Democrazia versus rivoluzione. Rapida introduzione a due concetti di uso comune – Silvio Paolini Merlo

Riceviamo da Pietro Polito e pubblichiamo come spunto di riflessione

Non passa giorno, osservando giornali e telegiornali o inoltrandomi nella sterminata galleria degli orrori del conformismo libertario dilagante sui social network, in cui non mi capiti di pensare che, forse, la confusione di gran parte dell’odierna società italiana dipende da confusioni di tipo mentale, dallo scarso rigore logico del nostro linguaggio, dal fatto che si parli troppo spesso senza sapere bene di cosa si stia parlando. Accetto perciò volentieri il ruolo scomodo del saccente al solo scopo di ravvivare linguaggio e memoria. Inizio da quest’ultima. L’italiano è un popolo che non ha mai digerito granché sia le rivoluzioni che le democrazie. Circa le rivoluzioni qualche esperimento l’ha fatto, ma non gli è andata molto bene. Qualche decennio fa col brigatismo rosso e nero. Qualche decennio prima con un problemino che più d’uno ricorderà e che si chiamava fascismo. Al quale Gobetti rispondeva, provocatorio, con la sua “rivoluzione liberale”. Con la democrazia le cose sono andate appena meglio, perché in barba a fior di intellettuali, filosofi e artisti, nessuno ha mai capito bene di cosa si tratti. Che non collida molto con mafie, mafiette e lobby di vario genere è forse la sola cosa data per concessa. Ma vediamo di chiarire meglio alcuni punti.

Punto 1): La democrazia è un equilibrio sociale basato sul dialogo.

Ovvero si fonda sull’equa e proporzionale distribuzione delle rappresentanze. In base a questo principio nessun eletto ha possibilità di prevalere sugli altri, e appunto per questo deve confrontarsi con il proprio elettorato quanto con le altre forze politiche. È un principio semplice, ma che ci garantisce precisamente quello che alcuni oggi preferiscono eludere. Che le rappresentanze politiche non siano credibili solo perché si dimostrano fallibili o perché concedono qualcosa all’avversario, che più in generale il mondo debba essere popolato da persone brave e buone, tutte d’un pezzo e senza macchia è per lo più il cavallo di battaglia di tutti i radicalismi e giustizialismi di derivazione nazional-populista che si sono visti nella storia moderna, dal giacobinismo fino ai movimentismi odierni come leghismo e grillismo. Tratto comune a ogni prospettiva di questo tipo è quindi l’integralismo filisteo, duro e puro, e il sovversivismo rivoluzionario. E che il grillismo sia un progetto eversivo finalizzato al colpo di stato all’arma bianca è, credo, tanto più evidente quanto più si dimostra insofferente al pluralismo delle rappresentanze in favore di una rappresentanza unica.

Punto 2): Ogni rivoluzione è per definizione antidemocratica.

Rivoluzione, termine che viene dal linguaggio astronomico per intendere il ritorno al punto di partenza, ha assunto in epoca moderna il significato virtuoso di azzeramento totale e irreversibile di un sistema sociale politico ed economico malato (Grillo ha aggiornato il lessico col termine “resettaggio”, ma il principio resta esattamente quello). Sotto questo profilo, rivoluzione è cosa molto diversa da opposizione, e somiglia semmai al ribellismo indiscriminato di chi non cerca ma pretende consenso. Che da questo presupposto si pervenga all’esigenza di una sospensione della democrazia non credo occorra insistere. Il dato è chiaro: se si intende rovesciare un sistema, per corrotto o repressivo o illiberale che dir si voglia, si ammette l’idea che il rapporto tra minoranze e maggioranze venga meno. Nessuno ha più diritto di legiferare allo stesso titolo, o di più o di meno rispetto ad altri, ma c’è chi ha diritto di farlo e chi invece no. Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, per restare in Italia, hanno elaborato in modo compiuto una organica teoria delle élite, assumendo per scontate le premesse secondo le quali nessun potere può venire esercitato senza essere affidato a minoranze illuminate, per definizione espressione di se stesse prima che del paese che dovrebbero rappresentare. È la parabola del gregge e del buon pastore. Basta applicare l’elitismo, teoria nata dalla constatazione di una congenita disgregazione sociale del popolo italiano, al malcontento indistinto dell’italiano comune di oggi, e avrete il grillismo. Un elitismo esercitato dal basso e di tipo post-ideologico.

Punto 3): Antipartitismo e antidemocrazia sono coincidenti.

In questo tra berlusconismo e grillismo esistono assai maggiori punti in comune che non col renzismo. Berlusconismo e grillismo non hanno mai riconosciuto i propri avversari politici, ovvero partono dal presupposto che l’Italia non sia fatta di tante componenti, ma di una sola realtà: la propria. Il renzismo parte dal presupposto diametralmente contrario: riconosce tutti alla stessa maniera. E in questo viene a compiere la stessa spiazzante operazione di innovazione che Papa Bergoglio è stato chiamato a interpretare nello Stato vaticano, per ragioni in fondo molto simili. Ammettere che vi siano altre verità, con le quali dialogare anche se non si è d’accordo, e anzi proprio perché non si è d’accordo. Quanto poco democristiano, berlusconiano, dalemiano o altro ancora sia questo atteggiamento lo dice l’apertura dei partiti riformisti italiani verso le socialdemocrazie europee.

Punto 4): Ogni sistema democratico è sempre autoemendabile.

L’antico adagio, di matrice idealistica ottocentesca, per cui l’ordine costituito non lo si migliora ma lo si abbatte è esso stesso sommamente antidemocratico. Ed è su questo scoglio che si sono infranti i miti di tutti i pensieri forti, dei vari marxismi, nazionalsocialismi, corporativismi, falangismi, sindacalismi rivoluzionari, ecc. Un sistema basato sulla convinzione di interpretare messianicamente il senso della storia non può autoemendarsi. Una democrazia sì.

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