Diventiamo tutti/e «fixer» (riparatori/trici)?

Fra i molti motivi per cui non ho, non voglio avere, non uso (e cerco di non usare nemmeno quello degli altri, per esempio non chiamandoli) il telefono cellulare c’è la notizia* che

«Nel 2010 abbiamo buttato via 2 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti tech, e solo il 27% è stato “riciclato” spedendolo oltremare, in paesi del Terzo mondo con leggi meno severe (o inesistenti) sulle scorie tossiche. È il risultato di una progettazione che ha programmato l’obsolescenza già nel design e fornito prodotti destinati a rompersi dopo pochi anni».

Ma oltre a questa brutta notizia l’articolo citato ne riporta anche una bella:

«Jane Ní Dhulchaointigh […] era così stufa di dover comprare aggeggi nuovi in continuazione che a un certo punto ha inventato un “prodotto” per riportare in auge l’idea di riparare ciò che abbiamo. E così, mentre studiava per il suo master in product design, a Londra, ha creato una pasta di silicone e polvere di legno riciclata da una falegnameria».

Il prodotto è stato chiamato «space age rubber» (nome commerciale Sugru) ed è stato inserito fra le invenzioni del secolo. Oggi la giovane Jane è a capo di un’azienda che

«ha due sedi, in Inghilterra e negli Usa, una schiera d’impiegati e 140mila clienti di 119 Paesi, tutti acquirenti di questa sorta di plastilina soffice e malleabile, in grado di indurirsi in poche ore e diventare più resistente e impermeabile del silicone. Quindi adatta a ogni tipo di riparazione (dalle tavole da surf alle macchine fotografiche, ai componenti per computer), tantopiù che c’è un website per condividere i modi di utilizzarla. Motto? “The future needs fixing”, molto liberamente, “non andremo da nessuna parte se non impariamo ad aggiustare”. […]

Ricordo liti furibonde fra i miei genitori: mia madre che avrebbe voluto cambiare la lavatrice («Ha 25 anni!», e mio padre che chiedeva «Perché dovremmo cambiarla se funziona ancora?». Capisco il fascino del nuovo, del tuttobellopulito, capisco la sensazione che se è nuovo funzionerà meglio, ma è falsa! Oggi sappiamo che conviene comprare cose usate anche perché se sono state costruite molti anni fa sono sfuggite all’obsolescenza programmata! Infatti più avanti nell’articolo leggiamo che:

«Spesso i fixer sono gli ingegneri “pentiti” del boom elettronico, stanchi di contribuire alla progettazione di hardware cosiddetti “anoressici”, e cioè con le loro parti incollate insieme e dunque impossibili da smontare e riparare. […] Quella dei fixer, “tribù” d’ingegneri, smanettoni e filosofi, potrebbe essere l’idea rivoluzionaria del terzo millennio».

Poi certo c’è anche da dire che mio padre aggiustava qualunque cosa. Diceva che se qualcuno l’aveva montato (un oggetto, un frullatore, una lampada, un mobile, persino il motore delle automobili) si poteva smontare, aggiustare e rimontare. Ed era così! L’ho visto riparare ogni cosa che si rompesse in casa e/o andare in cerca – e trovarlo – del pezzo di ricambio. Ma oggi? Si producono oggetti che appositamente non si possano riparare così dobbiamo comprarne di nuovi, e così le persone hanno disimparato ad aggiustare, anche perché spesso costa meno comprare l’oggetto nuovo (solo monetariamente costa di meno, perché se pensiamo che ogni oggetto diventa un rifiuto il costo non è più così basso come sembra…).

Comunque, pare che l’«aggiustare» (il «fixing», come recita il motto dei «fixer») sia diventato una tendenza, qualcosa che rende interessante e da imitare chiunque lo faccia.

«Per partecipare al movimento, basta farsi le ossa riparando qualcosa di semplice, per esempio un aspirapolvere, utilizzando Youtube, zeppa di “How To Do It” caricati dagli stessi utenti: si tratta di video che mostrano il come-si-fa, passaggio per passaggio, meglio degli obsoleti e incomprensibili libretti d’istruzioni».

L’articolo prosegue con la speranza di un’adepta del movimento, che mi ha commosso:

«Un giorno tirerò fuori dallo sgabuzzino l’iMac turchese di mia madre e mostrerò ai miei figli che un oggetto così cool non è spazzatura, riparandolo sotto i loro occhi. Faranno a gara per chi ci farà i compiti, lo mostreranno con orgoglio agli amici».
Ma ecco che se vogliamo aderire all’appello contenuto nel titolo di questa «Pillola», dobbiamo conoscere il «manifesto programmatico» del movimento, che ricorda un po’ la filosofia della semplicità volontaria, non vi pare?


«Il manifesto dei “riparatori”
Eccolo, fornito dagli imprenditori di Sugru.
– Ripara tutto ciò che si rompe: è la più bella forma di creatività.
– Migliora ciò che funziona ancora. Una piccola, intelligente “aggiunta” ne arricchisce l’uso a venire.
– Assicura ai tuoi prodotti una lunga vita. Se raddoppi la durata, dimezzi la quantità che va in discarica.
– I fixer non si preoccupano dei segni del tempo. Nulla resta nuovo, quindi dimentichiamo la perfezione.
– Resisti alle mode e agli
upgrade inutili: incrementano la cultura dell’usa-e-getta.
– Ricordati che ogni volta che spendi del denaro, voti per il successo di un prodotto. Compra solo ciò che può essere riparato.
– Ogni cosa riparata ha una storia da raccontare.
– La gente è infinitamente diversa. Così dovrebbero esserlo i prodotti.
– L’usa-e-getta è una scelta, non una caratteristica dei prodotti: impara a usarli più a lungo .
– La plastica in sé non è cattiva, lo diventa quando la usiamo male. Trattala con rispetto.
– Se hai scoperto la gioia del
fixing, contagia altre persone. È un dono che dura una vita».

 

*Fonte: «la Repubblica», articolo di Gloria Mattioni: Felici di aggiustare. Un’altra vita per i «rifiuti» elettronici. Così insegnano i fixer, nuovi guru ecotech

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