In memoria di don Peppino Diana – Giuliana Martirani

Per amor del mio popolo non tacerò

Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo vidi sotto l’altare
le anime di coloro che furono immolati a causa della parola
di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. (Ap 6,9)

Il paese deserto

Ti incontrai per le strade del Paese deserto. Eri solo e appena mi vedesti d’un soffio dicesti: «Quante volte, presi dai vostri ritmi affannosi mi avete lasciato solo. Quante volte non vi siete neanche accorti della mia presenza».

Incominciammo a camminare insieme per le strade deserte del paese. Chissà perché era deserto in quel momento il Paese: era forse l’ora tarda, oppure era deserto per combinazione, oppure più semplicemente era, in quel momento, come in realtà è sempre: deserto di gente che abbia un po’ di coraggio.

E tu mi sussurrasti nell’orecchio:

«Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di avere paura,

il coraggio di fare delle scelte, di denunciare.

Perché la camorra è una forma di terrorismo che incute paura

e tenta di diventare una componente endemica della nostra società.

Rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale,

privo però di burocrazia e di intermediari che sono la piaga dello Stato legale»,

e mentre lo Stato legale offre

una «inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini»,

quello illegale si rafforza sempre più

«dove regnano povertà, emarginazione, disoccupazione e disagio».1

Mentre camminavamo, il Paese continuava a essere deserto di gente.

Di gente cioè, che ha voglia di farla finita con mafie organizzate e delinquenze spicciole, e che voglia fare, una volta per tutte, la scelta decisiva di esser cristiani, come lo eri tu.

Di gente che,come tu dicevi crei «una forza di opinione e di coscienza che attraverso l’opera evangelizzante della Chiesa, maestra di opera nonviolenta, possa arrivare alle istituzioni e ai partiti politici per ricordare il ruolo etico-sociale che la Chiesa, lo Stato e i partiti posseggono nei loro intenti di base, risvegliando nel cittadino il senso di speranza e della vita».2

Non solo, quindi, cristiani della domenica, delle prime comunioni e di blasfemi matrimoni e funerali in Chiesa, ma gente vera come sei stato tu, che il cristianesimo, cioè, lo prenda sul serio e alla lettera: non uccidere, non rubare, non frodare, non mentire. Almeno il cristianesimo dei «non», quello dei dieci solenni comandamenti e divieti, il cristianesimo del non fare cose turpi. Che faccia almeno quel cristianesimo del Decalogo se non riesce proprio a far suo il cristianesimo delle Beatitudini, che è già su un altro piano, perché è il cristianesimo dell’andare oltre le leggi dei divieti, e di vivere invece quelle dell’amore.

Il Paese era deserto di gente. E, vedendo la luce splendente della resurrezione mi vennero in mente le tue parole lapidarie sul risorgere:

«Se la camorra ha assassinato il nostro Paese
noi lo si deve risorgere, bisogna risalire sui tetti
e ri-annunciare la parola di vita».

Camminando nel silente Paese mi raccontavi le mille cose che stavi facendo, come quando, tu in vita, te le vedevo fare mentre lasciavi pesanti impronte d’amore nel tuo procedere deciso verso la città di Dio, che eri certo di dover costruire, tu prete. E mentre ti raccontavi mi ricordasti le parole del tuo fondatore scout, Baden Powell: «Nel vostro passaggio in questo mondo, che ve ne accorgiate o no, state lasciando dietro di voi una traccia». E io sorridevo beata accompagnandoti nel nostro camminare sereni ma veloci.

Mi sembrava di essere ritornata ai vecchi tempi, quando, tu vivo, molti di noi eravamo proprio certi di poter cambiare le sorti del nostro Paese, col solo fatto di prenderlo alla lettera e sul serio quel Vangelo a lungo annunciato e detto nel nostro stesso Paese per secoli e generazioni di cristiani: che fosse venuta finalmente la sua e nostra salvezza?

Il quinto sigillo

Parlando parlando entrammo, infine, in una grande sala. Subito mi venne in mente, e son certa venne in mente anche a te, la sala del Cenacolo, versione moderna: un grande tavolo come quelli delle riunioni di affari dove si decidono, seduti e senza fretta, cose serie e importanti. Un tavolo, però, pronto a diventare la mensa dell’agape fraterna e quella del banchetto eucaristico, dove finalmente si fa il grande ringraziamento al Padrone del mondo perché spezza con noi il nostro faticoso vivere per trasformare Ninive in Gerusalemme.E mentre continuavamo gioiosi a incoraggiarci a vicenda, come dovrebbero fare i cristiani (o forse, a dir meglio, eri tu che, col tuo splendore, incoraggiavi me!) entrò un altro uomo nella sala, splendente come te e come te vestito della candida veste. Lo guardai con curiosità, ma fu temporaneo il fissarlo. E nei suoi occhi vi trovai altri sguardi di fuoco: gli occhi di don Pino Puglisi, ucciso a Palermo, e di don Peppino Rassello, infamato e «fatto morire» nel rione Sanità, e quelli di Giovanni e Francesca Falcone, insieme agli occhi di Paolo Borsellino e quelli di Peppino Impastato e Dalla Chiesa e Saitta e Livatino e…

Subito capii che quella fugace figura in candida veste era anche lui, come te, caro Peppino, uno di casa, da come vi guardaste senza guardarvi, come si fa tra fratelli che vivono nella stessa casa e non c’è neanche bisogno di salutarsi. Mi confortò assai vederlo.

Mi fece bene la sua fugace presenza, alleviò quell’antica amarezza che da quando ti avevano ucciso mi mordeva il cuore!

A vedere, però, te e lui vestiti entrambi di bianco e splendenti mi venne in mente, in quel momento la «veste candida» di coloro che, nell’Apocalisse, tolto il quinto sigillo, «furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa» (Ap 6,9). Capii in un lampo che non eri solo in quella casa e che, come te, ce n’erano altri, forse molti altri (e tanti, d’altronde, avrei potuto chiamarli per nome io stessa perché compagni di generazione, di storia e di nazione) ce n’erano, insomma, tanti altri «immolati a causa della Parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa».

Eri come arrabbiato, deluso e amareggiato da tutti quelli che sembravano aver abbandonato l’impegno, ricadendo nell’assuefazione e nella passività, una passività mortale, e nel ritorno alla rassegnazione, mentre in forme subdole la camorra, quindi l’ingiustizia sociale, sempre più venivano «legalizzate».

Eri come arrabbiato, deluso e amareggiato dalle istituzioni dello Stato e dei suoi aspetti amministrativi e gestionali, sempre più silenti, ma anche dalle forze sociali, sempre più infiacchite, dalle agenzie educative che tacciono, dalla mancanza di progetti nella realtà produttiva e occupazionale e perfino dalle famiglie senza nessun ruolo educativo per «camorristi in erba». Frugasti cogli occhi tra case ben note di camorristi, mentre con le orecchie aguzzate cercavi di percepire lontane note che col coraggio dei giovani dicevano, passando sotto le loro finestre:

«Amme pigliato chitarre e tammorre,
pecchè sta musica sadda cagnà,
simme ‘e Casale e facimme paura
e sta scuppetta l’avimma pusà»3

Sorridesti per la creativitàdei tuoi giovani che sfidavano la camorra a venti anni dalla tua morte e passandosotto le ben note case camorriste volesti sfidarli ancora una volta:

«Convertitevi! Nonsolo un pentimento politico,
ma una vera e propria conversione delle coscienze.
Ascoltatela voce del vostro cuore.
Anche voi potete amare come tutti gli uomini.
Cambiatevita. Date un futuro ai vostri figli».

Poi alzasti lo sguardo verso il cielo, quasi a fissaregli occhi in un invisibile amico, e trovando la soluzione, dicesti d’un tratto: «Se non vorrannoricordare le mie parole in paese, se vorranno rendere vano il mio stesso morire eil mio sangue versato, ascolteranno almeno le parole del Capo! Lo dirò a Lui quello chei camorristi stanno «facendo», e ciò che coloro che non lo sono stanno «non facendo».

E subito girò lo sguardo verso un punto della sala, quasi vedesse una persona che io non vedevo affatto e con la voce di chi ha l’abitudine di rivolgergli la parola e per di più in modo assai confidenziale gli gridò d’un soffio:

«Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?» (Ap 6,10).

Poi di nuovo si girò verso di me e allontanandosi per andare «non so dove» mi raccomandò, perché lo dicessi a tutti gli altri compagni di cammino:

«Quando vi sentite soli, a volte sconfitti e delusi,
quando le tenebre scendono sui percorsi della vostra vita,
e anche quando c’è da far festa, gioire, amare,
quando finalmente i giorni saranno di pace e di giustizia,
cercatemi, chiamatemi, perché
per amore diquesto mio popolo,
sarò di nuovo al vostro fianco, con voi, dentro di voi».

Se vuoi sollevare un uomo dalla melma e dal fango non
credere di poter restare in alto e accontentarti di stendergli
una mano soccorrevole. Devi scendere giù tutto,
nella melma e nel fango.
Afferralo allora con mani forti e riconducilo con te alla luce.

Rabbi Schlomo

1Per amor del mio popolo non tacerò.

2 La forza della parola, 1991.

3 Abbiamo preso chitarre e tamburi

perché questa musica deve cambiare.

Siamodi Casale e facciamo paura

e questo fucile lo dobbiamo posare.

 

 

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