Elogio dell’obiezione di coscienza. Scritti e conversazioni

Enrico Peyretti

Pietro Polito, Elogio dell’obiezione di coscienza. Scritti e conversazioni, Biblion edizioni, Milano 2013, pp. 178, € 12,00

Ho potuto ascoltare solo una parte (a causa di un serio inconveniente poi superato) della presentazione di questo libro, il 16 novembre, nella nuova sala Gabriella Poli nel Centro Studi Sereno Regis, da parte di Marco Revelli e Paolo Mirabella. Tema: l’obiezione al militare, le altre obiezioni, la coscienza.

Nel bel libro di Polito amo evidenziare il tema della coscienza su quello dell’obiezione. Il primato della coscienza sulla legge, antico come l’evoluzione più alta dell’umanità, va dalla «legge non scritta» (Antigone), oppure scritta nei cuori (profezia biblica ed evangelica), alle affermazioni dell’Umanesimo, della Riforma, del liberalismo sociale, di ogni pensiero critico, del Concilio Vaticano II, di papa Francesco, e di un cammino aperto.

Che cosa è la coscienza? Teorie antiche, decostruzioni contemporanee: la voce di Dio, il dovere categorico della ragione, il super-io sociale, un dato rilevato dalle neuroscienze, l’angelo custode che imparammo da bambini?

Mi è sovvenuto il socratico «Conosci te stesso»: sii soggetto e anche oggetto del tuo conoscere; co-scienza, un sapere che è anche sapere di sé, una luce gettata non soltanto sulla realtà esterna, ma su di me che vedo e agisco. Come vedo? Come e a qual fine agisco? La domanda implica una stimolante alterità, che scopro in me, un necessario sapere di me, prima di (e anche per) sapere del mondo. Chi sono io che cerco di sapere, di giudicare e di toccare la realtà? Sono soltanto il soggetto o anche l’oggetto della mia necessità di sapere?

E questa alterità in me che cosa è? È un dio? Un daimon, lo spirito mio proprio, che in ogni individuo è unico e irripetibile, e ineludibile, a pena di tradirsi? È comunque un appello che impegna me, senza che io debba giudicare la risposta degli altri? È forse l’altro umano che ho di fronte e che trovo anche in me, il quale – dal mio interno e non solo dall’esterno – mi chiama e mi attira a ciò che è giusto e mi distoglie dal fare ingiustizia?

«Non sopportare la sofferenza altrui» è un principio dell’etica confuciana che esprime il sentimento dell’umanità in ciascuno: la sofferenza altrui è anche mia inseparabile sofferenza (cfr. Pier Cesare Bori e Saverio Marchignoli, Per un percorso etico tra culture, Carocci 2003, pp. 58-60 con l’apologo di Mencio sulla prova dell’essere umano). Infatti, non sono solo. Altri sono in me, come richiamo al mio essere umano.

Un richiamo molto forte: «Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del fanciullo che Cristo stesso non ha saputo trattenere: “Perché mi viene fatto del male?”, lì vi è certamente ingiustizia». Quel grido è infallibile. Lì c’è certamente la verità. E questo perché «c’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male, È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano» (Simone Weil, La Persona e il sacro, 1942-1943). Se ascolto nell’altro questo appello veramente sacro, difendo e faccio vivere il sacro in me. Il contrario avviene, se non ascolto. Nessun appello mi è così intimo, costitutivo, condizione di vita.

Quel precetto centrale – che non è unicamente evangelico, perché l’universale “regola d’oro” implica la parità di valore tra me e l’altro – «Ama il prossimo tuo come te stesso» viene anche letto, nell’originale ebraico, «…perché è te stesso». Le religioni, le sapienze spirituali, sono introspezione, ma sono altrettanto relazione con l’essere altrui, universale: «religentes esse oportet» (Aulo Gellio).

Anche nella società politica pluralistica vale il principio «Ci sono anche gli altri», che Aldo Moro ricordava a certuni dei suoi che avevano programmi della sola sua parte.

Polito, nello spiegare il suo libro, ha sottolineato l’individuo. Intendo chiaramente che non si tratta del singolo separato, atomizzato in una società disgregata: questo significato è ben criticabile. La sottolineatura dell’individuo fatta da Polito reagisce al rischio di identificazione e riduzione della persona a parte eteronoma di un organismo, senza una propria autonomia. Significa l’unicità irripetibile di ognuno (ogni-uno), che è principio della libertà, uguale in tutti: perciò non è libertà contro giustizia, ma libertà per essere giusti. Unicità e comunione sono la nostra umanità.

Possiamo intendere: sii te stesso, non sei riducibile a «uniforme», a numero in un corpo compatto, dunque non essere conforme (che è pure il principale appello morale di san Paolo: «non conformatevi al mondo presente», Romani 12,2), ma rispondi a te stesso, in profondità, e così risponderai anche all’altro che è in te, e all’altro vero tu che è in lui, nell’uomo davanti a te.

Quindi: né riduzione organicistica; né scissione atomistica di monadi chiuse. Mi pare feconda la concezione della persona unica e comunitaria (Emmanuel Mounier), costituita in relazioni, una via verso un’etica universale (Küng, Bori), sebbene plurale (Panikkar). Così pure la visione dell’«uomo inedito» (Bloch, Balducci, e anche Capitini in altri termini): al di là dell’uomo finora edito, si tratta di diventare un tale uomo libero e solidale, aperto ad ogni altra forma civile di umanità, nella cooperazione e non nella competizione e rivalità escludenti.

L’obiettore di coscienza testimonia che si deve «obbedire a Dio più che agli uomini», alla legge interiore più che alle autorità esterne, come affermano Pietro e gli apostoli davanti al Sinedrio (Atti 5,29, e anche 4,19), proprio come Socrate davanti al tribunale (Apologia 29-d). L’obiettore testimonia, col prezzo che paga, questa insorgenza del più profondo umano. Può pure produrre argomentazioni per la sua scelta, ma non può attendere il consenso generale: l’appello di coscienza è una direzione, non una conclusione né un contratto. Non è dissociazione, ma libera proposizione di fedeltà all’umano di tutti. Non obbliga e non giudica, ma non tace e non elude.

Nell’obiezione (un «gettarsi contro») la coscienza non nasce (era già viva, pur se assopita nella situazione tranquilla) ma si risveglia e si solleva di fronte all’inaccettabile. Il negativo è un appello al positivo che giace in noi. È una presenza del bene quella che giudica che il male è male: altrimenti sarebbe «normale». È una luce, per tenue che sia, nella coscienza: una luce che «illumina ogni uomo» (vangelo di Giovanni 1,9, versetto-guida per i quaccheri). La coscienza distoglie dal male, senza dare direttive precise (così già in Socrate) perché conosce l’orizzonte del bene, anche se non detta le singole vie. «È lo scandalo della violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; è la certezza che questo male non deve essere che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini è l’atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio di nonviolenza» (Jean-Marie Müller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press, 2004, p. 22). Così il pensiero-coscienza di giustizia e pace si mette in movimento, e ha davanti a sé un gran lavoro di ricerca e di azione.

Nel suo libro, Pietro Polito, dopo la testimonianza personale, offre un chiaro saggio-elogio sulla obiezione delle coscienze, nella storia repubblicana italiana, alle armi e alle responsabilità connesse, come ad altre forme dell’uccidere o del mettere in pericolo le vite. A questa parte segue una raccolta di saggi su singole rilevanti figure, da Capitini ad Ada Gobetti, a Bobbio, Sereno Regis, Danilo Dolci, Lorenzo Milani, e poi ancora una serie di interviste di Bobbio, Rodolfo Venditti, Goffredo Fofi, Pietro Pinna. Oggi che il professionismo militare vorrebbe frustrare l’obiezione delle coscienze alle armi, questo materiale di informazione e riflessione è prezioso per tenere desti gli animi contro le gravi folli spese in armamenti, contro l’idea della guerra umanitaria e protettiva, contro la frustrazione del «ripudio della guerra», contro un’economia distruttiva dell’ambiente.

La cultura dell’obiezione, sempre necessaria, non è negativa: è un primo passo indispensabile verso la pace da stabilire nelle morali e nelle istituzioni, anche se poi si deve andare oltre: il pacifismo (per non morire, per non uccidere), il ripudio dei mezzi mortali, ha la sua maturazione nella nonviolenza attiva, cioè la gestione dei conflitti con la forza dei mezzi vitali e dei fini costruttivi.

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