Non ricordo se lo fossi o no. Non ne fui coinvolto — non era nella mia agenda.

Ci hai pensato da allora?

No, non me ne sono occupato. E non ne ho un’opinione chiara.

Nessun altro tema di cui vorresti parlare?

Ho scritto delle cose che credo urgenti da comunicare. È tutto nella biblioteca digitale www.dlib.si e sarò ben lieto di commenti e opinioni dei lettori.

Concludo con tre domande quantitative. Guardando al prossimo futuro, il prossimo paio d’anni, come valuti le prospettive su una scala da 1 a 10, ossia dalla più pessimistica alla più ottimistica?

Non ho la minima idea. Non sono né ottimista né pessimista. La mia esperienza mostra sia il buono che il cattivo della vita. Amo la vita. Il prossimo mese avrò un figlioletto.

A proposito di produzione di alimenti biologici, darei dei voti alti. Sono stato nella produzione e nel consumo di alimenti biologici negli ultimi venti anni. Ho cooperato con il primo negozio di alimenti biologici a Lubiana e con Brane Žilavec, pioniere della permacultura e degli alimenti bio. Guardando alla crescente consapevolezza sulla produzione di alimenti bio, sono ottimista. Vedo che la gente sta cambiando opinione verso il commercio equo. Potremmo aver bisogno del paradigma di mutamento climatico per spingere verso il commercio equo.

Sono anche ottimista riguardo al pensiero coloniale. I libri di storia saranno profondantemente riscritti nei prossimi 10 anni, a livello globale. La biblioteca Nag Hammadi fu scoperta negli anni 1960. Gli scritti essenici di Qumran furono scoperti nel 1959. La Bhagavad Gita fu tradotta verso la fine del 18°secolo. Parliamo di un solo secolo di disponibilità di fonti primarie e della loro traduzione in linguaggio “coloniale”. Siamo solo al 17° anno d’esistenza di Internet. Quindi sono ottimista in termini di antropologia comparata. I miti e le bugie delle grosse ideologie, compreso il cattolicesimo, saranno spazzati via nei prossimi 20 anni. I nostri figli penseranno in modo molto diverso da noi. Saranno liberi dall’indottrinamento lineare, mono-ideologico.

Non possiamo disegnare il futuro se non facciamo pace con il passato. Quel che serve nella nostra società è una visione realistica del passato. Gli archivi della seconda guerra mondiale sono ancora ermeticamente chiusi. Solo ora affiora l’alleanza fra Hitler e Stalin grazie alla testimonianza di persone che vi furono coinvolte. Quanto ho dovuto imparare nella mia istruzione elementare e successiva è superato oggi. Si apriranno gli occhi alla gente. In quanto a questo mutamento di paradigma, sono ottimista e dò un voto di 10.

Guardando indietro al 1989, come valuteresti i cambiamenti qui in Slovenia, sempre su una scala da 1 a 10 in termini di soddisfazione (dal minimo al massimo)?

Ti ho già detto che non sono contento della consapevolezza del processo decisionale democratico, o della comprensione della democrazia di base. I media sono corrotti. Il giornalismo è di basso livello: non cerca la verità, serve le lobby. Non sono soddisfatto del livello esistente della cultura del dialogo in Slovenia.

Ma sono molto soddisfatto della forza della popolazione nell’evolvere così alla svelta attraverso un processo relativamente difficile. In quanto a tutti questi grossi temi — come il diventare membro dell’UE o garantirsi l’indipendenza in un tempo relativamente breve, ci siamo evoluti a livello costituzionale e di standard democratici — penso che dovremmo essere fieri degli ultimi venti anni. La transizione è stata costituzionale, ha rispettato i diritti umani, ed è stata ampiamente nonviolenta. Come comunità, dovremmo essere orgogliosi. Insisto nel ripeterlo.

Con la stessa scala e lo stesso periodo, come valuteresti la tua vita?

Dopo 10 anni negli affari, 10 anni in una ONG, e 10 anni nel governo, ho sostanzialmente la stessa osservazione: ci sono brave persone e persone di nessun valore ovunque, in ogni settore. Quel che mi disturba di più è la mia delusione con le persone delle ONG. Abbiamo quest’illusione che le ONG seguano standard etici più elevati. La mia esperienza quanto mai dolorosa è stata che le persone in circoli progressisti non avevano più solidarietà o livelli etici superiori quando richiesto dalla situazione. Ho dovuto adeguarmi al fatto che le ONG hanno persone soggette alle stesse patologie culturali di tutti gli altri. Mi serve tempo per riprendermi da tale esperienza e trovare motivazione per l’azione futura da dentro e non dalle circostanze.

Quel che hai scritto sul tuo sito web a proposito del mio essere stato un anarchico e di lavorare adesso nel governo è irrilevante. Sono lo stesso nei circoli governativi come fra gli anarchici. Esprimo la stessa qualità di tessuto umano qui e là.

12 giugno 2013

Traduzione diMiky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Titolo originale: We Were So Close to Preventing Genocide, Lubiana, 18 ottobre 2012

http://www.johnfeffer.com/we-were-so-close-to-preventing-genocide/

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