El Colibrì. Nel vento incessante di Victor Jara

venerdì 10 gennaio 2014 – ore 21
sala Gabriella Poli – Centro Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino

A cura del “Gruppo Teatro Devadatta”. Ingresso libero

Vincenzo Mulè, tiple, quatro, quena, charango, voce solista
Alessandro Fassi, basso, voce
Giovanni Maiandi, chitarra, voce
Giovanni Ligios, chitarra, “sa trunfa”, voce solista
Roberto Sandrone, percussioni
Dario Cambiano, charango, armonica, voce solista e recitante
Mario Coppotelli, cajon, percussioni, voce solista e recitante
Loredana Arcidiacono, flauti, fisarmonica, voce solista e recitante

Testi di Cesàr Vallejo, Oscar Arnulfo Romero, Alfonsina Storni, Victor Jara.

Adattamento e regia: Mario Coppotelli

A Victòr, Mercedes, Violeta. Ad Oscar Arnulfo Romero.
1973 – 2013

Una delle cose che più colpiscono nella poetica di Victor Jara è la presenza del vento; il vento del popolo lavoratore (Vientos del pueblo), il vento che picchia la finestra di Maria (Abre la ventana), il vento che anima e fa volare il piccolo aquilone di Luchin. La terra del Cile, il sole che brilla sull’uomo che spinge l’aratro nella terra (El arado), e il vento.

Incessante. Come incessante è stato il vento dell’Ideale che ha animato questo piccolo uomo che è stato cantore, teatrante, regista di programmi televisivi e collaboratore della moglie danzatrice, muovendosi nell’alveo di un’espressione artistica globale, a larghissimo raggio.

Un Ideale che andava oltre la militanza comunista che gli era propria, militanza figlia di un tempo nel quale, ovunque ed in special modo nel Sud-America, chi era “contro” era “comunista”, nell’accezione più elevata del termine. Un sogno di Giustizia, di condivisione.

Una testimonianza accesa della possibilità e dell’urgenza di un Uomo nuovo, della necessità di uno slancio in verticale che andasse oltre la vita e la visione della realtà di ognuno.

Uno sforzo “religioso”. Una adesione creativa, libera e innamorata alla spinta dello Spirito senza nome e indefinibile. Una Utopia.

Come sempre, nella tensione insopportabile dell’Utopia lo sforzo dell’Uomo è destinato alla sconfitta, così anche Victor Jara ha “perso”. Come ogni suo e nostro compagno di viaggio nei dintorni dell’Utopia.

Perché di fronte alla inevitabilità della morte, al “fascismo” e “totalitarismo”che riappare a cicli, di fronte ad uno dei tanti “tsunami” ricorrenti sembra non esserci costruzione sociale e ideale che tenga, non amicizia, slancio, lotta, non c’è arte che resista.

Niente sembra esistere oltre questo limitare.

A molti giovani di quel tempo è capitato di immaginare se stessi reclusi con Victor e i cinquemila nello stadio di Santiago, dopo il bombardamento della Moneda e il discorso di addio alla radio del presidente Allende, in quel presente che parlava della fine reale di tutto il progetto di Unidad Popular, in mezzo a voci brutali e ordini secchi, di fronte ai fucili, alla violenza, alla paura, quella vera. Di fronte alle macerie violente dell’Uomo dove solo un genere di uomo è padrone.

Nel momento di maggior assenza dell’Ideale, di quella spinta verticale di cui parlavamo, nel centro della fine di tutto, della “morte di Dio” e della solitudine dell’Uomo di fronte a se stesso e alla ridicola inutilità della vita che ha vissuto. Quanta angoscia!

Che tentazione! Quale analogia con l’agonia del Cristo in croce!

Ecco. E’ lì che si muore, prima della morte o della sopravvivenza fisica.

Nel fissare lo sguardo sulla realtà nella quale si è immersi, e nel lasciarsi andare al gorgo sentendosi un relitto inutile che non può esistere da nessun altra parte. Nel gorgo perché ci si riconosce “del” gorgo.

Ed è lì che si vive, prima della morte fisica o della sopravvivenza, se si riesce ad “alzare” lo sguardo oltre il proprio destino personale, nell’ apparente totale perdita del “senso” della propria esistenza.

Lo sguardo di Victor Jara –ci raccontano– si è alzato a guardare la tragedia degli uomini e delle donne rinchiuse nello stadio con lui, prigionieri annichiliti e tremanti come probabilmente anche lui era.

Così, con gesti a lui familiari, ha scritto una poesia che ha consegnato a qualcuno, e – dicono – ha cominciato a cantare.

Per coloro che aveva intorno? Per sé? Per i suoi carcerieri?

Dicono che altri, nei pressi, abbiano preso a cantare con lui, e che questo abbia fatto infuriare i soldati i quali, riconosciutolo, lo hanno riempito di colpi, torturato, umiliato e infine ucciso.

Un corpo spezzato, contorto, sanguinante, così lo ha descritto la moglie quando ha potuto riconoscerlo, giorni dopo. Un Cristo deposto.

Spezzato, contorto. Sanguinante.

Un uomo che si è alzato di fronte alla furia e ha guardato la miseria che aveva accanto e di fronte. Una voce che si è alzata e ha cantato, e si è levata oltre lo stadio, oltre la furia del tempo, fino a noi.

Come un uccello, leggero; come un colibrì.

Il colibrì che si alza in volo e cerca il suo vento , quel vento incessante che c’è già e non ancora. E’ lì, se vogliamo sentirlo. E’ in quel vento che canta.

Sospeso, tra le correnti, vibra, commuove, si riconosce.

E poi si allontana.

 

Mario COPPOTELLI

 

Canto que mal me sales

cuando tengo que cantar espanto!

Espanto como el que vivo

como el que muero, espanto,

de verme entre tanto y tantos

momentos del infinito

en que el silencio y el grito

son las metas de este canto.

Lo que veo nunca vi.

Lo que he sentido y lo que siento

hará brotar el momento…

 

Estadio Chile (12 o 13 settembre 1973)

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