Ritirata dall’Afghanistan: occorre strisciare vergognosamente?

Robert Fisk

Intorno alle rovine
di quel rudere colossale, sconfinate e spoglie,
le sabbie piatte e solitarie si estendono nella distanza.

Come la Quinta di Beethoven e la Sinfonia 1812 di Tchaikovsky, la poesia Ozymandias di Shelley è, ahimè, un cliché solo a causa del suo abuso. Ma il suo sentimento – “Guardate, voi Potenti, alla mia opera e disperate!” – non è mai stato più applicabile alle terre che ancor oggi chiamiamo “Medio Oriente” e al suo tortuoso abbraccio da parte dell’”Occidente”. I britannici hanno lasciato Basra, gli Stati Uniti hanno abbandonato l’Iraq. Ora stiamo tutti preparando la ritirata dall’Afghanistan.

Il “ghigno del freddo comando” – sul volto a pezzi di Ozymandias, anche se tendiamo a  dimenticare quel verso della poesia – coglie così bene la visione mussulmana del nostro colonialismo e della sola potenza coloniale rimasta nella regione: Israele. Militarmente siamo già fuggiti, come i francesi fecero dall’Algeria nel 1962 e i britannici da Aden nel 1967, e la Forza Multinazionale da Beirut nel 1984. Immagino che dobbiamo anche ricordare i britannici dalla Palestina.

Ma mai prima gli Stati Uniti si sono uniti alla sottomissione europea. Prendiamo la politica di Obama, costruita sulle colossali rovine del Nuovo Secolo Americano di Bush. Barack Obama ha trattenuto la sua mano sull’Iran. Gliel’hanno morsa. Ha appoggiato Mubarak. Poi non ha appoggiato più Mubarak. Ha appoggiato il presidente egiziano della Fratellanza Mussulmana dopo che aveva vinto le elezioni. E lui – e il ripugnante Tony Blair – ora appoggiano l’esercito egiziano. Blair già è stato osceno abbastanza. L’Egitto è in pericolo di “scivolare nel caos totale”, ci ha detto, e dobbiamo aiutare il paese a “tornare [sic] alla democrazia” dopo la “situazione virtualmente unica” in cui “o l’esercito interviene o il paese collassa”.

Ma ora ascoltate William Burns, il sottosegretario di stato USA e presumibilmente il diplomatico più potente degli Stati Uniti – e dunque del mondo – al suo arrivo al Cairo la settimana scorsa. “Non sono venuto con soluzione statunitense, né sono venuto per tenere lezione a nessuno. Non cercheremo di imporre il nostro modello in Egitto”. Esattamente quale sia tale “modello” è rimasto un mistero per gli egiziani, ma l’inevitabile visita di Burns ai tizi in tuta mimetica che hanno inscenato il più recente colpo di stato suggerisce che, ancora una volta, Washington, nei posti caldi, ai democratici preferisce i generali.

Così ora arriviamo in Medio Oriente da supplici sorridenti, benedicendo qualsiasi “cambiamento popolare” (salvo che abbia luogo in Arabia Saudita, negli Emirati, in Oman o in qualsiasi altra autocrazia monarchica del Golfo). Sibiliamo contro quelli che ci umiliano – l’Iran e oggi il disobbediente regime feroce di Damasco – e naturalmente facciamo le fusa se sono gli israeliani a umiliarci. “Non ci schieriamo con nessuna personalità o partito specifico”, ha detto Burns agli egiziani – per inciso, fate attenzione a chiunque usi il termine ‘specifico’ – ma ciò è in realtà dovuto al fatto che gli Stati Uniti non hanno più la volontà di assumere una posizione morale nei confronti dei loro “amici nella regione”.

Salvo, ovviamente, che per la politica statunitense nei confronti di Israele che consiste in: lascia che gli israeliani ti calpestino, firma qualsiasi assegno militare in bianco preteso da te e scusati per aver detto la verità quando gli israeliani ne sono turbati.

La ritirata del potere occidentale dal Medio Oriente non è una cattiva cosa; ma deve essere attuata strisciando così tanto?

Prendiamo il nuovo decreto della UE, che condiziona ogni futuro accordo di cooperazione con Israele a una direttiva di non inclusione degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Detto molto francamente, i cittadini della UE sono nauseati a morte dalla colonizzazione israeliana,  strisciante e del tutto illegale, della terra araba nella West Bank, a Gerusalemme Est e nelle Alture del Golan, e intendono far sapere a Israele quanto sono arrabbiati.

Ma cosa dice a Israele l’Incaricato d’Affari della delegazioni UE per spiegare questa nuova norma? Sentite questa, dalla signora Sandra de Waele; parole che farebbero piangere Ozymandias: “Non si può negare che forse c’è un crescente senso di frustrazione in Europa, non tanto quanto al dialogo nel processo di pace, ma potrebbe essere più riguardo alla continua costruzione di insediamenti e forse ciò filtra in questo genere [sic] di posizioni politiche che sono state assunte.” Si noti il doppio negativo “non si può negare”, l’uso di “frustrazione” piuttosto che di “rabbia”, i tre “forse”, il “filtra” e il “genere di”, e anche l’uso di “posizioni politiche”.

Il riferimento all’inesistente “processo di pace” è quasi insultante, poiché, appunto, non esiste, se non nelle menti della UE, di Obama e di altri che pensano che si possa colonizzare il popolo con il quale si sta facendo la pace. Urca! Benjamin Netanyahuse la sta facendo addosso! Israele, ha detto, non si sottometterà ai “diktat” europei.  Sin troppo vero, socio. Poi abbiamo avuto Gordon Brown, nella sua nuova impersonificazione di Inviato Speciale dell’ONU sull’Istruzione Globale, che ha giustamente elogiato il coraggio della studentessa pachistana Malala  Yusufzai, cui i talebani hanno sparato brutalmente ma che ora è destinataria di una lettera di un comandante talebano.

Il talebano esprime il proprio rincrescimento per il suo tentato omicidio ma chiede perché le studentesse uccise e ferite dagli attacchi dei droni non ricevono la stessa pubblicità. Un buon punto. Ma interrogato da Jon Snow il coraggioso Brown – anziché disapprovare Obama per questi vergognosi attacchi robotici che così spesso uccidono innocenti – ha semplicemente ignorato la domanda. Codardia in combattimento, la definirei.

Ma questo è il problema. Una cosa è ritirarsi, cosa del tutto diversa è ritirarsi così ignominiosamente. Ritirarsi assolutamente, ma non in modo così vile. Se non hai più una spada, almeno mostra un po’ di coraggio morale.

Su nel Golan, nel frattempo, c’è il cambio della guardia. Gli austriaci, che non hanno combattuto più una guerra dopo la loro ingloriosa annessione al Reich – sotto il tizio con i baffetti, che non citeremo – stanno “facendo una Basra”, ritirandosi da forza osservatrice del cessate il fuoco dell’ONU perché la guerra civile siriana si è estesa sull’altipiano del Golan. Ma a coprire la falla c’è una piccola nazione che rimase neutrale durante gli eventi del 1939-45 – una decisione molto saggia, dico io, che ho scritto la mia tesi di laurea al Trinity College di Dublino su questo argomento – e che ha più esperienza della maggioranza nelle operazioni di mantenimento della pace: l’Irlanda.

Attraverso uccisioni da parte della milizia, bombardamenti israeliani e guerra civile, i battaglioni dell’ONU di mantenimento della pace irlandesi tengono la posizione nel sud del Libano da quasi trent’anni – sono ancora là – e molti veterani si uniranno all’unità di fanteria meccanizzata, forte di più di cento uomini, destinata a rilevare gli austriaci. Quarantotto irlandesi hanno perso  la vita in Libano, per la maggior parte uccisi da fuoco e bombe israeliane, palestinesi e di Hezbollah. Tre sono stati uccisi da uno dei loro. Ma per una forza che ha subito un bagno di sangue nell’agguato di Niemba, in Congo, più di mezzo secolo fa, gli irlandesi si portano dietro una lunga storia dell’ONU.

Un pensiero. Israele era preoccupato per il ritiro degli austriaci. Ma i suoi rapporti con i battaglioni irlandesi dell’ONU in Libano sono stati spesso deplorevoli. Quando soldati irlandesi hanno risposto al fuoco della milizia libanese, braccio armato di Israele, gli israeliani hanno mosso accuse disoneste di ubriachezza e antisemitismo irlandese.

La cosa non si è digerita bene a Dublino, ma gli israeliani oggi hanno bisogno degli irlandesi sul Golan più di quanto ne abbiano bisogno in Libano. Pace nei nostri giorni?


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org

Fonte:  http://www.zcommunications.org/if-we-are-going-to-retreat-must-we-grovel-so-shamefully-as-we-leave-by-robert-fisk

Originale: The Independent, Traduzione di Giuseppe Volpe

22 luglio 2013 http://znetitaly.altervista.org/art/11708


 

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