La nonviolenza è fallita in Egitto? Mark Engler e Paul Engler

Tre anni fa in febbraio, il presidente dell’Egitto, di 82 anni, Hosni Mubarak, si è dimesso in mezzo a storiche proteste contro il suo governo dittatoriale. La notizia delle sue dimissioni , l’11 febbraio 2011, ha segnato il culmine di un’insurrezione che è stata subito riconosciuta come uno delle più improvvise e significative rivolte del 21°secolo. Come ha scritto il New York Times: “L’annuncio che arriva dopo una rivolta di 18 giorni guidata dai giovani dell’Egitto, fa a pezzi tre decenni di stasi politica e capovolge l’ordine stabilito del mondo arabo.” In Egitto gli attivisti, insieme ai loro simpatizzanti di tutto il mondo, si sono rallegrati.

“Avevamo tentato prima, ma niente era stato così,” ha detto Ahmed Salah, un giovane organizzatore veterano che aveva lavorato per anni per     l’opposizione al regime. Per mesi aveva propagandato l’idea audace e improbabile di una rivoluzione senza armi. “Avevo delle speranze, ma non ho mai realmente pensato che l’avrei visto,” ha spiegato. “Tahrir mi ha fatto venire le lacrime agli occhi.”

Oggi l’euforia di quel tempo se n’è andata. Le forze armate, ora al comando del Generale Abdel Fattah al-Sisi sono di nuovo in carica, avendo mandato via il governo eletto della  Fratellanza Musulmana  di Mohamed Morsi lo scorso luglio. Il preminente esperto di scienze politiche, Amr Hamzawy, definisce la sua nazione “un paese nella paura” che sta ora sperimentando “una veloce ripresa dell’autoritarismo.”

Amnesty International concorda. In un recente rapporto il gruppo per i diritti umani affermava: “Tre anni dopo, le richieste della ‘Rivoluzione del 25 gennaio’ per la dignità e i diritti umani sembrano più lontane che mai. Parecchi dei sui architetti sono dietro le sbarre e la repressione e l’impunità sono all’ordine del giorno.” Il rapporto sostiene inoltre: “Le autorità egiziane stanno usando ogni risorsa a loro disposizione per  reprimere  il  dissenso e calpestare i diritti umani.”

Questi sviluppi preoccupanti sollevano alcune domande critiche: La nonviolenza è fallita in Egitto? E se è così, che cosa si può imparare dall’esperienza del paese?

L’Egitto è spesso presentato come un esempio di una storia di successo di resistenza civile – un esempio fresco ed eccitante di come una mobilitazione di massa nonviolenta possa prevalere su una forza di potenza militare di gran lunga maggiore. Tuttavia, dato che il paese è scivolato all’indietro  in uno stato repressivo e anti-democratico, questo successo è stato messo in discussione. Alcuni considerano la situazione in Egitto peggiore che mai, e i più cinici affermano  che sarebbe stato  meglio se la rivoluzione non si fosse mai fatta.

In effetti, la rivoluzione egiziana non dovrebbe essere considerata come un successo elementare né come un semplice terreno di rappresentazione di pessimismo. E’ di gran lunga più preziosa quando si riconosce come qualcosa di diverso: un perfetto caso di studio sia di che cosa si può raggiungere con le mobilitazioni di massa che controllano il potere della protesta perturbatrice, sia dei limiti di queste mobilitazioni.

Oltre ‘una struttura saldamente unita  e gerarchica’

Per comprendere come la si è svolta la situazione politica in Egitto, è utile farsi per prima cosa una domanda più elementare: come ha fatto un piccolo gruppo genericamente organizzato di giovani egiziani a finire per impostare  i termini per la rivoluzione nel loro paese?

Se qualcuno avrebbe dovuto capeggiare una rivolta con un esito felice contro il governo di Mubarak, questi doveva essere la Fratellanza Musulmana . Fondato più di 80 anni fa, il gruppo è stato messo al bando in Egitto nel 1954 e ha operato clandestinamente per decenni. Come conseguenza, le stime sul numero totale dei membri sono state imprecise, ma la somma raggiunge le centinaia di migliaia e forse  arriva a un milione. Inoltre, l’influenza dell’organizzazione si estende oltre gli elenchi dei  membri. La Fratellanza Musulmana si è costruita una forte reputazione come fornitrice di servizi sociali, facendo funzionare una rete nazionale di scuole, banchi alimentari, ospedali, e programmi per orfani e vedove.

Nel frattempo,  il regime di Mubarak lavorava  a sua volta per reprimere o contenere le attività politiche della Fratellanza Musulmana. Tollerava questo impegno nel campo della beneficienza – riconoscendolo come supplemento fondamentale alla rete statale di protezione sociale, che si andava sfilacciando. Come ha riferito nel 2011 Nadine Farag, ricercatrice nel campo della sanità, una donna egiziana, indipendentemente dalla politica o dalla religione, poteva pagare l’equivalente di 175 dollari per partorire in un ospedale con personale e attrezzature di buon livello, gestito dalla Fratellanza Musulmana, oppure poteva pagare 875 dollari in un ospedale privato. La Farag nota inoltre che quando un terremoto devastante aveva colpito il Cairo nel 1992, i Fratelli hanno rapidamente fornito tende, cibo, tè, coperte, e ambulatori medici improvvisati, rafforzando così la loro reputazione tra gli egiziani.

Mentre era ancora ufficialmente bandita, la Fratellanza Musulmana ha guadagnato un’affermazione  in parlamento nel 2005 con i suoi candidati che concorrevano come indipendenti. Anche se non era un membro della Fratellanza Musulmana, Salah, uno dei leader dei giovani durante l’insurrezione di Piazza Tahrir, ha tuttavia definito quella organizzazione come “di gran lunga il gruppo di opposizione più grande e meglio organizzato in Egitto”, una formidabile istituzione politica e sociale con membri “organizzati in una struttura saldamente unita e gerarchica.”

Sebbene possa sembrare strano, gli stessi fattori che hanno reso potente la Fratellanza – la forza del suo modello organizzativo – rendevano anche esitanti i sui capi a rischiare tutto quello che avevano costruito, in uno scontro di massa con Mubarak. Dopo tutto, avevano qualcosa da perdere. Poiché la Fratellanza aveva una dirigenza e i suoi membri chiaramente identificati, erano facilmente obiettivi della repressione da parte dello stato. Poiché avevano creato solide strutture per mezzo delle quali potevano pazientemente accumulare potere,  sentivano meno urgenza di forzare una crisi pubblica per il regime. E poiché erano esperti nel gestire una rete di contatti da persona a persona tra la loro base islamista, erano meno bravi a sostenere richieste politiche largamente popolari, che sarebbero state appoggiate da altri segmenti della società.

Questo modello non è insolito. Dal movimento statunitense per i diritti civili, alle “rivoluzioni colorate” nel blocco ex sovietico, fino al movimento Occupy, si può vedere rappresentato  uno scenario analogo: le organizzazioni più affermate, ben strutturate in un dato panorama politico, sono colte di sorpresa da ultimi arrivati poco conosciuti che danno il via a ribellioni nonviolente che catturano l’immaginazione pubblica. Questi nuovo gruppi hanno molto meno risorse e strutture istituzionali molto più deboli rispetto ai convenzionali sindacati dei lavoratori, alle organizzazioni basate sulle comunità o ai partiti politici. Usano però queste prerogative a loro vantaggio organizzandosi al di fuori della struttura di qualsiasi gruppo dissidente tradizionale. Si specializzano in un tipo diverso di attività di movimento sociale: mobilitazione di massa spinta dallo slancio.

Questo tipo di attività di protesta è noto con nomi diversi. La sociologa Frances Fox Piven lo chiama esercizio di “potere perturbatore,” distinguendolo dalle normali pratiche di organizzazioni che prevedono un’iscrizione. Lo storico Charles Payne, identificando due diversi ceppi all’interno del movimento statunitense per i diritti civili, lo chiama la tradizione della mobilitazione della comunità – una derivazione “incentrata su eventi pubblici  di vasta portata, relativamente a breve termine” come  le famose campagne a Birmingham e a Selma – che egli contrappone con la paziente organizzazione delle comunità e con l’evoluzione della leadership locale realizzata da persone come Ella Baker [attivista afro-americana per i diritti umani vissuta dal 1903 al 1986, n.d.t.]. Un campo accademico relativamente nuovo dedicato allo studio della “resistenza civile” ha iniziato a esplorare in profondità le dinamiche delle insurrezioni di massa non armate – incrementando gli studi pionieristici di Gene Sharp riguardo all’azione strategica nonviolenta. In ciascun caso, i gruppi che erano dalla parte perturbatrice  dell’equazione somigliano molto meno alla Fratellanza Musulmana e molto di più al combattivo Movimento Giovanile Egiziano 6 Aprile.

Si è propagato come il fuoco’

Le organizzazioni esperte di media sociali come la 6 Aprile e coloro che seguono le pagine popolari attiviste su Facebook avevano poco in comune con i quadri saldamente uniti della Fratellanza. Mentre questi gruppi formatisi di recente avevano decine di migliaia di membri “on line” – a volte accumulatisi in poche settimane dopo un vento molto pubblicizzato –gli organizzatori spesso sapevano poco più del nome di utente messo su Internet riguardo a un dato sostenitore. Invece che padroneggiare le arti dello sviluppo a lungo termine della leadership, si concentravano sul confronto e lo spettacolo pubblico. La loro forza stava nel raccontare notizie – pubblicizzando le fotografie delle violenze della polizia  e dell’indignazione nelle manifestazioni.

Il regime gli dava materia di lavoro. Gli organizzatori pubblicavano video di persone che venivano picchiate dalla polizia e mostravano le ferite di coloro che erano stati torturati mentre erano in detenzione, il sangue rappreso prodotto dalla morte per scossa elettrica che lascia macchie rosa sotto la pelle delle vittime. Come esempio, la pagina di Facebook  “Siamo tutti Khalid Said”, ha preso il nome da un uomo di 28 anni che, nel giugno del 2010, era staro picchiato selvaggiamente dalle autorità dopo aver messo in rete un video di cattiva condotta della polizia. Come riferisce il giornalista David Wolman, due investigatori lo avevano affrontato in un Internet café e gli hanno “sbattuto la testa sul tavolo prima che il proprietario gli dicesse di andare a picchiarsi fuori. Hanno spinto fuori Said verso l’ingresso di un edificio dove lo hanno preso a calci e gli  hanno spaccato la testa contro un cancello di ferro fino a quando il  suo corpo si è afflosciato.”

Quando l’immagine del suo cadavere è stata fatta circolare on line, è diventata un catalizzatore virale dell’indignazione. “Forse è stato perché era un tipo conosciuto e ben educato che aveva molti amici,” ha detto uno studente a Wolman. “E la foto… era completamente sfigurato. Non so esattamente che cosa era, ma si è propagato come il fuoco.”

Quando è venuto il momento di mobilitare i cittadini per le dimostrazioni del 25 gennaio, l’approccio degli organizzatori dei giovani è stato più simile alla promozione di  un concerto che a costruire le organizzazioni di quartiere. Hanno creato fermento e prodotto entusiasmo. Un altro fenomeno virale è stato un video blog di Asmaa Mahfouz, di 26 anni, co-fondatrice del Movimento 6 Aprile. Invece che nascondere la sua identità, Asmaa si è posizionata direttamente di fronte alla telecamera del suo computer e ha annunciato che avrebbe partecipato alla protesta programmata per il 25 gennaio. Ha implorato senza vergogna gli altri di unirsi a lei. “Fino a quando dite che non c’è alcuna speranza, non ci sarà alcuna speranza,” ha dichiarato Asmaa. “Ma se scendete in strada e prendete una posizione, allora ci sarà speranza.”

La sua testimonianza ha avuto un impatto insolito, stimolando molti altri a far circolare video  girati da loro. Come ha riferito il New York Times, il post di Asmaa “è partito dal comodo, famigliare anonimato dell’attivismo on line. Otre a questo, è stata una donna che ha osato mettere la sua faccia al messaggio, non turbata dalla possibilità di un arresto per il suo atteggiamento di sfida. ‘Non abbiate paura’”, ha detto.

In contrasto con il tipo di proposte  progressive per un cambiamento di politiche che  potrebbero essere normalmente avanzate da un partito politico che cerca di ostentare i suo muscoli istituzionali, i giovani organizzatori hanno avanzato richieste cariche di simboli per produrre la più ampia simpatia possibile. In sostanza, hanno adottato uno slogan che era già stato reso famoso nella vicina Tunisia: “La gente chiede la caduta del regime.”

‘Vi stavamo aspettando!’

Invece di ricorrere a liste stabilite di membri e di mobilitare quelli   già identificati – coinvolgendo un piccolo numero di aderenti reclutati in precedenza – i giovani organizzatori hanno andarono oltre. La maggior parte delle persone che si sono presentate, prendevano parte alle dimostrazioni per la prima volta. A causa di questo, le previsioni degli organizzatori su chi si sarebbe presentato, nel migliore dei casi erano vaghe. Sebbene avessero tantissime conferme on line e avessero fatto  un ampio lavoro di passa parola, non potevano essere sicuri che più di una manciata di persone sarebbero accorse.

L’esperienza del 25 gennaio è risultata essere una meraviglia. “Era il mio quartiere, la mia casa e in 10 anni di attivismo avevo incontrato centinaia di persone all’interno e intorno alla comunità di attivisti,” ha scritto Salah, un altro dei membri fondatori del Movimento 6 Aprile, della  marcia che si era formata nel suo quartiere per dirigersi a Piazza Tahrir. ”Tuttavia le strade erano  piene di uomini e di donne che non avevo mai visto. E scandivano slogan! Mentre ho alzato la voce per unirmi a loro, ho pensato tra me: “Mio Dio! Dove eravate? Vi stavamo aspettando!”

Per un certo periodo i media egiziani etichettavano tutte le attività di organizzazione giovanile, come opera del 6 Aprile.  Questo rifletteva il successo del gruppo nel creare un tipo di mobilitazione che era meno un’istituzione concreta che un movimento aperto con cui si potevano identificare le persone in tutto il paese. Secondo Salah, il gruppo aveva soltanto poche dozzine di persone fisiche, all’inizio del 2011, e tuttavia un’ampia gamma di attività autonoma era popolarmente associata agli sforzi dell’organizzazione. “E’ diventato il marchio,”  ha detto Salah. Siamo riusciti a farne l’icona del cambiamento.

I giovani non hanno soltanto spinto parecchie dimostrazioni precedenti che hanno riempito le piazze del Cairo e oltre, hanno esercitato un’influenza duratura mentre le proteste crescevano. Quando, dopo vari giorni, gruppi come la Fratellanza Musulmana e l’Associazione Nazionale per il cambiamento, guidata da Premio Nobel ed ex capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Mohamed El Baradei, finalmente hanno deciso di amplificare un’eruzione politica che era troppo grande per essere ignorata, questi attori competenti hanno dimostrato deferenza per i metodi e i messaggi che i giovani avevano stabilito dall’inizio.

L’analista di politica estera Robert Dreyfuss ha spiegato: “Quando in gennaio è iniziata l’insurrezione egiziana, la Fratellanza Musulmana  non era tra i capi. In prima linea, nel movimento, c’erano giovani egiziani…a cui si è unito un insieme vario di gruppi laici, socialisti, nasseriani e filo-democratici, e alla fine anche Mohamed El Baradei.” I nuovi gruppi che  hanno aderito in grande maggioranza, hanno adottato gli slogan e l’inquadratura della rivolta attuale.

Quando la rivoluzione è iniziata, l’affidarsi all’organizzazione spinta dall’impulso, non era un limite. Anzi, il gruppo 6 aprile e altri gruppi giovanili sono stati in grado di suscitare un’insurrezione contagiosa esattamente perché non erano basati su strutture rigide. Non avevano risorse organizzative che potevano essere prese dal regime. Non avevano un terreno politico stabilito da difendere o interessi settari che li avrebbero fatti sembrare come un tentativo auto-interessato e di parte. Non avevano strutture che potevano essere facilmente infiltrate.  E quindi potevano    affrontare una campagna su vasta scala, carica dal punto di vista simbolico, destinata al massimo sostegno e al massimo disturbo.

Certamente l’11 febbraio, quando le autorità hanno annunciato le dimissioni di Mubarak e gli attivisti hanno gridato per la gioia nella piazza, nuvole di tempesta erano già all’orizzonte. Nei tre anni successivi, gli insorti nonviolenti avrebbero affrontato una montagna di contestazioni, una ripresa della repressione e lo spettro della contro-rivoluzione. Per il momento, però, hanno ottenuto qualcosa che pochi nel mondo avrebbero  potuto prevedere, e qualcosa che i gruppi meglio organizzati del paese non avevano ottenuto. Hanno detronizzato il tiranno che aveva governato per un periodo più lungo dell’età di molti di loro.

Hanno spodestato Mubarak.

Non sappiamo  fare compromessi”    

Raccogliere la massiccia simpatia del pubblico, portare la gente nelle strade in numero sbalorditivo  “rompendo la barriera della paura” – come diceva una popolare espressione egiziana – mandare a casa un  regime    radicato, sono tutti   successi   notevoli. Dovrebbero essere riconosciuti come tali dai movimenti futuri, e le loro dinamiche dovrebbero essere studiate e le strategie  esaminate a fondo.   Tuttavia, proprio come il modello organizzativo spinto dallo slancio del 6 Aprile e di altri gruppi giovanili ha dato loro un ‘influenza sproporzionata nel  modellare l’insurrezione, le strutture ben congegnate della Fratellanza Musulmana si sono dimostrate essenziali  nel definire che cosa sarebbe venuto dopo.

La sfida dopo qualsiasi insurrezione di massa è istituzionalizzare i risultati del potere perturbatore una volta passato il momento culminante.  Qui le abitudini dell’organizzazione basata sulla struttura diviene di nuovo utile. Un’abitudine di questo tipo si riferisce al modo in cui un movimento presenta i suoi obiettivi. I gruppi spinti dallo slancio  crescono  sulla base di richieste ampie, di trasformazione che abbiano una risonanza simbolica e che possano stimolare l’appoggio da parte del pubblico : “La gente chiede la caduta del regime.” In Egitto questo ampio   richiamo all’azione ha creato una crisi di legittimità per Mubarak,  ma non è stato  altrettanto efficace nell’assicurare l’ascesa di nuovi leader o di nuovi sistemi di governo.

Al contrario, gruppi come la Fratellanza Musulmana si specializzano nel cercare richieste di transizione – risultati più limitati, più sequenziali che sono graditi alla loro base e gli permettono di influenzare il potere istituzionale che hanno accumulato. La strada convenzionale per ottenere tali richieste  comporta contrattazioni, accesso alle informazioni e compromessi. E’ un processo notoriamente incasinato. Non sorprende che le abilità della macelleria politica e della salumeria legislativa non sono forze per reti decentralizzate la cui passione è stimolare la gente che non si sarebbe mai immaginata prima di partecipare a una manifestazione.

Wael Ghonim, il redattore della pagina di Facebook che si chiama “Siamo tutti Khalid Said” e autore del libro: Rivoluzione 2.0, considerava un punto d’onore che il sito non fosse affondato nel buio della politica di partito ma che invece avesse centrato la sua attenzione su argomenti “universali” come la libertà e i diritti umani.

Nel documentario candidato all’Oscar, The Square (La Piazza) – uscito nei cinema alla fine di gennaio per farlo coincidere con il terzo anniversario della rivoluzione – due giovani discutono come questo era diventato un problema dopo la caduta di Mubarak: “La politica non è la stessa cosa che la rivoluzione. Se si vuole fare politica in modo superficiale, bisogna fare dei compromessi. E noi non ne siamo capaci…affatto,” diceva Khalid Abdalla un attivista anglo-egiziano e attore noto per il suo ruolo nel film Il cacciatore di aquiloni. “Non sappiamo come fare i compromessi.”

“Siamo pessimi in questo,” è stato d’accordo Ramy Essam, un musicista che si esibiva regolarmente prima delle dimostrazioni a Piazza Tahrir, guadagnandosi la fama di “cantante della rivoluzione.”

Non è successo così nel caso della Fratellanza Musulmana. Per i loro capi, trattare per un progresso istituzionale in un clima post rivoluzionario, è stato naturale. Con una struttura per un partito politico già a posto, e un blocco organizzato di elettori pronto per “l’uso” i Fratelli si sono fatti avanti. Mentre i giovani liberali in generale erano favorevoli a lasciare del tempo per la stesura di una costituzione e per la formazione di nuovi partiti, i Fratelli spingevano per nuove elezioni.

Abdul- Fatah Madi, un analista egiziano che scrive su Al Jazeera, ha spiegato che prima della sconfitta di Mubarak le fazioni guidate da giovani “si preoccupavano di acquisire conoscenze sul modo di far cadere i regimi tiranni e anche di diffondere informazioni sulle violazioni dei diritti umani.” Ma quando è iniziata la transizione del dopo rivoluzione, non sono riusciti “a prendere dimestichezza con le tortuosità della costruzione dello stato   e dei progetti politici che sarebbero serviti come alternativa al regime autoritario.” Madi sosteneva che i giovani mostravano un’avversione a contrattare su richieste di parte di vecchia data,  un disinteresse che nasceva “dal non voler partecipare al processo decisionale che era dominato da vecchi partiti e da un’elite di lunga  data.”

In assenza di una sfida strutturata da parte dei rivoluzionari laici, la Fratellanza Musulmana ha fatto cadere qualsiasi pretesa di una coalizione di movimenti. Sei mesi dopo la rivoluzione, ha ordinato ai suoi membri di uscire a fare dimostrazioni di massa. Le folle disciplinate scandivano: “Governo islamico, governo islamico,” e “Il Corano è la nostra costituzione.”

I giovani, i campioni dello slancio, erano stati sconfitti con una manovra.

Cominciare da capo una nuova rivoluzione’

Mentre la situazione difficile dell’Egitto ha alcune caratteristiche peculiari, non è unica tra le recenti insurrezioni che hanno destituito governi non democratici. Queste comprendono le “rivoluzioni colorate” nell’ex blocco sovietico e i movimenti che hanno costretto Slobodan Miloševic a lasciare il potere in Serbia nel 2000. Come in Egitto, i giovani hanno avuto un ruolo fondamentale nel guidare manifestazioni che  sono rapidamente cresciute. Ma in tutti questi casi i giovani erano impreparati per eventi futuri. Matthew Collin, autore di “The Time of Rebels” (Il tempo dei ribelli), che è uno studio di queste insurrezioni, scrive che “sembrava non esserci un piano per quello, seppure ci fosse, che  questi movimenti giovanili potevano ottenere dopo le loro rivoluzioni.”

I capi di alcuni gruppi sono entrati in agenzie governative, alcuni hanno tentato di diventare partiti politici, e altri hanno cercato di rimanere integri e fare da gruppi di sorveglianza. Ma dato che è impossibile mantenere livelli alti di mobilitazione di massa per sempre, spiegava Collin, “In tutti i casi la maggior parte degli attivisti  membri di un gruppo, si sono semplicemente allontanati. Potevano aiutare a cambiare i loro paesi, ma hanno trovato più difficile assicurare che i politici che sono andati dopo al governo rimanessero fedeli ai principi che avevano accettato al momento della rivoluzione.”

I tentativi spinti dallo slancio,  hanno ottenuto dei cambiamenti durevoli – come l’istituzione di elezioni regolari in Serbia – ma le elite più vecchie sono state in grado di usare la loro forza istituzionale, per avanzare di nuovo  all’interno delle mura del potere.

Idealmente, quando l’organizzazione  basata sulle strutture e i movimenti spinti dall’impulso si sono allineati, i due modelli possono fare da complemento reciproco. Gruppi stabiliti che condividono gli obiettivi dell’insurrezione di massa, possono trarre vantaggio da un’esplosione di maggiore energia e interesse in una causa condivisa.  A loro volta, le organizzazioni più consolidate possono offrire il loro prestigio e risorse a “scoppi” di resistenza quando si manifestano. E’ successo in Egitto quando la Fratellanza Musulmana ha deciso di appoggiare la rivolta di Tahrir, portando i microfoni nella piazza, facendo partecipare i suoi affiliati,     organizzando la raccolta della spazzatura, e quando si è unita all’iniziativa di una coalizione di governo. Ma quando i due gruppi si sono divisi, quando i rivoluzionari laici sono stati in disaccordo con gli Islamisti, l’esercito è stato il principale beneficiario.

Le forze armate che si sono rifiutate di intensificare le repressioni per conto di Mubarak, per annientare l’insurrezione del gennaio 2011, venivano percepiti come eroi dopo la rivoluzione. L’esercito è  quindi emerso come la forza  che avrebbe  controllato il vecchio regie e sarebbe stato in competizione per il dominio, con la Fratellanza Musulmana. Nell’anno e mezzo seguente, quando il consiglio Supremo delle forze armate ha tentato di prendere il potere, nuove proteste – che usavano lo slogan “Da capo una nuova rivoluzione” – li hanno costretti a cedere a un governo civile. Questo ha permesso a Mohamed Morsi, della Fratellanza Musulmana, di assumere la carica come primo presidente democraticamente eletto del paese nell’estate del 2012.

Tuttavia, durante il suo anno in carica Morsi si è garantito anche poteri sempre più costosi, spingendo a un contraccolpo pubblico. Avendo già detronizzato Mubarak e il Consiglio Supremo, gli egiziani sono scesi nelle strade per dimostrare contro un terzo potere dominante.  Gli artisti di graffiti hanno cambiato i loro stampini: coloro che una volta segnavano delle X rosse sulle immagini di Mubarak dipinte  con la vernice a spruzzo, hanno iniziato a usare invece i ritagli delle foto di Morsi.

Nell’estate del 2013, tra proteste anche più grandi di quelle che hanno dato il via alla rivoluzione, i militari sono intervenuti e hanno costretto la Fratellanza Musulmana  a lasciare il potere. All’inizio i liberali esitavano a chiamarlo colpo di stato militare, ma le speranze per un tipo di governo più aperto e pluralista sono state ancora una volta mandate all’aria. Nei mesi successivi, l’esercito ha intensificato la repressione, prendendo seri provvedimenti sia riguardo agli oppositori islamisti che a quelli laici. Nel terzo anniversario della rivoluzione, quando Amnesty International avvertiva che “le autorità usavano ogni risorsa…per reprimere il dissenso,” la situazione appariva davvero cupa.

‘La più grande vittoria della rivoluzione’

Dovremmo concludere dal punto di vista odierno che la nonviolenza è fallita in Egitto?

Le sfide di istituire un ordine sociale più libero e giusto dopo una rivoluzione, non sono certo uniche nei movimenti nonviolenti. Influenzano tutti i cambiamenti turbolenti del potere statale. Alcuni studi (in particolare: “Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict”, http://belfercenter.ksg.harvard.edu/publication/18407/why_civil_resistance_works.html , NdT) hanno trovato che, nei vari decenni passati, quando un regime è stato rovesciato era di gran lunga più probabile che gli stati sorti dopo dopo la transizione diventassero democratici quando la transizione era guidata da  coalizioni che usavano tattiche di resistenza civile non armata – scioperi, boicottaggi di massa e dimostrazioni di vasta portata. Nel caso di un’insurrezione tipo guerriglia, contro uno stato non democratico, le possibilità di un governo aperto e partecipativo sono molto più scarse. In questo caso, i rivoluzionari devono ancora riempire il vuoto lasciato dal vecchio regime. Ma dal momento che le forze armate che hanno istigato il rovesciamento di regime sono di solito l’istituzione meglio organizzata dell’opposizione, le sue strutture gerarchiche sono idonee a subentrare. Il risultato, come in molti stati africani post-coloniali è spesso un nuovo governo militare.

Sin dalla cacciata di Morsi, i gruppi militanti islamisti hanno fatto sparatorie e altri attacchi contro le forze di sicurezza governative –tra questi, due grossi bombardamenti contro il quartiere generale della polizia al Cairo. Sebbene la Fratellanza Musulmana abbia rilasciato dichiarazioni di condanna degli attacchi, l’esercito ha usato la violenza come occasione di un brutale giro di vite nei riguardi dei dissidenti. In dicembre ha dichiarato la Fratellanza Musulmana una “organizzazione terrorista”, ha dichiarato fuori legge ogni partecipazione alle sue manifestazioni, e ha congelato i beni di almeno 1.055 organizzazioni benefiche affiliate. Sfortunatamente, il pretesto di una “guerra al terrore” ha permesso all’esercito di mantenere un notevole appoggio popolare.

Alcuni di coloro che sono scesi nelle strade il 25 gennaio 2011, forse si opponevano moralmente alla violenza. Ma, nel complesso, il popolo egiziano ha optato per dimostrazioni di massa senza armi rispetto a partecipare a una lotta di guerriglia, per una semplice ragione: credevano che la nonviolenza strategica fosse il mezzo più pratico ed efficace per cacciare il regime pesantemente militarizzato di Mubarak e per ottenere una società più libera e partecipativa. Le conseguenze degli attacchi degli insorti negli scorsi 6 mesi, che non sono certo serviti a indebolire la posizione dell’esercito, indicano che il giudizio tattico dei rivoluzionari no violenti ha prodotto una notevole saggezza.

Malgrado le attuali difficoltà, la strategia della mobilitazione non armata contiene anche speranze per il futuro. Considerati gli sviluppi dei tre anni passati, si potrebbe pensare che la rivoluzione sia stata screditata in Egitto, che l’insurrezione di Piazza Tahrir poteva essere denigrata o dimenticata nell’immaginazione popolare. Non è questo il caso. Invece la rivoluzione rappresenta una pietra di paragone culturale onorata. Invece di attaccarla, ognuno dei gruppi che rivaleggiano per il potere nel paese, cercano di attribuirsi il merito di aver cacciato Mubarak e si presentano come la forza che sta portando avanti il vero spirito della rivoluzione. Questo è vero per quanto riguarda l’esercito che, come scrive un giornalista “ha avvolto la sua presa di potere non soltanto nella bandiera, ma anche nella prima insurrezione del 2011.”Quando mettono in prigione i rivoluzionari laici o dei membri della Fratellanza Musulmana, le forze armate li dipingono come traditori della causa popolare. Le misure di emergenza della polizia di stato per combattere il terrorismo, sostengono i generali, sono l’unico modo di conservare quella che chiamano la rivoluzione “gloriosa”.

Coloro che in Egitto hanno guidato le mobilitazioni di massa devono ancora risolvere il problema della istituzionalizzazione. Ci vorrà del tempo per sviluppare delle strutture che possano assorbire i vantaggi ottenuti con azioni di disturbo. Gli organizzatori dei giovani ora riconoscono questo: nel 2012 i capi del movimento giovanile 6 Aprile hanno promesso di iniziare un piano di cinque anni per sviluppare istituzioni alternative. Nello stesso tempo, riconoscono anche che  la loro insurrezione ha scatenato uno spirito di auto determinazione condivisa che non può essere facilmente soppressa.

“L’arma della nostra rivoluzione è la nostra voce,” ha spiegato l’attivista Ahmed Hassan ai registi del film La piazza. “Se mi chiedete, ‘Quale è la più grande vittoria della rivoluzione?’ vi dico che è che oggi i bambini fanno un gioco che si chiama ‘Protesta’, dove alcuni fanno la parte dei  rivoluzionari e altri quella della polizia o dell’esercito o dei Fratelli Musulmani.”

Da parte sua, il co-fondatore del 6 Aprile, Ahmed Salah, vive ora in esilio e  sta affrontando il trauma della repressione. “Penso che sia il periodo peggiore,” ha detto. “La maggior parte delle persone tramite l’indottrinamento   arrivano a pensare che l’unico modo di salvare l’Egitto sia mediante il governo militare.”

E tuttavia racconta che il suo pessimismo viene bilanciato da un altro impulso. “Ho anche fiducia,” ha detto Salah.”Ogni gruppo che è stato in una posizione eminente nel paese, ha tentato di mantenere il potere. Tuttavia noi egiziani siamo stati capaci di abbattere tre regimi: quello di Mubarak, il Consiglio Supremo e la Fratellanza Musulmana .”

Ha concluso: “Quello che abbiamo fatto prima, possiamo farlo di nuovo.”

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/did-nonviolence-fail-in-egypt-by-mark-engler

Originale : http://wagingnonviolence.org/feature/nonviolence-fail-egypt/

Traduzione di Maria Chiara Starace

Revisione a cura del Centro Sereno Regis

23 febbraio 2014

http://znetitaly.altervista.org/art/14371

1 commento
  1. Giancarla Ceppi
    Giancarla Ceppi dice:

    Molto interessante questa analisi . Mi ha colpito soprattutto l'osservazione che se la rivoluzione è stata condotta in forma di guerriglia è quasi impossibile che si affermi un governo democratico ,non così se la rivoluzione è stata condotta con metodi non violenti come boicottaggi di massa , scioperi etc.

    Rispondi

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