Tra etica e politica. Nuovi saggi su Gandhi

Nanni Salio

Eva Pföstl, a cura di, AA.VV., Tra etica e politica. Nuovi saggi su Gandhi, Editrice Apes, Roma 2013, pp. 223

Tra etica e politicaQuando mi sento dubbioso, sfiduciato e pessimista di fronte alla grande crisi sistemica globale che stiamo vivendo, mi chiedo che cosa avrebbe detto e fatto Gandhi. Leggendo, rileggendo e spulciando nella grande mole di documenti raccolti nei Collected Works, si intravede una sorta di continuità storica tra gli eventi vissuti da lui a suo tempo e molti di quelli odierni.

Come ricorda la curatrice Eva Pföstl nell’introduzione, questa nuova raccolta di saggi prende spunto dall’odierna crisi, in particolare dei sistemi democratici, per vedere quali insegnamenti possiamo ancora trarre dal pensiero gandhiano sul rapporto tra etica e politica, violenza e nonviolenza, pace e guerra, economia e nonviolenza.

Dopo un saggio di inquadramento storico della figura di Gandhi, a cura di Ugo Caruso, il rapporto tra etica e politica è affrontato da Giuliano Pontara il quale sostiene che “Gandhi aveva una concezione della politica essenzialmente come impegno etico, … un mezzo per realizzare il Programma costruttivo, da lui proposto come via verso il sarvodaya”, la società del “benessere i tutti” (pp. 64-65). Nel corso della sua intensa attività politica e sociale, Gandhi cercò di conciliare la sua visione etico-religiosa basta sull’ahimsa e il satyagraha con i limiti che spesso incontrò nell’applicazione pratica dell’agire politico, come egli stesso riconobbe: “Sono sempre venuto a compromessi con i miei ideali anche nella mia condotta individuale, non perché lo desiderassi ma perché il compromesso era inevitabile. Parimenti, nella sfera sociale e politica non ho mai insistito sulla piena realizzazione degli ideali nei quali ho creduto” (p. 66).

Tutta la sua vita è stata d’altronde una incessante “ricerca della verità” ispirata dalla consapevolezza dei limiti umani in tale impresa: un continuo esercizio pratico di “esperimenti con la verità”, come recita il titolo della sua autobiografia. Ma a differenza dei grandi maestri della spiritualità e della mistica indiana, che limitarono la loro ricerca all’indagine religiosa, Gandhi estese il campo al rapporto religione-politica, all’agire sociale per il cambiamento e per la costruzione di una società nonviolenta. Un compito immenso tutt’altro che concluso, che si presta a molteplici controversie e critiche. D’altronde egli sapeva di essere e di poter “essere contraddittorio” (p.88), prestando il fianco a critiche a volte molto dure, sia ai suoi tempi sia nell’interpretazione che oggi viene data da alcuni studiosi sul suo operato.

È il caso, ad esempio, dell’accusa di socialdarwinismo che Domenico Losurdo muove a Gandhi e che Pontara respinge rifacendosi alla complessa concezione della nonviolenza gandhiana, che mira a ridurre il più possibile la violenza nel mondo, pur sapendo che non sarà possibile eliminarla totalmente. Anche il sostegno che Gandhi diede alle politiche belliche dell’impero britannico, prima in Sudafrica e poi durante la prima guerra mondiale, è fonte di controversie che Pontara risolve evidenziando “la pluralità di obblighi morali cui Gandhi riteneva di essere soggetto: … obbligo di astensione dalla violenza armata…; obbligo di lealtà nei confronti dello Stato di cui si è cittadini….; obbligo di equità nel sostenere oneri e sacrifici comuni” (p. 82).

“Gandhi era, a suo modo, un ‘situazionista’ “ che “sceglieva mezzi, tecniche diverse di lotta satyagraha a seconda della situazione in cui si trovava” (p. 90). E ancor più lo era nel senso con cui Hannah Arendt parla della “banalità del male”. “Riteneva infatti che la malvagità, la brutalità, l’efferatezza dei comportamenti umani dipendesse in notevole misura dalle situazioni in cui le persone si trovano ad agire” (p. 91).

In altre parole, occorre attivare un ampio e continuativo processo di educazione alla pace, alla nonviolenza, al satyagraha, alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, a maggior ragione oggi di fronte alla grande crisi globale planetaria che rischia di travolgere l’intera umanità.

Il saggio successivo, di Neera Chandoke, docente di scienze politiche all’Università di Delhi, inizia con la presentazione di tre principali argomenti che Gandhi usa per rifiutare la violenza: normativo (inefficacia), epistemologico (verità, incertezza, ignoranza), ontologico (non dualità). Segue poi una importante contestualizzazione dell’opera di Gandhi. Troppo spesso si sente dire, assai superficialmente, che Gandhi ebbe buon gioco nel proporre la nonviolenza a un popolo che era spontaneamente nonviolento. Egli si trovò invece a contrastare l’azione di lotta violenta sostenuta da “Savarkar,… portavoce delle frange radicali di India House a Londra. “ (p. 99). Nel suo viaggio di ritorno da Londra in Sudafrica nel 1909, Gandhi scrisse di getto il famoso pamphlet Hind Swaraj, che contiene sia la critica alla lotta armata proposta da Savarkar, sia una dura accusa alla moderna società occidentale.

L’autrice discute quindi le tre tesi di rifiuto della violenza anche alla luce degli esiti delle lotte condotte in seguito da Che Guevara nel Sud America e della teoria della decolonizzazione sostenuta da Franz Fanon, mettendone in evidenza i risultati fallimentari.

Gli ultimi tre saggi, di altri autori indiani, analizzano rispettivamente il rapporto ricco, complesso e spesso conflittuale, tra Gandhi e Tagore, Nehru, Ambedkar. Ne emerge un quadro che consente di ampliare ulteriormente la biografia, il pensiero e l’opera di una complessa personalità come quella di Gandhi.


 

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