Al punto di arrivo comune – Recensione di Cinzia Picchioni

Al_punto_di_arri_50925ab3d3a06_220x335Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 82, € 12,00

Contro l’indifferenza, la nonviolenza (p. 11)

Intanto vorrei complimentarmi per la copertina, in particolare per il cartoncino, piacevolissimo da toccare; ma anche il disegno è azzeccato, con l’odiosa «etichetta» punzonata sull’orecchio della povera mucca – anzi sagoma di una mucca, non a caso spersonalizzata: non se ne vedono gli occhi, né il colore, è nera, come una silhouette e basta…

Si parla infatti della «filosofia del mattatoio», anzi si critica quella filosofia, con pagine e pagine di riflessioni sul concetto di specie, sull’antispecismo, sul vegetarianesimo come pratica nonviolenta, sulla compresenza di Capitiniana memoria, su una proposta etica «di un modo alternativo […] di pensare l’uomo nelle relazioni con gli altri esseri viventi (sentite tutta la nostra difficoltà linguistica? Gli “altri” esseri viventi: ci siamo prima noi, poi “gli altri”…) e più in generale all’interno del cosmo. Per una simile proposta etica, pensando ad Aldo Capitini, proporrei il termine di compresenza senziente di tutti» (dalla «Prefazione» di Giuseppe Moscati (pp. 9-10).

Johan Galtung, Aldo Capitini, Gandhi, Buddha, Adorno e altri amici

«[…] uomo, altri animali, vegetali, pietre sono accomunati da un unico afflato, da un identico destino, dallo stesso bisogno di dare e ricevere amore. Siamo parte di un molteplice, variegato tutto che, di volta in volta, si annuncia come essere umano, cane, gatto, pesce, bue, cavallo, maiale, rondine, pipistrello, bruco, farfalla, ape, ragno, lombrico, lucertola, foglia, fiore, acqua, vento, fuoco e così via fino alla più minuscola e invisibile entità. Al di là dell’aspetto che assumiamo, siamo tutti, presenti e/o assenti, compresenti» (p. 14);

nell’«Introduzione», troviamo questa riflessione, stimolata dagli scritti di Capitini e dalla sua scelta di diventare vegetariano, che «nasce dalla volontà di rappresentare una ferma antitesi al fascismo» (p. 16). Capitini è citato anche altrove, con i suoi «Scritti sulla nonviolenza»: «Confesso che io diventai vegetariano proprio sotto il regime della violenza fascista che preparava la guerra, perché pensavo che se si imparava a risparmiare l’uccisione di animali, con maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini».

Non è male come tema di meditazione no? Vegetariano/antifascista; vegetariano/nonviolento; o anche nonviolento (e quindi) vegetariano… E che dire di chi assimila i mattatoi ai campi di concentramento?: «Adorno equiparò giustamente i luoghi di sterminio specisti ai campi di concentramento dove i nazisti procedevano all’annientamento di ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova […] “Non vi sarà giustizia fin quando l’uomo reggerà un coltello o una pistola e li userà per distruggere coloro che sono più deboli di lui”» (p. 48). E sempre a proposito di «olocausti»:

[…] esistono autori italiani che già nella prima metà del secolo scorso avevano posto l’accento sull’olocausto degli animali non umani […] soprattutto Aldo Capitini [è uno degli] autori che non possono mancare nella biblioteca di un antispecista […] mi entusiasma che […] Capitini non sia solo uno dei padri del movimento nonviolento in Italia, ma anche un vegetariano convinto che fondò la Società Vegetariana Italiana. Così per lui c’è un continuum che unisce la violenza verso gli animali umani e quella verso gli animali non umani; una visione […] veramente olistica che mette sulla stessa barca e unisce nella stessa sorte i più deboli, i più sfruttati della terra, indipendentemente dalla specie di appartenenza. La guerra e in generale la violenza verso i nostri simili sono la conseguenza perfetta della violenza perpetrata verso tutte le altre specie» (p. 73)

Il Buddha ha mostrato l’origine del dolore, sottolineando che tutti gli esseri cercano la felicità e rifuggono il dolore, e ha indicato anche la via per ottenere questo: «una forza non forza oltre la forza» (in A. Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia), e ha insegnato l’astensione dal nuocere agli altri esseri, tutti gli esseri, nessuno escluso. «Come per il buddhismo, anche in Capitini la compassione per e fra tutti gli esseri senzienti non è solo un sentimento o una predisposizione, ma la condizione che rende possibile […] qui ed ora […] una realtà affrancata dal dolore. La compresenza ne è la più alta traduzione sociale» (p. 34).

Eterotopie???

Questo è il nome della Collana editoriale in cui è inserito il testo che recensiamo. Vuol dire, o meglio, si riferisce al termine caro a Michel Foucault per «quei luoghi che, diversamente dalle utopie, “hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi […]”» (p. 45).

Carnologofallocentrismo???

La colpa (il merito?) è del filosofo Jacques Derrida, che coniò questo lungo neologismo: potere della carne, della parola (logos, mente, razionalità), del fallo (inteso come pene e/o come errore?). L’ennesimo «ismo» da cui rifuggire, o almeno così a me par di capire, ma ecco qui sotto una spiegazione un po’ più sicura:

«Non a caso Capitini all’Uno-Tutto sostituì l’Uno-Tutti […] perché, rompendo con l’antropocentrismo (aristotelico-tomista-cartesiano), con quello che anni più tardi, con efficace neologismo, Derrida avrebbe definito carnofallologocentrismo, anticipò la critica, […] ad una centralità che nascondeva in sé il germe del dominio, della prevaricazione di una specie sull’altra e di una specie al suo interno, della verticalizzazione accentratrice del potere».(da «Notizie Radicali»).

E ancora, a p. 37 troviamo che: «Occorre […] congedarsi definitivamente dal carnologofallocentrismo […] dall’idea di un centro, di un unico metro di misura, per lasciare (con)vivere le differenze senza alcuna graduazione […]. Bisogna incamminarsi capitianamente verso la compresenza […] nel segno della compassione. […] annunciare qui ed ora il superamento del confine discriminante tra la specie umana e le altre».

Non è un capitolo per sensibili

Il rimando è al meraviglioso film Non è un paese per vecchi (dei fratelli Coen, e prima romanzo di Cormac McCarthy), in cui c’è molta «violenza», e il clima che si respira non è, appunto, adatto a chi non è più giovane. Anche il capitolo di p. 61 (Farla finita con l’abominio, titolo azzeccatissimo e per nulla esagerato) non è adatto a persone impressionabili, ma bene ha fatto, secondo me, l’editore a inserirlo (e alla fine del libro, così come indica il titolo «Farla finita con l’abominio»), perché forse finché non vediamo non crediamo. Ecco allora che chi non ha ancora letto «Diritti animali, obblighi umani» e/o «Se niente importa» (per citare «solo» i due testi che mi hanno convinta alla scelta vegetariana – il primo, nel 1985 – e che mi hanno confermata nella decisione – il secondo, poco tempo fa), è il caso che diate una scorsa ai dati sulla sperimentazione animale, sulle condizioni di vita negli allevamenti (sì, anche quelli «a terra», una colossale balla per far credere al consumatore che le galline «vivano felici» perché non sono nelle gabbie), su Green Hill (Verde collina) che, nonostante il nome bucolico ospita un luogo di morte dove cani di razza beagle sono usati come cavie perché sono «forti» (leggi: ci mettono di pù a morire!), sulla grama vita degli «orsi della luna» e delle tecniche per estrarre la loro bile (con loro, gli orsi, vivi!!!). Insomma, delizie del genere è ora che si conoscano, perché almeno non si potrà più dire «Ma non lo sapevo!», e quando si decide di continuare a mangiare carne, bere latte, indossare pellicce, truccarsi, radersi, lavarsi, impomatarsi con i prodotti della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) lo si faccia a ragion veduta e sapendo di che cosa si è complici.

Se gli occhi sono lo specchio dell’anima…

«Gli uomini, dice Derrida, si possono, in sostanza, dividere in due categorie: coloro “che non hanno mai incontrato lo sguardo di un animale” […] e coloro che, come […] i poeti, ritengono che il pensare cominci proprio da quello sguardo» (p. 30). E qui, c’è una piccola nota che ci rammenta qualcosa che forse non sapevamo o non ricordavamo (noi che spesso leggiamo Galtung anche in questa stessa «newsletter»): «A proposito dello sguardo, è interessante notare quanto J. Galtung scrive in […] Buddhismo. Una via per la pace, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1994, 98: “Praticando il vegetarianesimo (…) si possono guardare gli animali negli occhi”». Si possono nel senso che si ha il coraggio di guardarli negli occhi? E quando leggo «si possono» intendo che posso guardare un animale negli occhi se non lo mangio? Se non l’ho fatto uccidere? Con l’espressione «si possono guardare gli animali negli occhi» voglio dire che non potrei guardare gli animali negli occhi se non fossi vegetariano? C’è la nostra non-vergogna nel guardare gli animali negli occhi (se non li mangiamo)?

Conclusione semplice

Quante volte sentiamo dire «Amo gli animali, anzi a volte sono meglio delle persone…» o anche «Il mio cane (gatto, canarino, coniglio, insomma: animale) è come uno di famiglia, gli manca solo la parola…». Bene. La prossiima volta che sentiamo qualcuno dire così, facciamo una cosa semplice, domandiamo: «Se ami gli animali, perché li mangi?».

E infine, dopo la lettura di questa recensione, portiamoci a casa una frase fondamentale, da recitare come un mantra: «[…] il pensiero della liberazione animale deve far uscire gli animali dallo stomaco degli umani per portarli alla loro coscienza» (e non vorrei sembrare «specista», ma questo fantastico pensiero è di una donna…

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