Angelo Roncalli: un uomo di pace – Marco Malagola ofm

Introduzione (di Marco Scarnera) – Originario di Luino, (Va) il padre francescano Marco Malagola divenne segretario del Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, monsignor Angelo Dell’Acqua, nel 1959 durante il pontificato di Giovanni XXIII. Dopo l’elezione di Paolo VI mantenne l’incarico fino al 1970, quando si recò missionario in Papua Nuova Guinea dove visse per un decennio. Rientrato dalla missione aprì l’ufficio di Giustizia e Pace per il suo Ordine. Tra il 1988 e il 1993 lavorò presso la Missione permanente della Santa Sede presso l’ONU a Ginevra, quindi a Bruxelles presso la Nunziatura Apostolica in Belgio. Nel 1998 si trasferì a Gerusalemme come responsabile della Commissione dei Diritti Umani della Custodia di Terra Santa. Tornato in Italia nel 2004, risiede oggi a Torino.

La conferenza qui riportata risale all’11 aprile 2013 e rientra nel ciclo di seminari La crisi sistemica e le alternative della nonviolenza, organizzato dal Centro Studi Sereno Regis in preparazione al convegno che esaminerà la genesi, il significato e l’attualità della Pacem in terris a cinquant’anni dalla promulgazione. Tale iniziativa è prevista sabato 5 ottobre per la Giornata internazionale della Nonviolenza (anniversario della nascita di Gandhi: 2 ottobre 1869).

Naturalmente risulterebbe legittimo domandarsi se da un’esperienza religiosa come quella cristiana possano scaturire analisi e soluzioni applicabili alle questioni economiche, sociali, politiche, culturali, toccate nei restanti seminari, quali le manipolazioni dei grandi speculatori finanziari, i conflitti strutturali del mondo del lavoro, la ricerca di forme di convivenza basate sulla solidarietà e sulla condivisione, l’urgenza di un tenore di vita equo e sostenibile.

Alcune indicazioni si lasciano ricavare dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2013: Beati gli operatori di pace. In questo documento Benedetto XVI recupera e rinnova importanti riflessioni contenute nella Pacem in terris, inserendole nel contesto odierno. Di seguito ne viene presentata una selezione di passi.

Dal paragrafo 2: “L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione. È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere o di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza”.

Dal paragrafo 3: “Come scrisse il beato Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris” [la pace comporta principalmente] “la costruzione di una convivenza fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore e sulla giustizia”.

La pace è principalmente realizzazione del bene comune delle varie società, primarie ed intermedie, nazionali, internazionali e in quella mondiale. Proprio per questo si può ritenere che le vie di attuazione del bene comune siano anche le vie da percorrere per ottenere la pace”.

Dal paragrafo 4: “L’operatore di pace deve anche tener presente che, presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali. Ora, va considerato che questi diritti e doveri sono fondamentali per la piena realizzazione di altri, a cominciare da quelli civili e politici.

Tra i diritti e i doveri sociali oggi maggiormente minacciati vi è il diritto al lavoro. Ciò è dovuto al fatto che sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari. A tale proposito, ribadisco che la dignità dell’uomo, nonché le ragioni economiche, sociali e politiche, esigono che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti”.

Dal paragrafo 5: “Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica – che ha per effetto una crescita delle disuguaglianze – sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico. Quello prevalso negli ultimi decenni postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività. In un’altra prospettiva, invece, il vero e duraturo successo lo si ottiene con il dono di sé, delle proprie capacità intellettuali, della propria intraprendenza, poiché lo sviluppo economico vivibile, cioè autenticamente umano, ha bisogno del principio di gratuità come espressione di fraternità e della logica del dono”.

È poi fondamentale ed imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri”.

Dal paragrafo 7: “Emerge, in conclusione, la necessità di proporre e promuovere una pedagogia della pace. (…) Incoraggiamento fondamentale è quello di dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare, in modo che gli sbagli e le offese possano essere riconosciuti in verità per avanzare insieme verso la riconciliazione. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono”.

Alla sensibilità di ciascun lettore rimane l’opportunità di considerare se ai tanti aspetti problematici che caratterizzano la crisi sistemica, vada correlato anche quello spirituale e di verificare se l’eredità di Angelo Roncalli costituisca una risorsa efficace per comprenderli ed affrontarli, aderendo ai principi della nonviolenza.

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L’aver accettato di trattare un tema come quello che ci riunisce oggi è stato un atto di velleitarismo da parte mia perché io non sono uno storico, né un filosofo, né un teologo, né tanto meno un economista. Sono tutt’al più un testimone e un semplice frate. Spero quindi che voi non vi attendiate da me una lezione: posso portarvi soltanto il racconto di chi, in cammino verso i novant’anni, ha vissuto interessanti esperienze di vita tra cui quella della quale mi accingo a fare memoria.

Debbo dire che stiamo vivendo un 2013 ricco di eventi sorprendenti: tre importanti cinquantenari: il pio transito di papa Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II, la grande enciclica Pacem in terris; e poi altre grosse sorprese: le dimissioni di Benedetto XVI e l’elezione del suo successore, Papa Francesco che ha voluto chiamarsi Francesco riferendosi al Poverello di Assisi, un nome che è tutto un programma… Ringrazio, ringrazio di vero cuore Nanni Salio, direttore del Centro Sereno Regis, e Marco Scarnera che mi hanno amabilmente invitato per una chiacchierata su “Angelo Roncalli: un uomo di Pace” e su una storica enciclica: la Pacem in terris, voluta e proclamata da un umile papa amato da tutti: Giovanni XXIII. I romani lo chiamavano familiarmente il “Papa Buono” e così si è continuato a chiamarlo, e così passerà alla storia. Terziario francescano, pacifico e pacificatore, la sua missione è stata quella di far sentire a tutti il dovere e la gioia di vivere la Pace. “C’è chi dice che il papa – sono parole sue – è troppo ottimista, che non fa altro che diffondere  la pace e il bene. Io troppo ottimista?”, si domandava papa Giovanni. “Ma Gesù era così, e io non voglio e non potrei essere diversamente”.

Ma chi era papa Giovanni? Era semplicemente un galantuomo, un bravo e santo cristiano che ha vissuto fino in fondo la sua vita di sacerdote, di vescovo e di papa in maniera assolutamente normale. Il suo volto emanava bontà, una bontà che rifletteva la paternità di Dio. Il volto di papa Giovanni! Un volto che illuminava come un raggio di sole.

L’enciclica vedeva la luce esattamente cinquant’anni fa, l’11 aprile 1963. Cinquant’anni giusti, come oggi, 11 aprile 2013. Era giovedì santo. Proclamata e pubblicata a poche settimane prima della sua morte, avvenuta il 3 giugno di quell’anno, l’enciclica voleva essere non solo il suo testamento spirituale, ma anche il suo dono all’umanità. Tale enciclica non poteva scaturire che dal cuore di quel grande papa che ha fatto entrare nella Chiesa un soffio di aria nuova, destinata a dissolvere antiche nebbie e a vincere antiche preclusioni. Ha sognato una  Chiesa dal volto umano convocando un Concilio, che riteneva ispirato dallo Spirito Santo, per l’avvio di una Chiesa più evangelica, più di popolo e più vicina alla gente.

La Pacem in terris è una piccola summa di diritto internazionale incentrata sul valore della persona e della dignità umana che non finisce mai di stupire per i profondi contenuti che profumano di profezia e di  attualità. Il documento sembra infatti scritto ieri in rapporto alla situazione socio-politica mondiale che stiamo vivendo. Nella redazione dell’enciclica Giovanni XXIII si avvalse dell’aiuto di Pietro Pavan, professore e poi rettore della Pontificia Università Lateranense, uomo non legato ai vecchi circoli pacelliani.

Il Papa sperava che l’enciclica potesse uscire a Pasqua attendendosi di essere ancora vivo, consapevole del progredire inesorabile del suo male allo stomaco di carattere cancerogeno, che i medici avevano diagnosticato e giudicato irreversibile fin dall’inizio dell’autunno precedente. Rileggendola ho riscoperto ancora una volta, con gioia e commozione, il valore e l’attualità dell’enciclica di un papa, amico degli uomini e dell’umanità. Tra l’altro un papa che io ho tanto amato e servito da vicino essendo segretario del suo braccio destro, il Sostituto della Segreteria di Stato Mons. Angelo Dell’Acqua. Quando si lavora accanto a persone umili e grandi come Giovanni XXIII, ci si tira addosso il dovere e la responsabilità di seguirne le orme di pensiero e di vita.

Dobbiamo dire che in cinquant’anni il mondo è profondamente cambiato. Basterebbe pensare, per esempio, alla fine della guerra fredda, quando varcare le frontiere dell’Europa dell’Est era un’avventura. Si parlava, allora, della famosa cortina di ferro. Ci si addentrava in un mondo strettamente controllato dal sistema poliziesco dei regimi comunisti. I Paesi coloniali erano appena entrati nella fase entusiasmante delle indipendenze nazionali nella speranza di creare nuovi sistemi e nuovi assetti internazionali. Oggi, invece, una parte di essi, soprattutto in Africa, sta attraversando una crisi socio-politica profonda. La guerra fredda è finita, ma le guerre non sono scomparse dalla storia degli uomini, anzi rimangono come insidiose compagne della vicenda umana. Alla grande e minacciosa tensione politica è subentrata una situazione di guerra diffusa, e anche, qua e là, di minaccioso terrorismo.

Nell’impossibilità di fare un’analisi adeguata e completa dell’importante documento pontificio, che esula dalle finalità di questa chiacchierata, ho cercato di tracciarne brevemente i passaggi, i percorsi e gli impatti storici più interessanti di quel periodo da parte di chi, come me, ha lavorato in quella cabina di regia che è la Segreteria di Stato durante tutto l’arco dell’indimenticabile stagione giovannea segnata dal Concilio e dalla Pacem in terris.

Siamo alla primavera del 1963. La prima sessione del Concilio Vaticano II si era chiusa nel dicembre precedente senza che nessun documento potesse essere votato e promulgato con la firma del pontefice. L’audacia evangelica di Giovanni XXIII non finiva di stupire. C’era sempre qualcosa di nuovo in ciò che programmava e operava. 

La Pacem in terris è stata la prima enciclica pontificia che ha allargato la cerchia dei suoi abituali destinatari indirizzandosi direttamente a tutti gli uomini di buona volontà a prescindere dal loro modo di pensare e di sentire. Nel difficile momento storico di una pace minacciata, l’enciclica si trasformò in un evento dirompente poiché indusse il mondo a un serio esame di coscienza e di conseguenza alla ricerca di dialogo e punti di incontro rispetto alla contrapposizione tra i due blocchi politico-militari, guidati rispettivamente dagli Stati Uniti, per quanto riguardava gli Stati occidentali, alleati nella Nato, e dall’Unione  Sovietica, relativamente agli Stati dell’Est che facevano parte del Patto di Varsavia.

All’uscita dell’enciclica ci fu stupore nella curia vaticana perché per la prima volta nella storia delle encicliche pontificie, un papa non indirizzava il documento, com’ era antica consuetudine, ai soli cattolici, vale a dire ai vescovi, sacerdoti e fedeli, ma anche a tutti gli uomini senza discriminazione ed esclusione alcuna: cattolici e non cattolici, battezzati e non battezzati, credenti e non credenti, insomma a tutti coloro che, pur senza professare esplicitamente la fede in Dio, testimoniano una volontà conforme alla stessa volontà di Dio che è essenzialmente, e non potrebbe essere diversamente, volontà di pace. “La pace è la casa di tutti – diceva papa Giovanni – e costruire questa casa deve essere compito dell’intera umanità”. Papa Giovanni la pace la viveva ogni giorno, nel suo significato più profondo e concreto.

Non dimentichiamo, poi, che, prima del pontificato di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II, da lui inaugurato l’11 ottobre 1962, la Chiesa cattolica era la Chiesa delle esclusioni. Erano esclusi gli ebrei, accusati di deicidio; erano esclusi i protestanti, ritenuti eretici dopo la riforma di Lutero; esclusi gli ortodossi, dopo lo scisma del 1054; esclusi i musulmani, ritenuti infedeli e combattuti con le crociate; esclusi i comunisti, accusati di ateismo e per ciò scomunicati con il decreto del 10 luglio 1949, senza neppure fare una distinzione tra i diversi movimenti comunisti, fra cui quello italiano che presentava caratteristiche differenti dagli altri; esclusi quei laici tacciati di anticlericalismo e di indifferentismo religioso.

La Pacem in terris – che possiamo definire il testamento spirituale di Giovanni XXIII –  rappresentò la prima presa di posizione contro una visione piuttosto integralista da parte della Chiesa, che già stava respirando l’aria nuova del Concilio. Si trattava di aprirsi non solo alle altre religioni, ma pure alle differenti culture, a tutti i contesti socio-politici fra cui quello comunista che dominava, allora, l’area orientale piuttosto vasta, e per molti aspetti impenetrabile, che comprendeva i popoli europei di preminente tradizione cristiana. Una vasta realtà che non poteva essere più ignorata da una Chiesa che si proclamava universale e che aveva il dovere evangelico di ricercare forme e modalità nuove per comunicare con essa.

Il nuovo Papa, appena eletto, scopre la diplomazia vaticana non sufficientemente attiva nei confronti dell’area europea orientale di estrazione comunista. Si temeva che un rapporto diretto con quei governi avrebbe significato aggirare e tradire la cosiddetta Chiesa del silenzio e stringere la mano ai suoi persecutori. D’altra parte quella vasta porzione di cristianità tagliata fuori da ogni contatto con Roma costituiva l’acuto e struggente tormento di un padre, come papa Giovanni, consapevole di avere una moltitudine di figli, privati della libertà di esprimere ed esercitare la propria fede. E’ da questa grave preoccupazione che Papa Roncalli dette il via alla paziente e progressiva stagione del disgelo nei confronti dell’area comunista. Fortunatamente, non erano mancati, da oltre la metà degli anni cinquanta, segnali, sia pur deboli, di un qualche interesse sovietico a un contatto con il Vaticano, ma erano stati considerati come ambigui e pericolosi dall’ala piuttosto tradizionalista della Segreteria di Stato e dalla Curia in genere. L’appello di Papa Giovanni per la pace nella crisi di Berlino aveva ricevuto un apprezzamento positivo di Krusciov sulla Pravda, organo del Partito comunista sovietico. Intanto il Papa della bontà cominciava a raccogliere i primi frutti della sua diplomazia tutta personale. Qualcosa si stava muovendo a sorpresa di tutti. Ed ecco che il 25 novembre 1961 il Segretario del partito comunista dell’Urss, Nikita Krusciov, dal Cremlino fa arrivare in Vaticano, tramite l’ambasciatore sovietico a Roma Kozyrev, fatto assolutamente insolito ed insperato, un sorprendente caloroso messaggio augurale per l’ottantesimo compleanno di Giovanni XXIII.

Da allora i messaggi di cortesia continueranno ad arrivare in Vaticano in occasione di altre circostanze. I rapporti Vaticano-Urss si stavano gradualmente ammorbidendo. Nel febbraio 1963 Krusciov, a seguito di delicate e laboriose trattative tra le entrambi diplomazie, libera dopo 18 anni di prigionia nei terribili campi di concentramento sovietici, i tristemente famosi gulag, la più alta personalità cattolica nell’Urss, l’arcivescovo ucraino di Leopoli, Josyf Slipyj.

Ma facciamo un passo indietro. Arriviamo all’ottobre del 62. Su richiesta del Presidente cubano Fidèl Castro, il leader sovietico Krusciov aveva disposto l’installazione di basi missilistiche a Cuba, attrezzate con testate nucleari in grado di raggiungere e colpire il territorio statunitense. Il Presidente Kennedy aveva allora deciso il blocco navale attorno all’isola di Cuba ed era giunto a minacciare un attacco militare per impedire l’installazione nell’isola di missili che riteneva decisamente inaccettabili per la sicurezza del suo Paese.

Dalla fine della seconda guerra mondiale mai la pace era stata tanto a rischio come  in quei drammatici giorni dell’ottobre 1962. Da un momento all’altro poteva scoppiare una nuova guerra di tipologia nucleare con conseguenze inimmaginabili. Lo scontro avrebbe trascinato l’umanità intera verso un conflitto mondiale atomico. Il mondo seguiva la situazione col fiato sospeso. Ricordo che in Segreteria di Stato, in un clima di intensa e febbrile attività diplomatica, era un susseguirsi di incontri incrociati di diplomatici e di emissari personali dei responsabili delle opposte posizioni tra cui si evidenziava il noto giornalista americano Norman Cousins, protagonista discreto e informale nelle trattative e nei contatti tra Kennedy, Krusciov e i diplomatici vaticani tra cui spiccava il Capo del Protocollo mons. Igino Cardinale.

La situazione si faceva drammatica. Il tempo stringeva. Finalmente si aprì uno spiraglio. Si fece largo l’idea di un possibile arbitrato che consisteva nella ricerca di una autorità a livello mondiale, super partes, accetta e gradita da entrambe le parti. Alla fine si concordò che detta autorità non potesse essere che Giovanni XXIII che fin dall’inizio del suo servizio manifestava grande spirito di conciliazione.  Il suo intervento non sarebbe stato sospetto di parzialità politica; di più avrebbe permesso sia a Kennedy che a Krusciov di uscire onorevolmente dalla critica situazione. Il Papa accettò di buon grado il ruolo di mediatore.

Il 25 ottobre scrisse un messaggio personale a Krusciov e a Kennedy perché in nome dell’umanità  mettessero una mano alla coscienza e rinunciassero all’uso della forza.

Il messaggio fu consegnato agli ambasciatori russo e americano a Roma. Fu sorprendente il fatto che il giorno dopo, 26 ottobre, la Pravda pubblicasse in prima pagina il messaggio del Papa. La risonanza fu enorme. Si poté così raggiungere una soluzione di compromesso che favorì il ritiro dignitoso dei due contendenti dalla zona del possibile scontro. Le navi russe cariche di testate nucleari dirette all’Avana invertirono la rotta e lo scontro frontale con la flotta americana fu scongiurato.

Lo spettro della nube nucleare fece paura ai capi dei due Stati, schiacciati sotto il peso tremendo della responsabilità di fronte al mondo e alla storia. Lo dimostra chiaramente quanto ebbe a dire Krusciov ai cinesi, dopo il ritiro dei missili russi da Cuba, che lo rimproveravano e accusavano di debolezza politica, e cioè che i suoi critici, i cinesi, dimenticavano che “la tigre avversaria aveva i denti atomici”.

Il mondo tirò un respiro di sollievo. Fu soprattutto per l’ intervento personale di Giovanni XXIII che si evitò la catastrofe di una terza guerra mondiale nucleare. In quel momento così nero della storia, papa Roncalli ebbe il coraggio di interpretare alla luce dello Spirito i “segni dei tempi”. Il Sostituto della Segreteria di Stato  Angelo Dell’Acqua, che ebbe un ruolo rimarchevole nella trattativa con altri diplomatici vaticani, mi confidava che fu da quella terribile crisi cubana che papa Giovanni  pensò e decise di scrivere un’enciclica che aprisse l’inizio a una approfondita riflessione sulla pace nel mondo, al fine di svilupparne la cultura, direi il culto, perché, diceva: “Dio e la pace sono la stessa cosa”.

La Pacem in terris fece da ispirazione e da stimolo ai Padri del Concilio. Essi ritennero infatti che l’enciclica di Papa Giovanni – che nel frattempo era mancato – li impegnasse a sviluppare l’idea, già in cantiere, di affrontare temi di carattere etico e sociale con una Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, precisamente la Gaudium et spes, che toccò in termini quanto mai espliciti il tema della pace. Il Sinodo dei vescovi del 1971 come l’enciclica Evangeli Nuntiandi di Paolo VI riaffermeranno e ribadiranno i concetti fondamentali della Pacem in terris, cioè che giustizia e pace sono parte costitutiva e integrante dell’evangelizzazione e che il radicalismo evangelico implica la negazione di qualsiasi neutralismo di fronte all’avanzare dell’ingiustizia, della violenza e dell’oppressione dei popoli in qualsiasi forma si manifesti.

John Kennedy, il primo e finora unico presidente cattolico degli Stati Uniti, dopo aver letto l’enciclica non mancò di dichiarare: “Sono fiero di essere cattolico”. E il segretario del Partito comunista sovietico Nikita Krusciov esclamò: “Io non sono credente, però quando Papa Giovanni scrive così, non posso che aprirmi al suo messaggio”.

La ferma volontà di pace di Giovanni XXIII continuava a suscitare interesse e apprezzamento nei dirigenti sovietici. Fu sul terreno della pace e della distensione che si stabilì un interessante rapporto tra Krusciov e Giovanni XXIII. Fu un contatto, nonostante che i due non si siano mai incontrati, di carattere prettamente personale. Krusciov, in una lettera al cancelliere tedesco Adenauer, aveva espresso chiaramente la sua completa adesione al pensiero del Papa: “Io sono un ateo e un comunista e non posso condividere la visione filosofica del mondo di Giovanni XXIII, ma io sostengo il suo impegno per la pace”. Krusciov ribadiva al giornalista americano Cousins la sua ammirazione per l’intervento compiuto dal Papa in occasione della crisi di Cuba: “Noi possiamo essere divergenti su molte altre questioni, ma siamo uniti nel desiderio di pace (…) Rispetto a ciò che papa Giovanni XXIII ha operato per la pace, devo dire che il suo intervento altamente umanistico sarà ricordato nella storia”. Nuovamente significative le parole rivolte a Cousins da Krusciov  il 13 dicembre 1962: “Io e papa Giovanni proveniamo entrambi da famiglie di contadini; siamo gente della terra. Vi è qualcosa che suscita in me grande emozione quando penso a questo uomo che, nonostante le sue fragili condizioni di salute, si dà tanto da fare pur di vedere la pace sulla terra prima di morire”. E aggiungeva: “Se non abbiamo pace e le bombe atomiche cominciano a cadere sulle nostre teste, che differenza fa essere comunisti o cattolici o capitalisti o cinesi o russi o americani? Chi potrebbe dividerci?  L’appello del papa per la pace fu come un vero raggio di luce liberatore. Gliene fui molto grato. Mi creda, quelli furono giorni veramente pericolosi”.

A questo punto mi si consenta un ricordo del tutto personale. Nel dicembre 1968, sei anni dopo la crisi cubana, l’infaticabile e paziente negoziatore dell’Ostpolitik, il diplomatico vaticano mons. Agostino Casaroli, in seguito nominato Segretario di Stato, fece in modo che io mi recassi a Mosca. Un viaggio apparentemente  turistico, ma in realtà motivato da delicate ragioni di servizio. Ebbene, durante il mio breve soggiorno in Unione Sovietica, visitando per pura curiosità in compagnia dell’amico Vittorio Citterich, corrispondente Rai, l’allora famoso museo dell’ateismo di Mosca – nota scuola di indottrinamento sistematico della negazione di Dio -, in una sala di quel museo, ci imbattemmo, incredibile ai nostri occhi, in un ritratto di papa Giovanni XXIII. Aveva il volto sorridente e sotto, in russo, la scritta: Un uomo di pace! Ci guardammo increduli e stupiti. Perfino nel museo dell’ateismo papa Giovanni aveva trovato accoglienza e cittadinanza! Ricordo si era ancora in piena guerra fredda, imperava Bresnev. Il Cremlino non aveva dimenticato lo storico intervento di Papa Giovanni e il suo decisivo contributo nel risolvere la crisi di Cuba.

Indubbiamente quell’enciclica segnò una svolta o, per lo meno, un momento decisivo nella storia del mondo, ancora diviso in due blocchi, ma anche nella storia della Chiesa. Era il tempo della famosa Guerra Fredda che durò fino alla storica rivoluzione pacifica del 1989 con la caduta del muro di Berlino e poi via via con la caduta, una dopo l’altra, degli altri muri politici dei Paesi satelliti di Mosca. Un vero sorprendente sgretolamento a valanga dal vertice della piramide dell’impero russo fino all’ultimo Paese satellite.

La Pacem in terris era profondamente innovativa. Essa trattava non di un argomento religioso, ma di un valore assolutamente umano e universale: la pace. Una delle grandi novità dell’enciclica è stata la genialità di distinguere tra errore ed errante, tra sistemi filosofici destinati a rimanere inflessibili e dogmatici e movimenti storici che, pur da essi ispirati, col tempo sarebbero stati destinati a evolversi e a cambiare, com’è storicamente avvenuto.

Non si dovrà mai confondere l’errore con l’errante” – si legge nell’enciclica – mettendo sullo stesso piano errore e errante. Errore sempre da condannare ed errante sempre da capire e aiutare nel cammino verso la  verità. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Del resto in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di poter spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della ritrovata verità. E’ il passaggio più fortemente innovativo e stimolante dell’enciclica. Ciò voleva dire che le persone, a prescindere se credenti o non credenti o seguaci di altre religioni, hanno gli stessi diritti in quanto persone in base alla legge naturale. Di qui la fiducia in un futuro da costruire, insieme, nella consapevolezza che gli incontri e le intese fra credenti e quanti non credono, possono essere occasioni per scoprire la verità. L’enciclica rivelò il primo e salutare tentativo di un papa che indicò ai popoli il modo di liberarsi dai condizionamenti ideologici per avviare tra loro un dialogo che portasse a una coesistenza pacifica e a una convivenza fondata sul rispetto reciproco. Si riferiva in particolare al mondo comunista dell’Est e ai movimenti comunisti presenti nell’Europa occidentale, così come in altre aree geopolitiche, e li invitava a confrontarsi con questa nuova prospettiva. Si aprì, in effetti, un dialogo sul piano culturale e politico che diede i suoi frutti. L’enciclica fa appello alla giusta collaborazione nel campo economico, sociale e politico sviluppando in positivo la precedente mentalità che faceva di ogni erba un fascio mettendo sullo stesso piano errore e errante.

Si deve anche tenere presente, secondo l’enciclica, che “non si possono identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché – dice il papa – le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse, mentre i movimenti, agendo sulle situazioni storiche in continua evoluzione, non possono non subirne gli influssi”. Da considerare in proposito l’evoluzione di pensiero e di attitudini pratiche che ha subito il comunismo. Pur ispirandosi a quella dottrina c’è stata tuttavia una impostazione diversa, più umana, più ragionevole. Pensiamo  alla cosiddetta “rivoluzione di velluto” e alla “primavera di Praga” di Dubcec nel 1968. L’ispirazione partiva sempre dalla dottrina marxista, ma non più applicata con le stesse norme di comportamento. Pensiamo a Mikail Gorbaciov che nel 1987 ha dato origine alla perestrojka (ristrutturazione) e alla glasnost (trasparenza). Parole dai molti significati, ma quelle che esprimono la loro essenza più precisa è la rivoluzione relativa a cambiamenti qualitativi in campo politico. E’ inutile, c’è stata una conversione politica che non si può negare e di cui non si può non prenderne atto. A questo proposito Gorbaciov scrive: “Ho battuto alle porte della storia e la storia me le ha aperte”.

Tutto ciò significa che non bisogna identificare gli uomini in carne ed ossa che ci stanno accanto, con la logica astratta delle ideologie che professano. Gli uomini non sono dottrine personificate né errori incarnati. Si tratta di processi evolutivi sempre fattibili. Insomma Giovanni XXIII invita a partire alla scoperta degli uomini aldilà delle ideologie che li dividono. E ciò che vale per gli uomini, osserva il Papa, non lo è meno per i popoli. Anche questi non si identificano con i sistemi politici che li ispirano. Spetta agli uomini politici, qualificati e saggi, ci dice l’enciclica, di determinare le tappe, le modalità e l’ampiezza del riavvicinamento dei popoli. Ma è dovere di ciascuno di noi, già ora, crearne il clima.

Veniva, così, resa possibile non solo una prospettiva ecumenica di dialogo tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane e con le religioni non cristiane, ma venivano preconizzati possibili convergenze e incontri sul piano culturale e politico tra mondi diversi, egualmente interessati alla promozione dell’uomo e dei singoli popoli. Riprendendo questo concetto, in un’udienza generale dell’ottobre 1999, Giovanni Paolo II dirà che “semi di verità sono presenti in tutte le religioni e culture” per cui sta ai cristiani individuarli per costruire il mosaico della verità. E, per celebrare la Giornata Mondiale della pace del 2001, lo stesso pontefice invitò tutti gli uomini di buona volontà “a riflettere sul dialogo tra le differenti culture e tradizioni dei popoli, indicando in esso la via necessaria per l’edificazione di un mondo riconciliato, capace di guardare con serenità al proprio futuro”.

L’eco veramente straordinaria destata dall’enciclica ha dimostrato che essa toccava i punti della più viva attualità. L’enciclica ha aiutato a capire, ancora di più, che cos’è la guerra e che la pace non è soltanto l’assenza di guerra. La Pace, leggiamo nell’enciclica, è il riassunto di quattro grandi valori. E’come una statua che poggia su quattro grandi pilastri, che sono la Verità, la Giustizia, l’Amore e la Libertà. Su questi fondamenti può essere costruita la pace.

La VERITA’ è il primo pilastro della Pace. Per una falsa verità si sono fatte le guerre. “Io ho la verità e tu non ce l’hai”.  Si sono fatte anche guerre di religione, e lo vediamo anche oggi. Si sono bruciati in piazza gli eretici. Questo avviene anche tra musulmani, tra sciiti e sunniti, tra israeliani e palestinesi, ma la verità dell’uomo, la verità della persona umana dove va a finire? Il valore della persona umana non dipende dal fatto di essere un bianco o un nero del primo, terzo o quarto mondo, di essere una persona colta o ignorante, una persona sana o ammalata… Non esistono i cosiddetti personaggi. Ogni persona umana è un personaggio. Il cuore dell’uomo non ha colore, è lo stesso cuore di tutti. Tutti quanti invece, soprattutto noi bianchi, abbiamo l’idea che valiamo e contiamo più degli altri. Si guardi solo il conto dei morti nei recenti conflitti. Tutti sanno quanti occidentali sono morti. Quanti sono i morti iracheni e afgani: no. Pensiamo ai più di due milioni nel caso dei congolesi.

Il principio di Verità su cui tanto insiste Papa Giovanni nella Pacem in terris non è tanto la verità speculativa, teorica, ma la verità dell’uomo, la verità della persona umana in quanto persona umana nella sua identità fisica e morale, in quanto essere umano. Tutte le guerre, come tutte le ingiustizie, le prepotenze e le aggressioni, partono dalla svalutazione della persona, dalla svalutazione di un popolo che è composto di singole persone, dalla svalutazione dell’ altro, del nemico, del diverso di cui ci si sente autorizzati a trattare come esseri di razza inferiore se non addirittura come se non fossero esseri umani: di qui i genocidi, gli stermini, gli olocausti, le torture, le umiliazioni. Sono certo che se Giovanni XXIII fosse vissuto qualche anno in più, dopo aver tolto dalla liturgia del Venerdì Santo l’accenno ai perfidi giudei, avrebbe aggiunto nella recita del Credo l’affermazione come questa: “Credo nella dignità di ogni persona umana”, verità sacrosanta e non altrettanto sottolineata.

Questa svalutazione e discriminazione tra le persone si estende ai popoli: quelli che si sentono superiori per sviluppo tecnologico, economico, quindi militare e politico, organizzano il mondo, ormai globalizzato, secondo i propri interessi; sapranno presentarsi come i benefattori dell’umanità, ma nel concreto ne sono gli sfruttatori e gli oppressori. Nell’enciclica il Papa si rivolge all’Organizzazione delle Nazioni Unite, costituita il 26 giugno l945, auspicando che in essa  “nelle strutture e nei mezzi”, i singoli esseri umani e popoli trovino una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono dalla loro dignità di persone e di popoli che sono diritti universali e inviolabili.

Secondo Amnesty International i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza vendono l’88% delle armi del mondo. Purtroppo le cinque grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, con il loro influsso economico e politico, sono in grado con i loro deprecabili veti di bloccare a piacimento Risoluzioni Onu che contrastano con i propri disegni politici. Ci sono poi Paesi, protetti politicamente da una o l’altra grande potenza, che, nonostante le numerose Raccomandazioni Onu contro le proprie ingiuste politiche, continuano tranquillamente a ignorarle.

Potrei riferirmi, per esempio, alle numerosissime Raccomandazioni Onu costantemente ignorate dal governo israeliano. Se esse fossero state applicate, oggi avremmo lo Stato palestinese accanto allo Stato d’Israele, entrambi sovrani e con confini certi, e le rispettive popolazioni potrebbero vivere finalmente in pace e non in una costante situazione di guerra, oggettivamente assurda e ingiusta. Ne so qualcosa perché ho vissuto diversi anni in Terra Santa. La questione dei veti al Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere assolutamente rivista e riformata. E qui il discorso sarebbe lungo. Il sogno di Papa Giovanni era che i diritti dei popoli e delle nazioni avrebbero dovuto essere tutelati da un’autorità mondiale, una specie di Onu della “comunità dei popoli”.

La GIUSTIZIA è il secondo pilastro della Pace. Essa  implica il “riconoscimento dei diritti naturali mutui e il compimento dei corrispondenti doveri”. Non ci sarà mai pace senza giustizia. Senza giustizia, pace impossibile. Penso per esempio a qualunque popolo oppresso, schiacciato dall’invasore occupante. Si potranno avviare negoziati di pace all’infinito, nell’illusione di una parvenza di pace se il dialogo negoziale sarà sempre nelle mani del più forte che vorrà sempre avere l’ultima parola. Il successo di ogni dialogo si costruisce solo e soltanto nella giustizia. Il Papa cita Sant’Agostino: “Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni se non a grandi latrocini?”. Sono soltanto enormi furti politici. Ma anche senza perdono la pace è impossibile. La bellezza del perdono! La liberazione dal perdono! Il coraggio e l’eroismo del perdono! Durante la Resistenza, avevo appena 18 anni, il 14 agosto 1944 ho assistito in Val Sesia all’impiccagione di 5 partigiani. Quei ragazzi  hanno avuto il coraggio di perdonare ai loro uccisori. 

La giustizia esige, leggiamo nell’enciclica, che “dove tra le comunità politiche sorgono contrasti di interessi, le controversie non si debbano risolvere con il ricorso alla forza ma con la reciproca comprensione e l’equa composizione”. Ognuno sa che il principio fondamentale della collaborazione, necessaria tra i popoli, trova un ostacolo nel dramma che si chiama: corsa agli armamenti. E’ un vicolo cieco dal quale si deve uscire.

La corsa agli armamenti, come è noto, si suole giustificare adducendo il motivo che, se una pace oggi è possibile, non può essere che una pace sull’equilibrio delle forze. Quindi se una comunità politica si arma, le altre comunità politiche devono tenere il passo ed armarsi esse pure. E se una comunità politica produce armi atomiche, biologiche, chimiche, batteriologiche, radiologiche, insomma armi di distruzione di massa, le altre devono pure produrre armi di pari potenza distruttiva. Non dimentichiamo le conseguenze dello scoppio del gigantesco reattore nucleare di Chernobyl! E perché non ricordare il famoso uranio impoverito? L’uranio che si mette nelle bombe è cancerogeno. Dei nostri militari che hanno operato nel Kossovo, alcuni sono morti per l’uranio impoverito. Noi rimpiangiamo quei nostri morti, ma il territorio dei kossovari è disseminato di uranio impoverito. Senza parlare dei proiettili di mortaio al fosforo bianco a Gaza e altrove.

Nell’enciclica il mite Giovanni XXIII sottolinea con forza l’assurdità non solo degli armamenti in genere, ma soprattutto di quelli nucleari, in particolare quando dice, e cito: “Ci è doloroso constatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuano a creare armamenti giganteschi”. La conseguenza che ne deriva è che “gli esseri umani vivono sotto l’incubo della paura e di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante”. Giustizia, saggezza ed umanità chiedono che venga arrestata la corsa agli  armamenti e si mettano al bando le armi di distruzione di massa e si proceda ad un disarmo integrale. Questo ideale da raggiungere con realismo, continua la Pacem in terris, è irrealizzabile o quasi se nello stesso tempo non si procede ad un disarmo integrale, che raggiunga anche gli spiriti. Bisogna adoperarsi a far sparire la paura e la psicosi della guerra e si crei un clima e una mentalità di pace. Ciò comporta che “al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia”. Purtroppo, all’origine dello sterminio dei popoli, diceva il Papa, c’è il disprezzo della persona umana.

La  Pacem in terris, nella sua forte versione latina, dice letteralmente che in questa nostra età, che si vanta della forza atomica, è una pazzia e contro la ragione (alienum a ratione) pensare che la guerra sia ancora atta a restaurare i diritti violati. La guerra è soltanto schiavitù. Grazie a Dio i semi della Pacem in terris sono tutt’altro che inariditi. La cultura della pace cresce, spuntano idee nuove, prese di coscienza contro la guerra, qualsiasi guerra. Ne fanno prova milioni di persone che nel 2003 in tutto il mondo, per protestare contro la guerra in Iraq, si sono spontaneamente mobilitate contro la guerra. Questi milioni di persone erano soprattutto donne e giovani, due soggetti politicamente deboli ed emarginati dalla politica dei grandi che decidono del destino della Terra. Le donne e i giovani sono un lievito immenso di speranza da coltivare e da sviluppare. La Chiesa dovrebbe essere decisamente più coinvolta sul terreno della pace. Gesù voleva pace per la sua terra. La pace l’ha portata lui! Dobbiamo essere ottimisti. Ricordo che Giovanni XXIII diceva che il pessimista non ha costruito nulla di buono. Dobbiamo costruire quello che Gramsci definiva “l’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione”. Dietrich Bonhoeffer, pastore evangelico e uomo di pace, condannato all’impiccagione dal governo nazista scriveva: “L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è forza vitale di sperare quando gli altri si rassegnano, è la forza di tener alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé”.

L’AMORE è il terzo pilastro della Pace. Amore, che è solidarietà e concretezza. Ama il tuo prossimo come te stesso. E’ il massimo comandamento cristiano. La solidarietà è dare qualcosa. Non è dare spiccioli. E’ mettersi a disposizione. Rendersi disponibili. Rendersi utili. Servire. Ma servire bene. E’ la gioia del volontariato. La solidarietà non è una virtù facoltativa, è, invece, soprattutto per i popoli più fortunati che è il quinto dell’umanità, un dovere di giustizia. Bisogna che abbia termine la miseria immeritata dei popoli. Ragione di più perché “le spade – di cui parla il profeta Isaia – si trasformino in vomeri di aratri”. E affinché questo aiuto di solidarietà effettiva sia valido ed accettato, l’enciclica reclama una condizione essenziale: che questo aiuto indispensabile sia dato nel pieno rispetto della libertà dei popoli in via di sviluppo.

La LIBERTA’ è il quarto pilastro della pace. “Il massimo bene che noi possiamo fare agli altri non è quello di dare loro la nostra ricchezza, ma di scoprire ad essi quella che è la loro ricchezza” scrive il filosofo francese Louis Lavelle. Giovanni XXIII esprime questa medesima preoccupazione con queste parole: “Sottolinearlo con insistenza: l’aiuto dato ai popoli in via di sviluppo non può essere accompagnato con l’usurpazione della loro indipendenza. Essi devono peraltro sentirsi i principali responsabili del loro proprio progresso economico e sociale”. Questo concetto mi ricorda la strategia che noi si adottava, e devo dire con discreto successo, in Papua Nuova Guinea dove ho vissuto dieci anni come missionario. Ricordo che nei nostri meeting non si perdeva mai di vista e ci si confrontava sempre come punto di riferimento con questa direttiva: rendere i nostri kanaka, così si chiama quella gente, non tanto destinatari (cioè non dare e dare, a getto continuo, aiuti e beni di qualunque genere, che è puro assistenzialismo, che diseduca e impoverisce moralmente), ma renderli protagonisti attivi cioè responsabili e coscienti della loro indipendenza sociale ed economica per la costruzione del proprio conquistato futuro. In una parola: non destinatari, ma responsabili.

Noi ci riempiamo la bocca della libertà con molta ipocrisia. In realtà noi perseguiamo non la libertà, ma la nostra libertà. La libertà della parte più fortunata del mondo, pagata con la mancanza di libertà degli altri. E’ la libertà di una libera volpe in un libero pollaio scrive Mons. Bettazzi. Non è un caso che le nazioni più forti di fronte ai problemi più seri diano la priorità alle soluzioni violente. Invece la libertà coincide con la nonviolenza, con il rispetto della libertà degli altri. Le soluzioni nonviolente sono le sole veramente umane, costruttive e educative, perché riconoscono le ragioni di chi le ha, anche dei più deboli, e orientano effettivamente verso la pace.

Quando parliamo di nonviolenza, pensiamo che sia una rinuncia, una viltà e menefreghismo. La nonviolenza non è non far niente, è nonviolenza attiva, che non sta con le mani in mano. La nonviolenza è una grande forza e una grande scuola. Gandhi ha ottenuto l’indipendenza dell’India senza usare la violenza fisica, ma facendo opera di sensibilizzazione e coscientizzando attraverso cortei, manifestazioni, boicottaggi, scioperi. Gandhi diceva che aveva imparato il valore della nonviolenza anche e soprattutto dal Vangelo che parla della dottrina delle beatitudini, della spada che deve rientrare nel fodero, della croce come sacrificio volontario. Il Vangelo non deve essere solo annuncio ma anche protesta. Gandhi diceva che non si era fatto cristiano perché aveva constatato quanto poco i cristiani vivono il Vangelo. Quando Gesù riceve uno schiaffo dal servo del Sinedrio non porge l’altra guancia, ma insegna, e dice: “Se ho sbagliato, dimmi dove ho sbagliato, ma se non ho sbagliato, perché mi percuoti? Porgere l’altra guancia vuol dire allora non rispondere alla violenza con la violenza, ma rispondere in modo che anche l’altro smetta di credere nella violenza.

L’enciclica Pacem in terris segnò dunque una vera svolta  perché presentava una nuova visione del mondo sollecitando tutti a realizzarla, superando con il metodo del dialogo incomprensioni e contrasti. L’enciclica rivelò il primo e salutare tentativo di un Papa che, nel promuovere il rinnovamento della sua Chiesa e della mentalità dei suoi fedeli, indicò ai popoli il modo di liberarsi dai condizionamenti ideologici per avviare tra loro il dialogo che portasse a una coesistenza pacifica, a una convivenza fondata sul rispetto reciproco.

Rammento che l’11 aprile ’63,  pochi giorni prima della pubblicazione della Pacem in terris, Lanza del Vasto, il Gandhi italiano, fondatore della Comunità dell’Arca, nel monastero trappista delle Frattocchie vicino a Roma, concludeva quaranta giorni di digiuno completo e di intensa preghiera. In una lettera indirizzata in precedenza a Giovanni XXIII chiedeva che nell’imminente enciclica fosse condannata definitivamente la corsa agli armamenti e finalmente riconosciuta la Resistenza spirituale e la Nonviolenza attiva come strumento e metodo di risoluzione dei conflitti.

La risposta a queste aspirazioni di pace e di nonviolenza non si fece attendere: arrivò il Mercoledì Santo quando fu consegnata a Lanza del Vasto copia dell’enciclica, ancora fresca di stampa, che sarebbe stata pubblicata il giorno dopo Giovedì Santo dell’11 aprile 1963. E il Venerdì Santo Giovanni XXIII fece pervenire un dono e un messaggio particolare a Lanza del Vasto. Ma il dono più grande erano le affermazioni della Pacem in terris che corrispondevano alle attese e alle azioni intraprese da Lanza del Vasto fino a  quel momento. Non solo, infatti, vi era formulata una condanna assoluta e incondizionata della guerra e vi si rifiutava la giustificazione della politica della deterrenza, ma si affermava in modo diffuso, attraverso l’opposizione alle logiche bellicistiche, il primato della pace e il definitivo superamento della teoria della guerra giusta. Erano questi elementi che offrivano un’autorevole conferma all’azione compiuta da Lanza del Vasto e dai suoi compagni dell’Arca nell’affermare la legittimità del principio della disubbidienza civile e del primato della coscienza. Mi piace qui ricordare, oltre che a Gandhi e a Lanza del Vasto, alcuni profeti e testimoni della nonviolenza dei nostri tempi a cominciare da Martin Luther King, Aldo Capitini, Antonino Drago, Giorgio La Pira, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Tonino Bello, David Turoldo, Ernesto Balducci, Alexander Langer e poi un illustre torinese nonviolento che si chiama Sereno Regis cui è dedicato questo benemerito Centro.

Alla sua pubblicazione l’enciclica suscitò un’enorme impressione nella stampa mondiale di ogni tendenza politica. Il documento parla un linguaggio semplice, diretto, da uomo a uomo, da nazione a nazione. L’enciclica è nata da una grande confidenza in Dio e, nello stesso tempo, da una fiducia nell’uomo, in ciò che di migliore l’uomo porta in sé. Venne accolta come il testamento che il vecchio e lungimirante pontefice destinava alla famiglia umana lacerata da interessi contrastanti e da forti contrapposizioni. Si era nella lunga stagione della Guerra Fredda tra Oriente e Occidente politico; si parlava di deterrenza, cioè ogni mezzo di offesa bellica posseduto da uno Stato, così efficace da scoraggiare gli altri Stati da propositi di aggressione, si parlava della corsa agli armamenti, di equilibrio del terrore. Del resto il termine “guerra fredda” la dice lunga; un rapporto è freddo quando non c’è comunicazione e si vive sul chi va là. Così era la situazione politica di quei decenni.

L’enciclica sottolineava che spettava ai singoli governi la possibilità di realizzare ogni  prospettiva di pace non con lo scontro, ma affrontando i problemi di ordine economico, culturale e politico che dividevano e che invece andavano risolti con un dialogo responsabile in quanto orientato a conseguire il bene comune.  In effetti, si aprì un dialogo sul piano politico e culturale che diede i suoi frutti.

Il suo immediato successore Paolo VI  ricordò «l’immensa ovazione di consenso» che allora si era innalzata ovunque, da New York a Mosca, e vi scorse il segno di una spontanea complicità tra la Chiesa e l’umanità. Fu, in un certo senso, l’inizio dell’inizio. Ma lo stesso papa Giovanni fu “l’inizio dell’inizio” nella vita della Chiesa. Dobbiamo dire che papa Roncalli ci ha infuso “una nuova coscienza della dignità dell’uomo e dei suoi inalienabili diritti”.

Purtroppo ciò che appare oggi è che l’umanità, o più precisamente il 20% del mondo, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle “Torri gemelle”, si è lanciato in una gigantesca corsa in investimento in armi che, diciamolo pure, sono diventate lo stesso motore dell’economia mondiale. Quando abbiamo visto crollare la Russia, il Muro di Berlino, i Paesi dell’Est, abbiamo tutti pensato che una nuova era di pace si sarebbe aperta all’umanità, invece… Invece a cinquant’anni di distanza dalla Pacem in terris, non solo non c’è pace, ma la situazione è forse ancora più tragica di prima. L’Iraq e l’Afghanistan tutt’altro che pacificati, la cosiddetta “primavera araba” e poi lo spettro qua e là del terrorismo, l’interminabile conflitto israelo-palestinese, la contrapposizione Oriente-Occidente, l’Africa sconvolta dalle mille laceranti guerre locali. E poi ancora, governi che pontificano sulla giustizia e sulla pace, ma  tuttora in possesso di armi di distruzione di massa rimandando all’infinito la firma dei Trattati internazionali relativi alla distruzione di quelle armi.

A distanza di cinquant’anni, ancora una volta risuona con tutta la sua freschezza e carica profetica l’appello giovanneo alla pace. Ancora una volta risuona nell’aria il primo commento di quel documento magistrale nell’eco di quanto lo stesso Giovanni XXIII scriveva: “In questa enciclica di mio c’è anzitutto l’esempio che volli dare nel corso della mia esistenza”. Un papa umile e buono papa Giovanni! Non si arrogava titoli di maestro, di riformatore, di magico risolutore dei problemi sollevati dalla drammatica situazione del mondo. Pago e soddisfatto solo di assolvere il suo primo dovere di umanizzare con amore camminando accanto agli uomini del suo tempo. Egli volle indicare e promuovere la via della pace che riteneva, e ne era convinto, che fosse qualcosa di assolutamente necessario per il bene dell’umanità. Papa Giovanni sognava la mondializzazione della spiritualità e del vangelo della pace. Oggi si direbbe la globalizzazione della pace.

Giustamente, oggi, si esalta la visione profetica dell’enciclica, ma non dimentichiamo, e nessuno si stupisca, che la storia della Pacem in terris fu una storia anche sofferta. Il messaggio di quell’ enciclica non fu capito da una parte della Curia più tradizionalista. Quella distinzione tra errore e errante non fu digerita da certi ambienti. Si auspicò che, così come era stata redatta, non venisse mai alla luce perché giudicata azzardata e pericolosa apertura al comunismo; non sono mancate manovre per ritardarne la pubblicazione e questo avrebbe significato ovviamente non farla uscire più. Ed era quello che alcuni speravano.

Attorno all’enciclica si raccoglievano le obiezioni e le critiche o, se vogliamo, il malcontento di certi settori destrorsi della politica e della stampa italiana e estera, Curia compresa. Non va dimenticato che ci fu chi accusò Papa Roncalli di aver favorito i comunisti italiani a prendere un milione di voti in più alle elezioni del 28 aprile 1963 a causa di quella enciclica. All’indomani della pubblicazione, un quotidiano italiano uscì addirittura con un titolo graffiante e polemico con la vignetta Falcem in terris = falce sulla terra invece di Pacem in terris. La stessa visita del direttore dell’Izvestija Alexis Adgiubej e della moglie Rada, figlia di Krusciov, a Giovanni XXIII,  il 7 marzo 1963, se fu la conseguenza di quel disgelo tra Vaticano e Urss iniziato con il messaggio augurale del 25 novembre 1961, fu vista con fastidio dalla destra vaticana e politica.

Giovanni XXIII ne soffrì e resistette alle pressioni, conservando la pace nel senso di una serenità profonda che riesce a non lasciarsi condizionare da incomprensioni, difficoltà, contrasti a volte anche forti. Scusò e perdonò. Oggi, a cinquant’anni di distanza, il messaggio della Pacem in terris è tranquillamente accettato e condiviso dall’evoluzione storica degli eventi. E’ sempre il dopo dei profeti che si ripete.

La Pacem in terris  ha fatto scuola. Nella crisi che avrebbe portato alla Guerra del Golfo, accanto alla netta condanna dell’invasione irachena del Kuwait, Giovanni Paolo II espresse un chiarissimo rifiuto della guerra.

Durante i conflitti nella ex Jugoslavia e in Kossovo popoli ed etnie venivano attaccate e private dei loro diritti fondamentali. Si assisteva ad episodi di cosiddetta pulizia etnica. Il diritto internazionale tradizionale sembrava incapace di affrontare la prova. Fu in quella situazione che Giovanni Paolo II invocava un intervento umanitario per mettere fine alla tragedia in corso. Si profilava così una nuova dottrina: l’obbligo per la comunità internazionale dell’intervento umanitario per impedire la violazione dei diritti dei popoli.  Una dottrina ancora in evoluzione che, in qualche modo, intende additare la strada verso un più efficace ordinamento internazionale.

Papa Wojtyla ha saputo mantenere viva la forza profetica Giovanni XXIII. Non  faceva che citarla nei suoi interventi, lo faceva in continuazione auspicando che la “Pacem in terris” fosse un “impegno permanente”, esortando tutti a fare una rilettura di quell’enciclica, la quale, nonostante porti i segni della sua epoca, conserva intatta una tale freschezza di attualità che attesta il dono di preveggenza del suo autore. Riferendosi ad alcuni episodi di violenza in Medio Oriente e a quelli che la cronaca quotidiana registra in tante altre parti del mondo, il 30 novembre del 2003 Giovanni Paolo II si rivolgeva ai responsabili delle grandi religioni del mondo invitandole a “unire le forze nel predicare la nonviolenza”

Le voci di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II si fondono in una voce sola: Giovanni Paolo II commemora Giovanni XXIII, da lui stesso beatificato pochi anni dopo; e lo ricorda come spirito illuminato, come uomo di speranza che non temeva il futuro, che si mostrò profeta per il mondo e per la Chiesa. Il cardinale francese Etchegaray, sempre geniale nelle sue battute, quando parla di Papa Roncalli non lo descrive come il Papa del passato, ma addirittura come il papa che viene dal futuro, per significare che era un Papa di visione, un Papa che non sapeva non guardare avanti.

Oggi non riusciamo a renderci conto della straordinaria risonanza che ha provocato quell’enciclica di un Papa ottuagenario. Appena eletto, Paolo VI si commosse ricordando l’immensa simpatia che Giovanni XXIII aveva suscitato ovunque nel mondo e vi scorse un segno di spontanea complicità tra Chiesa e Umanità, tra Chiesa e Mondo. Recitò il più bell’elogio che sia mai stato fatto a Giovanni XXIII : “Papa Roncalli è sceso nel cuore degli uomini prima ancora di scendere nella tomba”.

A 50 anni di distanza Giovanni XXIII ci riaffida la sua enciclica. Ci ricorda che la Pacem in terris è nelle nostre mani e ci coinvolge; passa attraverso i nostri piccoli gesti di vita quotidiana, nel modo di vivere con gli altri, coi vicini e coi lontani, con la gente che incontriamo per la strada. E’ così che noi scegliamo di essere pro o contro la pace. Aveva ragione Ernesto Balducci che scriveva: “Quando Dio manda uomini come Papa Giovanni è perché ci sia impossibile continuare a vivere come se egli non fosse mai venuto tra noi”.

2 commenti
  1. Paola MARIANI
    Paola MARIANI dice:

    Conosco da una vita padre Marco Malagola, so l'entusiasmo e la disponibilità che ha messo in ogni nuova avventura alla quale il Signore l'ha chiamato, ammiro la voglia di vivere che anima ogni suo gesto. Anche per questa relazione che ha tenuto presso il Centro (cui io purtroppo non sono potuta intervenire) gli sono grata, perché ha posto ancora una volta tutto se stesso al servizio di tutti noi che nel 1963 non eravamo là, a Roma, con Papa Giovanni che ha capovolto il nostro modo di intendere la fede e la religione. Grazie, padre Marco!
    Paola Mariani Andolfi

    Rispondi
  2. michele boato
    michele boato dice:

    molto bello.
    peccato si sia totalmente ignorato il ruolo, importantissimo in tutte le vicende racconate, e certamente non sconosciuto all'autore, del segretario di papa Giovanni, don Loris Capovilla.
    Michele Boato

    Rispondi

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